E’ da tempo convinzione comune che in campo economico la “Politica” abbia margini di intervento molto affievoliti: l’impersonalità dei mercati a dimensione planetaria, le multinazionali, l’internazionalismo (per ironia della sorte) capitalistico ed anche i conflitti che mettono in competizione tra loro interi continenti fanno sì che ai parlamenti nazionali restino le briciole delle decisioni … e va bene, ma quello economico non è il solo settore in cui la capacità decisionale della “Politica” e delle istituzioni democratiche segna il passo.
Nella sfera dei diritti legati alla cittadinanza, alla sessualità ed alla fine della vita la “débâcle” è forse maggiore.
Da quando, 27 febbraio 2017, il signor Fabiano Antoniani, meglio conosciuto come Dj Fabo, riuscì nel suo intento di suicidio assistito, il parlamento non ha prodotto alcuna norma di legge ed ha lasciato alla corte costituzionale l’onere di sopperire al vuoto normativo … ma si potrebbe dire anche dal dicembre del 2006, quando, per inciso, furono negati i funerali cattolici al cattolico Piergiorgio Welby.
In particolare, questa volta, si è trattato di assumere una decisione sulla costituzionalità o meno dell’articolo 580 del Codice Penale, nel processo contro Mauro Cappato accusato di aiuto al suicidio. In attesa di poter leggere la sentenza sappiamo che l’imputato non è stato riconosciuto punibile. Ora il legislatore non dovrebbe più esimersi dall’assumersi le proprie responsabilità (“fare il suo mestiere”): approvare norme di validità generale in linea con quanto ha deciso la Corte nel caso particolare.
Lo farà? C’è da dubitarne.
Mentre in quasi tutti i paesi europei vigono norme per le quali il processo a Marco Cappato non avrebbe avuto ragione nemmeno di iniziare, da noi siamo di fronte al solito ricorrente “tabù”, alla cortina fumogena dietro la quale spunta sempre l’influsso potente delle religioni ed in particolare di una per motivi di storia e geografia.
O la cosa sarà lasciata ancora una volta nei cassetti di Camera e Senato fino al prossimo caso eclatante o ci toccherà assistere al “déjà vu” della vicenda di Luana Englaro se la destra andrà all’attacco di quello che ha già chiamato “suicidio di stato imposto per legge” (Salvini).
Questa definizione è davvero emblematica, come lo potrebbe essere un “lapsus” che ci scappa involontariamente e ci fa arrossire, tuttavia, anche se è un’iperbole sconsiderata e falsificante, ha la dote di planare sulle coscienze di molti e di radicarsi in loro senza alcun stridore di contraddizioni.
Una norma che consenta, in casi estremi e debitamente indicati, di far decidere a colui che soffre, per mali incurabili, fortemente invalidanti e irreversibili, cosa fare di se stesso, diventa un “suicidio di stato imposto per legge”, cioè si afferma che lo stato imporrebbe il suicidio. Credo che persino l’inconscio freudiano, dove non valgono le regole della logica a cominciare dal principio di contraddizione, del terzo escluso etc., riterrebbe eccessiva questa definizione perché, appunto, troppo contraddittoria. Ciò nonostante la propaganda si baserà soprattutto su questa antitesi, “Stato”-“morte”: lo Stato non può consentire la morte … e qui verrebbe subito da dire: “E le guerre allora?”
Con una grossa fetta di classe politica geneticamente abituata a non farsi scrupolo di cedere alla propaganda anche quando si tratta di problemi che affliggono pesantemente le persone, senza nemmeno pensare un attimo di affrontarli per quello che sono, ma solo per l’utile che ne può derivare, c’è da aspettarsi solo o l’insabbiamento, perché si ritiene troppo difficile trarne un vantaggio politico, o la “bagarre” senza quartiere perché il vantaggio si reputa di ottenerlo solo all’ultimo sangue.
In entrambi i casi spesso non si arriva a nulla.
Qui ci sono persone che soffrono un dolore indicibile, le loro facoltà vitali sono pesantemente compromesse da patologie i cui effetti si aggravano di giorno in giorno, di anno in anno, la vita spesso dipende da macchine o da farmaci comunque con effetti devastanti, la speranza è stata ormai vinta dalla durezza della realtà, resta loro solo la certezza di sofferenze maggiori fino alla morte.
A questo punto si chiede: “Può essere consentito a queste persone, se è ciò che desiderano, di rinunciare, quando non ce la fanno più, alle macchine ed ai trattamenti che le tengono in vita ed essere, se necessario, aiutate a spengere le ultime insopportabili sofferenze?”
A questa domanda il senso di umanità che alberga in fondo al cuore di ciascuno non potrebbe che dare risposta affermativa.
In fondo è ciò che succede ogni giorno negli ospedali.
Quante Luana Englaro ci sono attorno a noi che se ne vanno senza che lo sappia nessuno?
Qull’eroe civile di suo padre ebbe il “torto”, secondo me il merito, di proclamare un diritto e tentare di farlo riconoscere alla luce del sole, ed il signor Dj Fabo ha fatto lo stesso, quando nella maggioranza dei casi si spengono le macchine e … tutti zitti.
Potrebbe essere fatta una sola obiezione, però di carattere religioso: ognuno può disporre pienamente solo di ciò che è suo, ma la vita non è tua, è il dono di un dio buono e misericordioso.
A parte che comunque sarebbe un dono sui generis, innanzi tutto perché con il dono la proprietà si trasferisce completamente e poi perché il dono in genere non viene mai ripreso, ma la vita invece si, sempre. Inoltre è e resta un articolo di fede: milioni di persone che nel mondo nascono con la sola prospettiva di morire di fame potrebbero nutrire legittimamente qualche dubbio. Anche le fedi però vanno rispettate, ma, vivaddio, anche chi la fede non ce l’ha ha diritto al rispetto soprattutto sulle questioni di vita e di morte.
Per questo dovrebbe esistere un “luogo” che garantisca i diritti di tutti indistintamente, di chi crede e di chi invece no, di chi la pensa in un modo e di chi in modo opposto. E questo luogo non può essere che quello laico della vita civile in uno Stato che è di tutti perché non è di nessuno e nel quale ognuno abbia gli stessi diritti “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art.3 Cost.), appunto.
Le chiese facciano pure il loro lavoro, ma senza invadere il territorio di tutti, e rispettino chi la pensa in modo diverso.
Sembra invece che riconoscere un diritto a chi non accetta tutte le conseguenze degli articoli di una fede equivalga a stabilire l’obbligo di violare quella fede stessa (“suicidio di stato imposto per legge”), che comunque, come tale non dovrebbe imporre i suoi principi nel territorio che deve essere di tutti.
C’è la legge sul divorzio, ma nessuno ti obbliga a divorziare, sull’aborto, ma non sei obbligata ad abortire, sul fine vita, ma non sei tenuto affatto a morire prima.
Una legge che garantisce i diritti di tutti non viola i diritti di nessuno … a meno che, riconoscendo un diritto a chi non crede o, più spesso, crede in modo diverso, non si pensi che ne resti contaminata l’intera società e questo sarebbe davvero un pensiero tremendo.
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