Tra il ciarpame anti americano e anti occidente che grazie appunto alla democrazia occidentale si stipa sulle bancarelle populiste e antimperialiste del libero mercato delle idee e delle opinioni spicca, perché oggettivamente più sofisticato e decoroso, l’argomento che USA e UE hanno interessi non coincidenti, se non divergenti. E che quindi un’alleanza strategica tra i due è un errore storico.
Interessante indagare la genesi storica di questa affermazione: verificheremo che origina da due ideologie e posizioni politiche contrapposte.
Già a partire da “Sinistra Nazionale” (qualcuno della mia età se la ricorderà addirittura attiva nelle fabbriche) per arrivare al suo naturale erede attuale, l’Unione Socialismo Nazionale (consultare il sito), e perfino in qualche settore del vecchio MSI più antiamericano che anticomunista, era viva l’idea che l’Europa debba liberarsi del giogo americano per giocare un ruolo autonomo, il cui primo requisito, guarda un po’, doveva essere un dialogo “tra pari” con l’Unione Sovietica.
Ma anche a sinistra suonava in fondo la stessa musica: Togliatti affermava nel 1951 “Noi non vogliamo affatto separare l’Italia dal resto dell’Europa… ma diciamo che l’Europa deve essere presa qual è. L’Europa comincia agli Urali e finisce all’Oceano Atlantico. Avviciniamoci a tutti i popoli europei, troviamo un modo di collaborare più stretto con tutti questi paesi, dalla Russia all’Inghilterra, dai paesi di nuova democrazia alla Francia. Si faccia un tentativo simile, ma non nel nome di un piccolo gruppo di satelliti dell’imperialismo degli Stati Uniti, non per spezzare in due il Continente”. Posizione successivamente ammorbiditasi, soprattutto nella sinistra socialista, nella aspirazione ad una Europa unita e “indipendente”. Notevole che negli anni ’40, allorché si dibatteva sull’adesione dell’Italia alla NATO, molto diffusa fosse nel mondo cattolico (Dossetti, Gronchi e addirittura ambienti del Vaticano) una posizione neutralista.
E ‘piuttosto evidente la continuità di queste posizioni di quelle che emergono ora, nello stress della guerra “calda” provenienti dagli stessi ambienti culturali. E‘ chiaro che le motivazioni ideali che sottostanno possono essere diverse tra di loro, andando da una vecchia infatuazione bolscevizzante per la Russia ad un pacifismo integrale e metafisico. Tuttavia si può individuare un comun denominatore tra di esse: la sfiducia, se non l’ostilità, verso la cultura dell’occidente liberale e delle sue declinazioni politiche.
Concorrono diverse motivazioni: dall’ammirazione per quello che Engels definiva il modo di produzione asiatico con le relative sovrastrutture politiche, che può prendere la forma esteriore del dispotismo comunista o di quello zarista, alla diffidenza per una cultura che in nome della libertà mette in discussione tradizioni, dogmi, proibizioni ed obblighi. Rimarchevoli in questo senso i continui coming out del Patriarca di Mosca, ma più in generale negli ambienti religiosi circola un giudizio contrariato per l’individualismo, il presunto relativismo, il preteso edonismo di cui sarebbe intrisa la cultura liberale dell’Occidente.
Sicché alla fine, al netto degli estrosi tatticismi e degli immaginifici distinguo, la questione, come del resto ha sentenziato in una recente intervista Sergey Karaganov, consigliere di Putin è che “questa è una guerra contro l’Occidente”; per maggiori dettagli consiglio una visita al sito del movimento rosso-bruno) che on line cela i nomi dei suoi redattori ma rimanda opportunamente ai siti del partito nazionalbolscevico russo.
E’ proprio così? Difficile pensare che al netto delle porcate che sopra abbiamo indicato la koinè antioccidentale che vediamo fiorire sia semplicemente frutto del delirio di disagiati mentali o di mestatori pagati dal Cremlino. La verità purtroppo è che essa è ben radicata in settori non marginali della società. Tuttavia non appare chic, soprattutto negli ambienti intellettuali, sollevare argomenti che giustifichino la preferenza per il russian way of life (impresa peraltro temeraria), pertanto essa viene declinata sul piano dell’equidistanza e del giudizio farisaico circa l’equilibrio delle colpe reciproche. Si tratta di un approccio tipo “elegante e non impegna”, la cui essenza consiste nel mettere sulla bilancia le colpe dei due contendenti: numero di guerre, di morti, ecc. Simpatico espediente grazie al quale qualunque evento storico si relativizza, perché in fondo entrambi i protagonisti di una qualsiasi guerra hanno una qualche ragione, non cattiva a priori: le rivendicazioni dinastiche della Casa Reale Inglese all’origine della Guerra dei 100 anni non erano campate per aria; e chi aveva ragione nella Guerra dei 30 anni? Napoleone insanguinò l’Europa ma vi fu spinto dal non immotivato timore di essere accerchiato e soverchiato; che dire poi delle buone ragioni (rileggere Keynes) della Germania umiliata dai Trattati di Versailles? Questo modo di leggere la storia consente in modo arguto e signorile di non prendere posizione. Una lunga sequenza di «non ci sono buoni e cattivi», ma solo situazioni complesse, nelle quali cercare l’interesse comune…”. Di questo irenismo della complessità, scettico e cinico, continua a grondare parte della società italiana e del mondo politico.
Esiste anche un’altra strada altrettanto presentabile: quella di chi dice che, premesso che Putin è un maiale criminale, noi però (Italia ed Europa in genere) non possiamo pagare i prezzi di una guerra fatta di sanzioni radicali e men che meno di crescita delle spese militari. Per non parlare dei rischi del termonucleare. L’argomentazione ovviamente non è priva di fondamento: gli effetti collaterali, sui quali non mi soffermo, sul PIL, sull’inflazione, e di riflesso su tutta l’economia, i redditi e l’occupazione, saranno certamente dolorosi. Tuttavia non evitabili: l’aumento del prezzo dell’energia era già in corso ben prima che scoppiasse la guerra (+500% al mercato spot dei Paesi Bassi) causato da un lato dalla crescita di domanda delle economie in ripresa dopo la crisi Covid dall’altra da una politica di contrazione dell’offerta da parte dei produttori (Russia in testa) finalizzata a far aumentare i prezzi. La guerra avrà peggiorato la situazione, aggiungendovi la carenza di alcune materie prime come i cereali e altri prodotti base per l’alimentazione. Il dramma è principalmente per i Paesi subsahariani, poco presenti al cuore dei neutralisti di casa nostra. E comunque i contraccolpi economici ci saranno anche in casa nostra. Difficile peraltro che una guerra non ne provochi: anche se noi non la combattiamo (precisiamo per comprensione di Salvini) gli effetti collaterali ce li beccheremo: leccare il culo a Putin non servirà.
Ma alla fine occorrerà prendere atto che questa guerra, nella sua pur piccola scala, introduce probabilmente ad una nuova dimensione della storia: quella in cui (absit iniuria verbis) saranno in competizione (speriamo meno possibile in conflitto) modelli di vita e di relazioni sociali: il liberalismo occidentale, con in suo allegato di libertà individuali, democrazia politica, libertà economica, tolleranza, contro altri modelli. Se vogliamo semplificare (ma Xi si offenderebbe…) vs. il modello asiatico descritto da Engels, che fa (come facilmente constatabile) proficuamente a meno di libertè, egalitè e fraternitè. E magari contro un eventuale Islam che volesse scegliere la strada dell’integralismo.
Intendiamoci: non credo che i conflitti planetari prossimi venturi saranno crociate ideologiche; le ragioni materiali saranno ovviamente decisive: competizione per le risorse primarie e l’energia, le autostrade commerciali, la trasformazione digitale. Ma mentre nella prima fase della globalizzazione il pianeta era teatro di concorrenze più o meno a 360° e le catene del valore si formavano su basi puramente di convenienza economica, molto probabilmente negli anni venturi si imporrà un criterio che condizionerà quello della pura convenienza economica: ossia quello dell’appartenenza ad un sistema politico ed economico capace di garantire un valore aggiunto a chi ne fa parte in termini di qualità della vita, libertà di intraprendere, libertà di scelta nella vita civile e in economia, oppure a sistemi orientati diversamente. Il che, come già osservava Dario Di Vico sul Foglio, porterà a riorganizzare le catene planetarie del valore su basi politicamente coerenti.
Probabilmente dovremo attrezzarci a confliggere non solo più per il prezzo del petrolio, ma soprattutto per valori culturali che consideriamo irrinunciabili per la vita concreta delle nostre società: la guerra in Ucraina è un’ottima anteprima! Siamo fiduciosi: in fondo la guerra è l’attività in cui l’Homo Sapiens ha saputo sviluppare la massima capacità creativa. E alla fine, anche a furia di guerre (il Papa mi perdoni) l’umanità è progredita non poco..!
Mauro
Come sono d’accordo!