Chissà se un giorno l’ILVA di Taranto, ormai abbandonata alla sua sorte dalla politica, riuscirà a trovare il suo cantore come ebbe a trovare l’ILVA di Bagnoli nel romanzo “La dismissione” di Ermanno Rea: come per Napoli, lo stabilimento di Taranto non rappresentava soltanto “la” fabbrica, ma soprattutto“ la promessa di una vita migliore. L’arrivo della modernizzazione e della tranquillità economica per tanta gente. Il fallimento di questa impresa non è dunque il fallimento di un’impresa o della classe dirigente e politica, ma il fallimento di un’intera comunità. La fine del sogno e dell’utopia della modernizzazione di Napoli e di tutto il Mezzogiorno d’Italia”[1]
Un po’ di storia.
E’ il 10 aprile 1965 quando il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugura ufficialmente il quarto centro siderurgico del paese (quarto in ordine di tempo, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli), il più grande di tutti: «Io sono qui per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla».
Era una città in profonda crisi Taranto, una città militar-industriale di 170mila abitanti sorta intorno alla base della Marina e all’Arsenale, in preda ad una violenta crisi occupazionale: l’industria pesante era la risposta in una realtà nella quale la riforma agraria non era stata una risposta in grado né di assicurare un lavoro a tutti, né di arrestare l’immigrazione verso il Nord.
Fu coniato allora uno slogan “ Taranto non deve morire” e per non morire Taranto chiese in massa il Quarto centro siderurgico che tuttavia si rivelò una cattedrale nel deserto nel quale non cresceva un indotto che utilizzasse l’acciaio ma solo attività a servizio delle lavorazioni e nel quale c’era una classe operaia, i “metalmezzadri” (W. Tobagi) meno politicizzata di quella del nord ma che comunque è riuscita ad evitare il destino del non-lavoro.
Tuttavia la storia dell’acciaio pubblico (e su questo dovrebbero riflettere i nostalgici dello stato imprenditore) è la storia di un fallimento clamoroso, di incapacità manageriali, organizzative e gestionali, di rigidità sindacali inaudite, di assenza di innovazioni e di investimenti, di indifferenza all’ambiente.
Basta leggere i quotidiani di venti anni dopo o poco più: la Finsider, la finanziaria della siderurgia pubblica, nel 1987 a metà anno ha perduto 800 miliardi, 135 miliardi al mese e più della metà di questo colossale buco è stato provocato dall’ Italsider, oltre 450 miliardi, con Taranto (diciottomila dipendenti) che ha chiuso il 1986 con una perdita di 105 miliardi e Bagnoli (tremila dipendenti) che ha perduto 90 miliardi di lire.
Bagnoli andò verso la chiusura, al suo posto venne prospettata la realizzazione di un grande parco di attrazioni, Taranto invece imboccò la strada della la privatizzazione con la vendita dello stabilimento al Gruppo Riva.
In un contesto segnato dal silenzio dei nuovi operai e di assenza di fatto di una iniziativa sindacale adeguata a promuovere l’innovazione agli inizi degli anni 2000 anche grazie alla normativa comunitaria sensibile ai temi ambientali si ebbe un “cambiamento di clima” intorno al problema della nocività delle emissioni in atmosfera da parte delle acciaierie che solo nel 2012 vide il sequestro dello stabilimento di Taranto con l’apertura della lunga e complessa vicenda giudiziaria dell’Ilva, tuttora pendente e irrisolta ( un procedimento nel quale tra gli altri sono imputati assieme ai vertici aziendali Niki Vendola e Nicola Fratoianni, ovviamente come per tutti vale per loro la presunzione di innocenza).
Insieme al commissariamento dell’azienda il Governo Monti (ministro dell’Ambiente Corrado Clini) azzerò l’Autorizzazione ambientale integrata dell’Ilva e rifece il piano ambientale secondo i criteri europei più severi, per ridurre in modo sostanziale le emissioni in aria, soprattutto quelle dei parchi minerali nei giorni di vento, i nuvoloni rossi che si alzano dallo stabilimento durante alcuni cicli produttivi, i composti pericolosi che si sviluppano nei processi di produzione del coke.
il piano ambientale di allora, un investimento di alcuni miliardi di euro a carico degli azionisti del tempo cioè la famiglia Riva, è cambiato nei ritocchi ed è stato allungato nel tempo di realizzazione, realizzazione che non si è ancora completata.
La nuova proprietà, il mercato e lo scudo penale
Per salvaguardare lo stabilimento e l’occupazione, lo Stato assieme al commissariamento dell’azienda avviò una gara internazionale per una riassegnazione della stessa. La gara si è conclusa nel 2018 con l’aggiudicazione ad Arcelor Mittal che ha sottoscritto un piano industriale che prevede una produzione fino a 6 milioni di tonnellate di acciaio e si è impegnata a realizzare un Piano Ambientale per un totale di 2,4 miliardi di euro di investimenti, di cui 1,15 miliardi per investimenti ambientali.
Nel contratto erano previste le tutele legali per i gestori, gli affittuari e i futuri proprietari del siderurgico tarantino, in pratica l’immunità penale in cambio di un progetto di risanamento dell’ambiente. Addirittura in un Addendum ‘migliorativo si prevedeva l’attuazione delle prescrizioni più importanti in tempi minori rispetto a quelli previsti.
Oggi la nuova proprietà si trova ad affrontare una crisi di mercato che porterà la produzione a fine 2019 ad attestarsi tra le 4,5 e le 4,8 milioni di tonnellate di acciaio prodotte molto lontano dal tetto massimo delle 6 milioni di tonnellate consentite, una frenata che genera una perdita stimata tra i 30 ed i 50 milioni di euro al mese.
In questo contesto difficile è arrivata la norma che prevede la cancellazione dello scudo penale, un atteggiamento tra lo schizofrenico e l’infantile dei grillini che hanno dimenticato di aver firmato lo scorso 14 dicembre 2018 l’accordo di modifica del Contratto del 2017 tra Arcelor Mittal e governo, nel quale è prevista la possibilità, per la multinazionale , qualora fosse cambiato il quadro giuridico e legislativo generale rispetto al quale si era svolta l’asta di aggiudicazione della cessione degli asset industriali del gruppo Ilva, di riconsegnare allo Stato la gestione del sito, ma in modo ancor più specifico sempre nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 è previsto “l’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il ‘decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale“.
Con questa revoca l’accordo per la continuità della produzione potrebbe saltare da un momento all’altro: ma questo pare l’obiettivo dei grillini, del presidente della Puglia Emiliano e del sindaco di Taranto: dimenticano che oltre ai drammatici problemi occupazionali che si aprirebbero (con l’acquiescenza dei sindacati, eccezion fatta per la FISM CISL) resterebbe la ferita ambientale che l’attività dell’azienda ha inferto alla città e sarebbe compromessa la stessa opera di risanamento che tutti a parole hanno sempre detto di volere: un piano di recupero dell’ambiente e del territorio a carico dello Stato è pia illusione, come testimoniano i tanti siti da bonificare abbandonati a se stessi in tutta Italia.
Il futuro ha sentenziato Beppe Grillo è nella trasformazione del sito in un parco: evidentemente non ha letto La dismissione altrimenti avrebbe evitato una banalità offensiva dell’intelligenza di chi su quella idea deve costruire il suo futuro: ” la morte dell’Ilva non ha contropartite. Il progetto di un parco che forse non si farà mai, soggetto a ipoteche, appetiti e intralci di ogni genere, è troppo poco per costruire una risposta alla domanda di speranza collettiva”
Oltre il caso ILVA
C’è un impatto diretto di una eventuale chiusura dell’azienda: Il Sole 24 Ore del 22 giugno 2019 ha riportato che secondo uno studio della SVIMEZ la vicenda ILVA, dal sequestro dello stabilimento avvenuto a luglio 2012 a oggi, sono andati perduti 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35 per cento cumulato della ricchezza nazionale”, la perdita sarebbe stata ogni anno tra i 3 e i 4 miliardi di euro così come sarebbero andati perduti circa 20.000 posti di lavoro, tra diretti ed indotto.
Ma c’è di più ed è Giuseppe Berta su Il Sole 24 ore del 19 giugno 2019 a ricordarlo: “ L’Ilva e Taranto sono le punte estreme, ma anche la metafora di una serie di crisi italiane che sono state lasciate incancrenire nel tempo, senza mettere capo a effettive soluzioni. Una parte non da poco dell’Italia industriale e delle sue imprese è stata abbandonata senza che mai venisse perseguita una strategia per la sua trasformazione. Basta citare nomi come Whirlpool e Alitalia per rievocare i capitoli di una crisi ininterrotta e interminabile, che sono stati trasmessi da un governo all’altro e per i quali sono stati evocati degli sbocchi immaginari, che non si sono mai rivelati efficaci né realmente percorribili”
Per non voler citare il crollo di credibilità dell’Italia nei confronti degli investitori esteri, un paese già complicato da sempre per mille lacci e lacciuoli che frenano gli investimenti al quale ora si aggiunge quello della inaffidabilità dei contratti sottoscritti per i volubili capricci della politica.
La grillizzazione del PD, l’ignavia di Italia Viva
Colpisce che questo provvedimento sia stato varato oltre che con il voto di un movimento nemico del lavoro e pro-sussidi come i grillini con il contributo decisivo del PD, a testimonianza di un processo di grillizzazione del partito che al di là delle dichiarazioni verbali che sempre più flebilmente affermano la diversità trova conferma nei dettagli, quelli dove si cela il diavolo: dall’assenza all’ inaugurazione del tunnel TAV in Francia al sostegno alla Raggi a Roma fino a questo voto: per il PD si può dire come per la Vispa Teresa che “soffrendo s’offriva”.
Italia Viva mostra un atteggiamento bellicoso sul tema ILVA: “Non accetteremo alcuna soluzione che preveda il rischio dello stop della produzione dello stabilimento di Taranto” scrive Sara Moretto ma è atteggiamento incomprensibile dopo che si è votata la fiducia al governo sulla conversione del decreto: quante volte ancora accadrà che, per il timore delle conseguenze politiche di un voto contro, si subiranno provvedimenti sbagliati rispetto ai quali ben poco serve alzare la voce un istante dopo.?
Ma non è solo la politica sideralmente lontana dalle esigenze del Paese, anche le forze sociali hanno perso di vista una visione degli interessi collettivi e prevale “la rassegnazione, intrisa di rancore e di cinismo, di una società vecchia, che bada a conservare a breve quello che ha. Per cambiare le cose ci vorrebbe la lungimiranza che può soltanto generare la prospettiva del futuro, la volontà di lasciare qualcosa a chi ci sarà dopo di noi” (G. Berta, Il Sole 24 ore, 7 dicembre 2017)
[1] Oscar Buonamano, culturemetropolitane, blogautore.espresso.repubblica.it, 13 settembre 2016.
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