La maggior parte degli osservatori, affascinati come sempre dal mutevole gioco dei partiti e delle correnti, non ha prestato sufficiente attenzione, salvo qualche eccezione, alla vera novità del governo Draghi, il ritorno allo spirito e alla lettera di uno dei principali articoli della Costituzione, il 95, che, al primo comma, afferma che “il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.
Questo ruolo centrale del Presidente del Consiglio rispetto non solo ai ministri ma anche e soprattutto alle forze politiche che hanno votato la fiducia al Governo era stato offuscato e di fatto messo da parte sia durante la Prima Repubblica che nella successiva fase politica aperta nel 1994 e che non è chiaro se sia ancora aperta o sia stata sostituita da un’altra di cui però non sono chiari i contorni. Al Presidente del Consiglio, già a partire dalla fine del periodo degasperiano, era stato affidato soprattutto un ruolo di mediazione, di equilibrio tra le forze politiche, se non addirittura tra le correnti, che sostenevano il Governo, senza una reale autonomia rispetto ad esse. Le principali decisioni politiche non erano prese in Consiglio dei Ministri, che si limitava a ratificare decisioni prese in altre sedi, nelle segreterie dei partiti o in vertici dei partiti stessi, sedi tutte estranee a quanto previsto dalla Costituzione. È quella che Giuseppe Maranini, già nella prima metà degli anni Cinquanta del Novecento, definì “partitocrazia”, in mezzo all’indifferenza generale dei protagonisti della vita politica ma anche della maggior parte degli osservatori. Adesso, con Draghi, il Consiglio dei Ministri ha ripreso il ruolo che gli spetta, di luogo dove, sotto la direzione del Capo del Governo, vengono prese le decisioni politiche; in Consiglio dei Ministri, non in altre fantomatiche sedi: la vera, sola cabina di regia è il Consiglio dei Ministri.
Appare evidente che il ritorno alla corretta prassi costituzionale è il frutto di due fattori concomitanti: la crisi dei partiti e la forza dell’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi. Uno solo di questi due fattori non sarebbe stato sufficiente: la crisi dei partiti è in atto, in forme e con gravità diverse, almeno dal 1992, ma aveva prodotto soltanto un progressivo impaludamento della vita politica, senza che da essa scaturisse la scintilla necessaria per trovare una via d’uscita. Ciò è avvenuto quando, in una straordinaria emergenza dovuta alla crisi sanitaria causata dal Covid-19 e dalla conseguente gravissima crisi economica, le forze politiche, di ogni tendenza, hanno dovuto riconoscere di non avere la capacità di individuare le soluzioni necessarie. Tuttavia per imboccare la strada che adesso stiamo percorrendo era necessaria la presenza e la disponibilità di una persona che avesse la capacità e la forza politica per imporre il ritorno a una corretta prassi costituzionale. Questa persona è stato Mario Draghi, che ha tratto la propria legittimazione a guidare il Paese da fonti fino allora non contemplate dalla nostra prassi politica: in sostanza dall’essere stato a capo della più importante istituzione economica dell’Unione Europea e aver dimostrato in tale ruolo grandi capacità politiche oltre che tecniche. È perciò a un uomo politico, non a un semplice tecnico, che i partiti italiani si sono dovuti rassegnare ad affidare le sorti del paese. È interessante notare che questa resa ha coinvolto tutti partiti, sia di destra che di sinistra: l’eccezione di Fratelli d’Italia è da considerarsi puramente tattica, legata alle dinamiche interne dello schieramento di centro-destra.
È così venuto meno anche un altro paradigma della politica italiana. Che l’«uomo forte», se ci fosse stato, avrebbe dovuto essere espressione di una scelta di destra. Come già era avvenuto in Francia nel 1958 De Gaulle, pur essendo un conservatore, non poteva essere definito un uomo di destra nella piena accezione del termine, sia perché era stato il capo della Resistenza, sia perché in Francia una destra forte ed eversiva esisteva (ed esiste tuttora) e cercò in tutti i modi, compreso l’assassinio politico, di eliminare De Gaulle. In Italia la dinamica è stata meno traumatica perché, nonostante la gravità della crisi provocata dal Covid-19, non è paragonabile a quella provocata in Francia dalla guerra d’Algeria.
Il richiamo alla Francia non ha un carattere esclusivamente storico. È uno stimolo a riflettere su come rendere permanente il ritorno alla corretta prassi costituzionale che poi significa, in altri termini, il ritorno alla piena attuazione del principio della divisione dei poteri. In Francia la soluzione fu trovata nell’elaborazione di una nuova Costituzione, che rese permanenti le innovazioni politiche dovute all’iniziativa di De Gaulle. Sarà possibile percorrere anche in Italia la stessa strada o per lo meno una analoga, in modo da evitare che la fine dell’emergenza coincida con la fine della presidenza Draghi e soprattutto con il ritorno a quelle pratiche trasformiste di governo in auge fino a pochi mesi fa, e che oggi ci sembrano così lontane, e che sono pronte a riprendersi la scena se non si riuscirà a istituzionalizzare la nuova prassi politica che ha trovato in Draghi la sua espressione?
(questo articolo, con il consenso dell’autore, è ripreso dalla Voce Repubblicana del 6 settembre)
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