Non hanno avuto fortuna le elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni in Gran Bretagna il 4 luglio scorso. Oscurate mediaticamente dalle elezioni per l’Assemblea nazionale francese tenute in due turni il 30 giugno ed il 7 luglio nelle quali si consumava, in termini assoluti, lo scontro tra il Bene ed il Male, sono state lette e comunicate come un confronto all’insegna del pragmatismo un po’ arido in un paese di cui non si conosce bene l’ambito del dibattito pubblico e dello scontro politico, soprattutto da quando ha lasciato l’unione Europea nel 2016, ed il cui risultato, ampiamente annunciato dai sondaggi, non lasciava spazio al brivido dell’incertezza: era previsto un ampio successo dei laburisti di Keith Starmer ed il crollo dei conservatori del premier Sunak, e successo e crollo sono stati.
Con noioso pragmatismo, il 5 luglio a Londra si è insediato il nuovo governo mentre a Parigi, a un mese dalla proclamazione dei risultati elettorali, ancora non è in carica ed è atteso per la fine dei Giochi olimpici: la Francia ancora garantisce emozioni, mentre è noiosamente ordinaria l’efficienza inglese.
Eppure i risultati delle elezioni inglesi suggeriscono alcune riflessioni che fanno intravedere, nell’apparente normalità, inquietudini sottostanti foriere di tempesta futura.
Una vittoria con il consenso fragile
Intanto meno elettori sono andati alle urne: nel 2019 l’affluenza era stata del 67,3% (31,8 milioni i votanti) ma nel 2024 si è fermata al 60% (28,9 milioni i votanti) con una riduzione di quasi 3 milioni di votanti.
Come è noto, nel sistema elettorale inglese in ogni collegio elettorale (650 in tutto) vince il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti. Non è necessario ottenere il 50% dei voti e i voti per gli altri candidati vanno di fatto persi. Questo è noto come voto first-past-the-post, sistema maggioritario secco a turno unico.
Il Labour ha conquistato 412 seggi dei 650 in palio, più che raddoppiando la precedente rappresentanza parlamentare quando era guidato da Jeremy Corbyn, così garantendosi una ampia maggioranza parlamentare nonostante sia stato votato solo dal 33,8% degli elettori (+1,7% sul 2019), riuscendo comunque a compensare l’allontanamento dalle urne di elettori dell’ala radicale che si riconosceva in Corbyn e che non condivide il taglio riformista e pragmatico impresso da Starmer al Labour (da 10,3 milioni di voti del 2019 è sceso a 9,7 milioni nel 2024).
Una rappresentanza parlamentare per il Labour che avvicina quella conquistata da Tony Blair nel 1997 che ottenne 418 seggi conquistando il 43,2% dei voti (13,5 milioni) in una elezione nella quale era andato alle urne il 71,3% degli elettori.
Conservatori: tracollo con spostamento a destra
È stato il crollo dei conservatori, frastornati e delusi dai tre governi a loro guida che si sono succeduti dal 2019 – Boris Johnson Liz Truss e Rishi Sunak- che si sono rivelati incapaci di fronteggiare le conseguenze della Brexit sulla economia e sulla società inglese, aggravata dalla pandemia del 2020. I loro voti sono scesi da quasi 14 milioni (43,6%) a 6,8 milioni (23,7% quasi -20 punti percentuali in meno) ed hanno visto ridursi di due terzi la loro rappresentanza parlamentare, da 365 a 121.
Ma la novità che preannuncia future turbolenze è il massiccio consenso ricevuto, oltre 4,1 milioni di voti, da Reform UK, guidati da Nigel Farage, il vincitore della Brexit. Sono milioni di voti sottratti ai conservatori causandone la sconfitta e che hanno fruttato solo pochi seggi ma rappresentano una futura ipoteca sulla politica inglese. Farage si è presentato con un “contratto con gli elettori” (vi ricorda qualcuno?) basato sul blocco dell’immigrazione verso la Gran Bretagna e l’allontanamento forzato dei clandestini, anche con l’abbandono, da parte del Regno Unito, della Corte Europea sui Diritti Umani. Si aggiunge la proposta innalzare la soglia fiscale minima a 20 mila sterline di reddito annuo, liberando 7 milioni di lavoratori meno abbienti dalle tasse. Il tutto con un consistente aumento della spesa pubblica, finanziata con tagli alle politiche per l’ambiente
Assieme, Conservatori e Reform, hanno ricevuto 11 milioni di voti e l’obiettivo di Farage è di spostare a destra i conservatori, su posizioni in linea con quelle dei repubblicani americani ormai egemonizzati da Donald Trump.
Le terze forze
Si conferma come terzo gruppo parlamentare quello liberaldemocratico che, con un modesto incremento percentuale (+ 0,7% che lo porta al 12,2%), passa da 8 a 72 seggi con 3,5 milioni di voti mentre si spengono gli indipendentisti scozzesi che mandano a Westminster solo 9 rappresentanti, contro i 47 che avevano.
Emergono poi, nel panorama politico inglese i Verdi che, con quasi 2 milioni di voti ed il 6,8%, ottengono soltanto 4 seggi.
I cittadini e il disincanto della politica
In queste elezioni, hanno rilevato numerosi osservatori, è emersa una straordinaria volatilità della politica, l’idea stessa di seggi sicuri pare dissolversi
Gli elettori sono disincantati dai politici dell’establishment: secondo l’ultimo British Social Attitudes Survey il 45% dei cittadini, un livello record, “quasi mai” si fidano del fatto che i governi mettono gli interessi della nazione al primo posto, rispetto al 34% del 2019. Questo ha sicuramento spinto il risultato di Reform UK ma anche nella buona performance dei candidati indipendenti che protestano contro quello che ritendono equivoca la posizione del Labour nel condannare la guerra a Gaza, ma anche nello scarso entusiasmo per lo stesso Starmer, che entrerà in carica con un indice di gradimento negativo. Gli elettori, come qualcuno ha scritto, hanno assegnato un’enorme vittoria a un partito che sembra suscitare poca eccitazione.
Il pericolo vero è che Starmer scelga di essere cauto proprio quando servirebbe audacia. Durante la campagna elettorale ha optato per la strategia del “vaso Ming” per evitare polemiche e non esporsi a possibili attacchi: d’altronde Reform UK è arrivato secondo dopo il Labour in molte circoscrizioni elettorali e mira a conquistare gli elettori della classe operaia. Secondo alcuni osservatori questo dovrebbe imporre di essere più duri sull’immigrazione, di procedere lentamente sulla decarbonizzazione e la transizione verde e di fare di più per proteggere i posti di lavoro nazionali.
Ma non è questa la strada che il Labour ha indicato: la strada scelta è quella giusta, di risolvere il problema della produttività stagnante della Gran Bretagna. Per stimolare la crescita economica è necessario un governo disposto a rompere lo status quo e a non subire i condizionamenti di corporazioni, comitati del no ed in generale di quelli che dallo status quo traggono posizioni di rendita. Se Starmer riuscirà a migliorare la cronica bassa produttività della Gran Bretagna e ad aumentare l’efficienza dello Stato britannico, allora da Londra potrebbe offrire una lezione ai centristi altrove: non solo come conquistare il potere, ma come usarlo.
I centristi italiani in particolare ne hanno bisogno e potrebbero trarre dal Labour qualche lezione per il futuro: certo non dall’esperienza del Nuovo Fronte Popolare francese, che punta tutto sul mantenimento di condizioni di welfare insostenibili e sulla redistribuzione, nel delirio di tassa e spendi predicato da Piketty. Un sinistra che ha problemi con la Francia profonda della provincia e che come leader riesce ad indicare solo la Ragioniera capo del Comune di Parigi…
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