Il panorama economico e finanziario è in forte movimento, non solo perché dopo la pandemia il mondo ha dovuto affrontare una guerra tuttora pericolosamente in corso e una pesante crisi energetica, ma anche perché gli assetti geo-politici e la globalizzazione sono alla ricerca di nuovi equilibri. C’è chi, come Dani Rodrik, presidente della International Economic Association, afferma che lo scenario attuale offre “l’opportunità di correggere i torti del neoliberismo e costruire un ordine internazionale basato su una visione di prosperità condivisa”. La prospettiva, ancora fortemente incerta, che si sostituirà alla concezione di una “iperglobalizzazione neoliberista” non è un ritorno alle chiusure del passato, ma un nuovo tipo di economia aperta, in cui i governi dovranno perseguire una politica economica basata sul “produttivismo” per fronteggiare le transizioni gemelle (digitale, ecologica ed energetica), incrementare l’efficienza dei servizi pubblici e ridurre le disuguaglianze sociali. Quindi, non sta emergendo la fine dell’interdipendenza economica, malgrado la vocazione pessimista del cosiddetto “iperrealismo” a cui fa riferimento Paola Subacchi, economista della Queen Mary University di Londra, osservando che il transito dall’integrazione alla frammentazione globale, quale effetto dei conflitti in atto, non farebbe ben sperare per la pace e la prosperità. Infatti, come ha già dimostrato il sistema creato a Bretton Woods nel 1944, le strategie di sostegno alle economie nazionali coese possono servire a stimolare gli scambi internazionali e i flussi di capitali, rilanciando il processo di globalizzazione. Del resto, il commercio mondiale di beni e servizi supera i 40 trilioni di dollari, con un aumento dieci volte maggiore di quello registrato dal 1990. Inoltre, negli ultimi trent’anni, l’interdipendenza e la cooperazione hanno permesso di triplicare la dimensione dell’economia mondiale e di debellare la povertà di un miliardo e mezzo di persone. In questi giorni, l’Ocse ha rivisto al rialzo le sue previsioni, stimando una crescita globale che dovrebbe passare dal 2,2% al 2,6% quest’anno e dal 2,7% al 2,9% nel 2024, mentre l’inflazione dovrebbe scendere, nei Paesi progrediti, al 4% nel 2023 e al 2,5% nel 2024. L’economia più fragile, a parte la russa, appare quella del Regno Unito, non più quella italiana con tutti i suoi problemi. In questo quadro in leggero miglioramento, si è inserito un sussulto dei mercati, a causa delle crisi bancarie. Il crollo di banche, con depositi concentrati nei settori delle tecnologie avanzate o delle criptovalute, come Silicon Valley Bank, Signature Bank e Silvergate Bank negli Stati Uniti – seguito rapidamente da una caduta di Credit Suisse in Europa – rappresenta il fallimento più rilevante dal 2008 in poi. Intanto, altre nubi incombono su First Republic Bank, la cui emorragia finanziaria non si ferma nonostante il trasferimento di 30 miliardi di dollari da dodici istituti di credito americani. Il tratto comune di queste vicende, pur non potendosi parlare di un vero e proprio contagio, è il possesso di ampi portafogli di titoli a lungo termine senza il rispetto dell’equilibrio tra raccolta del risparmio e impieghi, ma anche il tentativo non riuscito di contenere la corsa al ritiro dei depositi e di limitare le perdite attraverso una ricapitalizzazione. L’aumento progressivo dei tassi di interesse da parte delle Banche Centrali ha reso più complicata questa situazione. Il salvataggio di emergenza, con l’acquisizione della banca svizzera in sofferenza dall’Union des Banques Suisses (UBS) per oltre 3 miliardi di dollari, non ha placato, peraltro, le preoccupazioni degli investitori europei. Un’altra ragione della vulnerabilità delle banche regionali statunitensi risiede nell’allentamento della normativa bancaria nel 2018, ritenendo che gli istituti di credito più piccoli non ponessero rischi per la stabilità finanziaria. Il presidente della Fed Jerome Powell, poi, ha garantito la solidità delle banche americane appena pochi giorni prima dello scossone. È stato solo in virtù di una struttura complessiva del credito più robusta rispetto a quella di un quindicennio orsono e all’intervento delle istituzioni di governo e monetarie a sostegno del sistema finanziario che, finora, si sono evitati guai peggiori. Il premio Nobel Joseph Stiglitz, a questo proposito, ha notato che: “Le nuove tecnologie hanno facilitato il panico e le corse agli sportelli. Ma le conseguenze possono essere ancora più gravi. È ora che il nostro quadro normativo e decisionale risponda”. In queste condizioni, l’inflazione perdurante a causa di maggiori rigidità del mercato del lavoro e la ripresa di un inasprimento della politica monetaria potrebbero acutizzare i sintomi di crisi finanziaria. Dato che, in periodi recenti, il connubio tra politica fiscale, per promuovere una crescita sostenibile e duratura, e politica monetaria, per assicurare la stabilità dei prezzi, è venuto sostanzialmente meno, occorre rilanciare una strategia in grado di avvicinare nuovamente questi due capisaldi dell’economia, scongiurando un effetto domino dei tracolli bancari in corso. Questa esigenza vale soprattutto per l’eurozona e per l’Italia che, grazie a tassi di interesse pari a zero, sono riusciti a superare i momenti più difficili degli anni scorsi. Come avvenne al termine della seconda guerra mondiale, per il capo economista della Banca Mondiale Indermit Gill, il mondo si trova a un bivio e può sostenere le sfide emergenti di questo secolo, il cambiamento climatico e il rischio demografico, solo affrontando con coraggio le strozzature del sistema finanziario e rilanciando lo sviluppo economico globale.
(questo articolo, già uscito sul quotidiano Il Mattino, è ripreso con il consenso dell’autore)
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