Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale svolgono gli incontri di primavera all’insegna degli effetti del conflitto in Ucraina, dei rischi di un’inflazione cronicamente elevata, del rallentamento della ripresa dalla pandemia e dell’insicurezza alimentare per le aree più povere. Kristalina Georgieva, direttrice operativa dell’FMI, ha sottolineato che siamo al cospetto di “una crisi che si aggiunge a una crisi”, provocando una riduzione delle previsioni di crescita per 143 Paesi nel 2022 e 2023. Inoltre, ha segnalato il pericolo incombente di una “frammentazione dell’economia mondiale in blocchi geopolitici”, osservando che l’integrazione realizzata dopo la guerra fredda aveva triplicato le dimensioni dell’economia globale e alleviato nettamente la povertà per 1,3 miliardi di persone. Secondo l’economista John H. Cochrane, assistiamo alla fine di un’illusione economica, ovvero alla conclusione di quella che chiama “l’era del pio desiderio”. Il Financial Times, scrivendo di una natura mutevole della globalizzazione, ha messo in guardia dall’oscillazione del “pendolo economico”. Infatti, questo ciclo globale, che ha creato una prosperità senza precedenti a livello mondiale, ma anche nuovi tipi di disparità, è durato un quarantennio e ora, con la guerra, rischia di fluttuare nella direzione opposta, proprio mentre si avverte la necessità della costruzione di un nuovo ordine internazionale. Il New York Times ha pubblicato, in questi giorni, le opinioni antitetiche di due editorialisti. Per David Brooks, la globalizzazione è terminata e sono iniziati conflitti culturali globali. In un corposo articolo, evidenzia come quello ucraino potrebbe essere il primo campo di battaglia di una lunga lotta tra sistemi politici diametralmente opposti. Solo che oggi, a differenza della guerra fredda, l’ostilità non ha matrici esclusivamente politiche o economiche, ma pure culturali, di status, psicologiche, morali e religiose, fondandosi sul rifiuto dei modelli occidentali da parte di una fetta consistente della popolazione del pianeta. È in atto, poi, uno scontro tra democrazie e autoritarismi, con confini geografici più labili di quelli tracciati dal politologo Samuel P. Huntington, visto che passa anche all’interno dell’occidente. Al contrario, per Peter Coy, l’altro editorialista, la globalizzazione non è finita, ma sta mutando forma. Egli mostra come il volume degli scambi mondiali sia più ampio che mai. La globalizzazione, pur essendosi contratta negli ultimi anni e fortemente ristretta nel 2020, è rimasta molto al di sopra del livello di alcuni decenni fa. Così come, gli investimenti esteri, dopo una fase di debolezza, hanno conosciuto un balzo nel 2021 e i mercati finanziari risultano ancora notevolmente interconnessi. Infine, il superamento di un’eccessiva dipendenza da fornitori lontani non significa far rientrare tutti gli approvvigionamenti in aree interne o limitrofe. Janet Yellen, segretario del Tesoro degli USA, a sua volta ha proposto una nuova Bretton Woods, con una palingenesi di FMI e Banca Mondiale. In questo modo, secondo la giornalista finanziaria Rana Foroohar, il commercio si ricollega ai valori e viene ripreso il percorso del 1944 “per ricucire un mondo dilaniato dalla guerra e creare una società più sicura e coesa”, sapendo che, ora come allora, i mercati non possono farcela da soli, ma occorrono regole innovative. La situazione odierna, nonostante gli effetti delle crisi finanziaria, pandemica e bellica, è di frenata dei processi di integrazione ma non dei fenomeni di interdipendenza, che risaltano in tutta la loro portata. E la globalizzazione – a cominciare dai mezzi di comunicazione, che fanno del conflitto un evento simultaneo in tutta la terra – appare sempre attuale. La divisione non è tra globalisti e patrioti, come sostiene la destra francese, ma tra forme diverse di approccio alla globalizzazione. Uno studioso del calibro di Immanuel Wallerstein, cercando di dare un senso compiuto alla comprensione dei sistemi-mondo, riteneva che lo studio dei fenomeni globali per ambiti distinti (politica, economia, struttura sociale e cultura) non fosse frutto della realtà, ma della nostra immaginazione: “I fenomeni affrontati in questi comparti separati sono così strettamente intrecciati che ogni comparto presuppone gli altri, ognuno incide sugli altri, ognuno risulta incomprensibile senza tener conto degli altri”. Alla fine del secolo scorso, l’economista, sociologo e urbanista Pierre Veltz è stato il primo a parlare di una “economia-arcipelago”, frutto di reti lunghe che superano le gerarchie nazionali. Oggi, un mondo sempre più complesso e tormentato chiede di ripensare la globalizzazione in maniera selettiva, accelerando la transizione e rendendola più sistematica, con lo sguardo rivolto alla necessità di un nuovo ordine generale, in grado di ricostruire le filiere geopolitiche ed economiche. Non è una fuga in avanti rispetto alla sanguinosa guerra in atto e al disaccoppiamento dei rapporti internazionali, ma la modalità con cui disegnare, nel fuoco di uno scontro epocale, un possibile futuro dell’umanità.
La globalizzazione selettiva
Questo ciclo globale, che ha creato una prosperità senza precedenti a livello mondiale, ma anche nuovi tipi di disparità, è durato un quarantennio e ora, con la guerra, rischia di fluttuare nella direzione opposta.
Please follow and like us:
Lascia un commento