“La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale” (Effegi Edizioni) è il titolo del libro, scritto a tre mani da Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso.
Tre punti di vista sulla crisi, differenti per sensibilità e formazione (filosofico-politologica, storica, geopolitica), che convergono su un punto: le classi dirigenti occidentali devono possedere almeno una virtù, la lungimiranza, ovvero una certa capacità di previsione e di realismo politico per realizzare un equilibrio adeguato tra leader, leadership e popolo. per non condannare le società da esse guidate a far la fine dei sonnambuli.
La globalizzazione è davvero finita? Oppure sta cambiando?
Per gli autori di sicuro si è conclusa una fase e il mondo è in marcia per uscire dalla crisi pandemica.
Sono passati poco più di trent’anni dal crollo del Muro di Berlino e oggi possiamo affermare che il mondo è così profondamente mutato che di questo trentennio, a suo modo rivoluzionario, è giunto il momento di trarre un primo bilancio. Inedite potenze ideologiche e militari emergono, gli spazi del conflitto internazionale aumentano, il disorientamento culturale avanza mentre tutto diventa digitale, la comunicazione soffoca tra social media e fake news, la geografia politica è stravolta: nuove mappe sono dunque necessarie.
Chi governerà il futuro? Come affronteremo il new normal da qui ai prossimi anni? Cosa ha significato la presidenza Trump? Cosa sarà l’America di Biden? La Cina di Xi sarà il nuovo impero e gli Stati (dis)uniti d’Europa troveranno un’identità politica? Cosa resterà di una civilizzazione, quella occidentale, sempre più attratta dalla cancel culture, dalle retoriche del politicamente corretto e dal multiculturalismo? Per quanto tempo ancora potremo affidare il monopolio della verità ai sacerdoti con la felpa della Silicon Valley? Mentre la cultura europea pare imprigionata tra purificazione ed autoepurazione della propria storia passata, il resto del mondo si muove a velocità supersonica e lo sguardo degli analisti è annebbiato, la loro mente confusa da una molteplice di domande suscitate da sfide epocali. E l’Italia di Mario Draghi sarà capace di ritrovare uno spazio nei disequilibri dinamici internazionali?
Un libro sicuramente importante del quale Solo Riformisti mette a disposizione dei suoi lettori l’introduzione
Introduzione
«È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi». Così il conte di Gloucester, accecato, parla ad un re Lear oramai derelitto e fuor di senno. Siamo nel quarto atto della tragedia shakespeariana. Qualcosa di affine al grido del conte accecato e vilipeso avvertiamo in questi nostri tempi, così prossimi ad un’epoca di trionfi ed agi per le società democratiche occidentali, eppure già così lontani da quel che fu l’epoca della globalizzazione spensierata, considerata quasi come processo anonimo ed autopropulsivo, dotato di facoltà taumaturgiche. Sono passati poco più di trent’anni dal crollo del Muro di Berlino e possiamo oggi affermare con certezza che il mondo è così profondamente mutato che di questo trentennio, a suo modo rivoluzionario, è giunto il momento di trarre un primo bilancio. Dal punto di vista culturale, geopolitico e comunicativo siamo entrati in un contesto totalmente nuovo, dove vecchi attori dello scenario internazionale sono scomparsi e sfide inedite si sono già dispiegate all’orizzonte e incombono su di noi, su quella civiltà sedutasi, oggi possiamo facilmente constatarlo, troppo presto sugli allori.
Nel 1989 è morta l’utopia politica del comunismo, non solo e non tanto per l’accertata incapacità di mantenere le sue promesse di redenzione finale in terra, ma per aver dimostrato di essere, se realizzato, l’esatta negazione di ciò che auspicava, ovvero una società di liberi ed eguali. Ma quella morte fu probabilmente un suicidio assistito, cosicché ad utopia subentrò un’altra utopia, uguale e contraria. L’obiettivo era il medesimo: rimuovere il male dalla storia, non più costruendo paradisi in terra recintati da fili di ferro e muri eretti a Berlino, quanto piuttosto espungendo dal linguaggio ogni parola d’odio e discriminazione, come vuole il politicamente corretto, oppure affidandosi alle magnifiche sorti e progressive del principio di apertura massima al commercio e al consumo. Un’apertura talmente ampia da farsi sconfinamento di tutto e tutti i limiti, grazie anche alla più grande rivoluzione tecnologica nel campo della comunicazione dai tempi dell’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg. La globalizzazione è diventata negli anni Novanta il nuovo mantra, la formula passepartout, la panacea di tutti i mali. D’altro canto, si tratta del nuovo salto di qualità, abissale, compiuto da un processo plurisecolare, a cui la civiltà occidentale pare da sempre votata, almeno dai tempi dell’Ulisse dantesco, che ripropone lo slancio esplorativo e creativo di una civiltà greco-romana che non ha più timore delle colonne d’Ercole. E così sconfina, si espande e tutto vuole conoscere, tutto vuole possedere, trasformare, dominare, in un’avventura umana unica, tanto esaltante quanto rischiosa.
Se tra il 1989 e il 1991 finiva un ordine internazionale nato sul finire della seconda guerra mondiale, oggi, a distanza di circa trent’anni possiamo dire che la transizione pare essersi fatta regola. Dal punto di vista europeo occidentale (ben altro discorso va fatto per chi usciva dal blocco sovietico) poco è sembrato cambiare fino almeno agli esordi del nuovo secolo e terzo millennio. Tutto sommato, fino alla pandemia esplosa nei primi mesi del 2020, nemmeno l’attacco scagliato dal terrorismo islamico a partire dal 2001 o la crisi recessiva del 2007-2008 avevano davvero scosso le fondamenta del sistema di vita, produzione e riproduzione dell’Occidente uscito vittorioso dalla Guerra Fredda. Gli europei occidentali hanno continuato a proseguire come sonnambuli, apparentemente iperattivi, invero più come automi che come umani, ma comunque incapaci di vedere la realtà per quello che era e si stava concretizzando anno dopo anno. Forse è il tempo di svegliarsi. La globalizzazione ha bisogno di essere ripensata criticamente, governata, indirizzata, anche e soprattutto da chi rischia di venirne emarginata, se non schiacciata, ossia l’Europa. Lo ha còlto di recente Emmanuel Macron. In un’intervista rilasciata il 13 novembre 2020 alla rivista «Le Grand Continent», organo del Group d’études géopolitiques, pubblicata e rilanciata tre giorni dopo da molti quotidiani europei, il presidente della repubblica francese è partito da una serie di premesse che animano tutte le pagine di questo libro:
siamo a un punto di rottura anche rispetto al post-1989. Le generazioni nate dopo il 1989 non hanno vissuto l’ultima grande lotta che ha strutturato la vita intellettuale occidentale e le nostre relazioni: l’anti-totalitarismo. Queste si sono strutturate per molti, così come il loro accesso alla vita accademica e politica, sulla finzione che era la “fine della storia” e sul sottinteso che era l’estensione permanente delle democrazie, delle libertà individuali, ecc. Ci rendiamo conto che non è più così. Riemergono potenze regionali autoritarie, riemergono teocrazie. L’inganno della storia, inoltre, è arrivato senza dubbio al momento delle primavere arabe, in cui ciò che secondo questo stesso approccio viene visto come elemento di liberazione è risultato in realtà un indicatore del ritorno dello spirito di certi popoli e della religione all’interno della politica. Vi è infatti una straordinaria accelerazione del ritorno delle questioni religiose sulla scena politica in molti di questi Paesi. Date queste premesse, Macron ritiene che né la Francia né alcun altra nazione europea potrà minimamente sperare di avere un futuro degno di questo nome se ciascuna di esse, e in stretta collaborazione, non contribuirà finalmente e concretamente alla costruzione di «un’Europa forte e politica» con il preciso intento di «evitare il duopolio sino-americano, la dislocazione e il ritorno di potenze regionali ostili».
Mark Twain ebbe a scrivere: «Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e invece non lo è». È una frase che ben si attaglia al senso di questo libro a sei mani, frutto di una convergenza fra tre studiosi dalla mente disincantata e dal cuore appassionato, osservatori del proprio tempo così come del passato, che è sempre fonte di ispirazione per comparazione, perché suggerisce continue somiglianze, analogie, differenze, alterità assolute. Non nutriamo certezze, ma cerchiamo risposte che solo da domande ben poste possono sorgere. Soprattutto ci interroghiamo su cosa più di recente abbia potuto generare il mondo nel quale adesso viviamo, se nel caotico e frenetico fluire di una massa di notizie e informazioni, immagini e suoni, sia ancora possibile tracciare mappe concettuali, storiche e culturali, grazie alle quali orientarsi e orientare lo sguardo nostro ed altrui. L’obiettivo è pensare in modo libero e critico per non sbandare e precipitare negli abissi che quest’epoca tempestosa crea ogni giorno sotto i nostri piedi e a tutti i lati. Quando avvengono fatti inaspettati, come quelli legati alla globalizzazione – imprevidente, è stata ridefinita in questo libro –, non sono i fatti ad essere etichettabili come imprevisti, è la nostra capacità di analisi ad avere qualche problema. Di problemi, sviste, errori strategici ne sono stati fatti nell’ultimo trentennio e ancora altri ne faremo, il segreto risiederebbe nella saggezza, ça va sans dire, di non ripetere sempre i medesimi. Imparare dai nostri errori è lezione sempre valida.
Danilo Breschi Zeffiro Ciuffoletti Edoardo Tabasso
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