Nella storia comunista la parola «pace» ha a che fare con l’idea di un nuovo ordine internazionale, in cui ciò che è desiderabile è parte di una strategia di dominio. Di questo si è avuto una prova sfolgorante con la visita di Xi Jinping a Putin, dove è stato messo in vetrina il pretestuoso progetto di pace fra Russia e Ucraina per segnalare che il padrone di casa tradizionale del pianeta, gli Usa, stanno declinando e che i suoi nemici si sono alleati per batterlo. Ha ragione Nicky Haley, l’ex ambasciatrice all’Onu, quando sul Wall Street Journal spiega che se la Russia vince, anche il suo migliore amico che l’ha sostenuto dall’inizio vince la guerra del secolo, quella per superare gli Usa militarmente, economicamente e culturalmente. I due insieme promettono questo, altro che pace. Forse Zelensky dimostra preoccupazione quando dice che «il fatto che la Cina ha cominciato a parlar dell’Ucraina è molto buono». Ma si può scommettere, e il leader ucraino non può non sospettarlo, che nelle riunioni si è parlato molto di armi cinesi alla Russia, di quanto serva a un’effettiva vittoria, semmai manchi il successo sul terreno; ed è certo molto utile per Putin la proposta della Cina di rimuovere ogni sanzione. Putin al suo «caro amico» ha lasciato la porta aperta all’idea della sua pace e non stupirebbe sapere che hanno parlato anche della «pace» prevista per Taiwan da Xi.
La pace della Cina è una «guerra di posizione», che si svolge all’insegna della parola più abusata del nostro tempo. Una pace in guerra. Un modo di mandare in confusione il mondo occidentale. Ed è una sua grande trovata. Mentre si dipanava in tutto il mondo che cerca la sua strada (Kazakistan, Pakistan, Maldive) la strategia per rimpiazzare gli Usa come superpotenza con la Via della Seta e gli americani cercavano una contrapposizione mondiale senza riuscire a trovarla, ecco che Xi scopre il ruolo di pacificatore. Conflitti impossibili? Chiedete alla Cina. E così, mentre il Medioriente viene abbandonato dagli Stati Uniti, la rivoluzione iraniana non trova supporto, il 10 marzo Xi ha mediato un accordo per ristabilire relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita, i grandi nemici, il leader del mondo sciita e di quello sunnita. Questa pace dà un calcio agli Usa che, dopo la botta infertagli da Obama, avevano recuperato con gli Accordi di Abramo. Una chiave della vicenda è nelle immagini di Biden in Arabia Saudita il 22 luglio e quelle di Xi il 22 dicembre. Riad si è ritenuto il miglior interlocutore degli Usa da quando Mohammed Bin Salman nel 2017 ha assunto la seconda posizione nel reame. Biden, dopo l’assassinio di Kashoggi, non ha mai mancato di far notare il suo disprezzo per il principe. Poi è venuta la contesa sul petrolio, e la visita è stata nervosa, depressa. Xi ha fermato per ora gli houti, mentre non contesta l’Iran né per i diritti umani né per l’uranio arricchito, ma con la forza della Cina promette un bastione per i sauditi mentre fa accordi sul commercio, il petrolio, la tecnologia. Hamas, la jihad islamica, gli Hezbollah, hanno espresso grande soddisfazione per questa «pace». Se questo danneggerà anche gli accordi di Abramo è difficile dire. Israele è un bastione di sicurezza e tecnologia che ha un valore a sé. Certo le scandalose tappe dell’abbandono dell’Afghanistan nel 2021 e il seguito di episodi di debolezza, fino al pallone cinese che per giorni ha spiato l’America, devono aver portato una ventata di buon umore ai pacifici interlocutori seduti al Cremlino in questi due giorni.
(questo articolo, già pubblicato da Il Giornale, è ripreso con il consenso dell’autrice)
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