A ben vedere, il problema di fondo di gran parte, se non tutte, le questioni politiche e sociali di questo nostro tempo, in Italia ma non solo, è oggi la legittimità delle istituzioni democratiche, e − più in là – la tenuta della cultura democratica ereditata da almeno tre secoli di storia. Così come si è soliti, in momenti di crisi e di transizione, provare a segnalare la natura qualitativa di un cambiamento mediante l’apposizione di vaghi prefissi “post-“ − negli anni Cinquanta, “post-capitalismo”; nei Sessanta e Settanta, “post-industrialismo”; negli Ottanta e Novanta, “post-modernità” – si parla oggi sempre più spesso di “post-democrazia”, per indicare come quel tipo di regime politico sia o irrimediabilmente in declino oppure a tal punto oggetto di trasformazione da prefigurare un esito identificato da alcuni in un ritorno al passato (la democrazia diretta di presunta ispirazione antico-ateniese), da altri in proiezioni futuristiche (la partecipazione generalizzata di massa digitale, il compimento di modalità decisionali comunitarie basate sul principio del “piccolo è bello” e, in legame sostanziale, su quello della così detta “decrescita felice”). Ciò che si tralascia sono sia la complessità del problema – quasi che la democrazia sia un fenomeno monodimensionale – sia le costanti, gli “assunti di base” (potremmo dire, in senso metaforico) che, al di là dei mutamenti, consentono di cogliere la continuità nel mutamento delle forme e la fisionomia delle sfide che i Paesi Occidentali si trovano oggi a fronteggiare.
Iniziamo col dire che la parola “democrazia” rimanda ad una realtà quanto mai complessa. Essa ha una declinazione etico-politica, una politico-istituzionale ed una idealista e filosofica. Si staglia insomma in maniera trasversale ai diversi aspetti della vita sociale: la legittimità del potere, le modalità del suo esercizio, le finalità ultime della loro costruzione.
Dal primo punto di vista – seguendo Max Weber – il “potere” o è legittimato o non è. L’imposizione, da parte di un attore, della propria volontà sul suo interlocutore “costi quel che costi” era per Weber non “potere” ma “potenza”, sopraffazione che – prescindendo dal punto di vista del sottoposto (quel “costi quel che costi”) – rompe, nega, la relazione e esce dal campo di analisi della sociologia (se non come condizione esterna della vita sociale). Il “potere” è piuttosto “la possibilità che un comando trovi obbedienza presso i subordinati”, con il che il Sociologo tedesco intendeva dire che, per quanto duro e discriminatorio, la possibilità di dare ordini è, per quanto l’ordine stesso possa essere contestabile, riconosciuta dai subordinati come un diritto del loro superiore.
Com’è noto, Weber distingueva tre tipi di principi legittimanti: il carisma (quello dei grandi leader trascinatori), la credenza tradizionalistica in un ordinamento giuridico e nel suo rappresentante per consuetudine (principio che si trova all’opera ad esempio nelle monarchie laiche o in quelle confessionali, ad esempio il Papato) e la fiducia legale-razionale nella tecnicalità di procedure formalizzate (lo Stato di Diritto democratico moderno) che, nel loro impersonale e paritario criterio di funzionamento, consentano il libero gioco degli interessi e delle domande sociali e, alla forza politica oggi minoranza, di diventare un domani maggioranza. Il punto è tuttavia la sede del riconoscimento legittimante, ovvero quel dèmosdal riconoscimento del quale il potere si afferma come autorevolezza, e non autoritarismo.
Presso l’Atene di Pericle – duemilacinquecento anni fa, una cittadina di poche decine di migliaia di persone – quel dèmosassommava a circa 3.000 persone (l’ekklesia), che deliberavano riuniti in piazza per acclamazione. Si trattava certo di una democrazia diretta – coadiuvata dalla regola della rotazione a sorte delle cariche amministrative – ma niente affatto generalizzata. Schiavi, donne, lavoratori manuali, contadini, artigiani – delegati alla faticosa, senza senso, caduca opera di riproduzione senza fine delle condizioni materiali di vita, ne erano totalmente esclusi. L’“animale politico” di cui parla Aristotele è l’uomo liberato dalla fatica della quotidianità e tutto dedito alle attività compiutamente umane e superiori: la teologia, la filosofia, la politica come gestione del bene pubblico. Aristotele considera la democrazia la forma corrotta della gestione ugualitaria. Preferisce parlare di “Repubblica”, perché la prima finirebbe – dice – per diventare inevitabilmente, il governo dei “pover”, più attenti, per condizioni esistenziali, al proprio interesse privato che a quello di tutti. In quell’esperienza cittadina, principio di legittimità e criteri di esercizio del potere non si differenziano: chi riconosce il diritto al comando è lo stesso che applica il potere.
La separazione fra questi due piani – legittimità e esercizio del potere – avviene mille anni dopo, a partire dall’alto Medioevo e sulla scorta del Diritto Romano, per il quale il dèmos non sono più i soli cittadini di Roma ma – secondo la politica dell’integrazione delle genti di un impero in espansione – il populus. I numeri aumentano esponenzialmente e, rispetto ad una situazione in cui la ristretta dimensione consentiva il controllo delle procedure, è ora necessario contarsi e dividersi in maggioranza e minoranza, con la prima delegata adesso all’esercizio del potere. Da quel momento in poi, queste due dimensioni si separano e la democrazia diventa, irrimediabilmente, “rappresentativa”. Nell’antica Grecia, la ristretta ma semplice, poco differenziata, divisione del lavoro consentiva che la vita del cittadino si esaurisse nel governo della cosa pubblica. Con la complessificazione della vita sociale – aumento nel numero delle collettività, una loro maggiore densità sociale, incremento dei mezzi di spostamento e comunicazione, apertura dei nuovi mercati e potenziamento degli scambi commerciali, dunque una maggiore differenziazione dei ruoli sociali – le persone devono dedicare maggior tempo ad altri ambiti del vivere insieme. La politica non può più essere onnipervasiva, ma diventa un settore specializzato, perciò più efficace, efficiente, e professionalizzato, in grado di rispondere più prontamente a cambiamenti sociali che accrescono la lor velocità di realizzazione.
La separazione dell’esercizio del potere dal problema della sua legittimazione cadenza così la successiva evoluzione della democrazia. De Tocqueville, riflettendo sull’America, prima parla di democrazia sociale, ovvero − diversamente dalla natura aristocratica della politica europea del suo tempo – dell’aspirazione dei singoli ad una reputazione paritaria ed eguale di fronte alla legge. Intuisce poi la possibile deriva di un regime che – basato sulla pari importanza di ciascuno e sul potere di delega del potere ad apparati sempre più autonomi – rischia di imporre semplicemente il volere della maggioranza sulle minoranze che perciò dovrebbe avere piena liberta di organizzarsi in comitati e associazioni della società civile (i “corpi intermedi”): quando niente si staglia tra il “sovrano” e gli individui, chi ne esce sconfitto e schiacciato sono sempre questi ultimi, i più deboli. Sta dunque qui un altro costante, irrinunciabile carattere – conditio sine qua non – della democrazia moderna: la sua natura liberal-democratica, il suo declinarsi insomma prima di tutto in una cultura dell’ascolto, del rispetto e del riconoscimento delle minoranze, in secondo luogo in procedure istituzionali che assicurino certo il diritto a governa della maggioranza ma al contempo, e soprattutto, quello alla salvaguardia delle minoranze.
Questa breve analisi consente quindi oggi di interrogarsi meglio sulle sfide attuali della democrazia e sulle soluzioni che animano ai nostri giorni il dibattito e le proposte politiche in materia. Il nostro tempo è segnato indelebilmente e irreversibilmente da un allargamento senza precedenti della sfera pubblica, a propria volta articolata in sotto-sfere specializzate: media tradizionali e moderni (giornali e carta stampata, radio e televisione), nuovi media resi possibili dalla diffusione del web (testate giornalistiche digitali, blog, web community ecc.) e da un accesso sempre più generalizzato ad una quantità enorme di bit di informazione che non costituiscono in sé sapere o conoscenza, tanto meno visone strategica ponderata, ma solo i tasselli di un mosaico tutto da costruire e spesso senza sufficienti “libretti di istruzione” per organizzarli in quadri compiuti di senso in grado di provar a dar risposte a problematiche locali e globali sempre più intricate e complesse. Non solo ma la quantità di sollecitazione informative si trasforma a propria volta in una celerità senza precedenti degli stimoli che, in sé, mina e indebolisce ulteriormente il confronto e la discussione in quelle (nuove) sfere pubbliche.
Grazie ad internet – ed in particolare alle sue molteplici forme social – ci si confronta maggiormente con la diversità dei punti di vista. Ma, da lì, gli esiti non sono scontati. Oltre un certo livello – cognitivo ed etico – l’overloaddi informazioni crea stanchezza, rigetto, nausea, frustrazione, reazione, aggressività, rimozione. Non ho mai visto, ad esempio su Facebook, qualcuno cambiare idea discutendo con altri utenti. Piuttosto, le idee si radicalizzano e ci si rinchiude nelle proprie convinzioni. La suggestione visuale di questi mezzi – unitamente alle condizioni ergonomiche, spaziali e temporali del loro uso: di solito in solitudine, al buio, cuffie nelle orecchie ecc. – stimola i sensi e di lì soprattutto le emozioni, molto meno il ragionamento e l’argomentazione. L’utopia del contatto diretto, in tempo reale, toglie infine spazio e retroscena ad una politica che, per essere con la “P” maiuscola, ha sempre avuto, ha e sempre avrà invece inevitabilmente bisogno di anche di silenzio, riflessione e assunzione di responsabilità. Assistiamo invece oggi ad un’élite politica che da un lato chiede di essere eletta (e pagata) per prendere decisioni, e dall’altro si appella costantemente on line agli elettori per chiedere quali decisioni deve prendere. La fascinazione del numero di followers e contatti è poi segno di una concezione esclusivamente quantitativa del democratico gioco degli interessi: l’accento cade oggi sul diritto/dovere della maggioranza a governare e tralascia sempre di più il problema delle prerogative delle minoranze, e di quelle altrettanto cruciali, dirimenti, dei pareri terzi ed esperti (i factcheck).
L’altra direzione che si apre è invece quella di una democrazia finalmente più matura e prossima al suo ideale (la terza delle prospettive) di rispetto della sovranità popolare: una democrazia ancora inevitabilmente e necessariamente rappresentativa ma partecipativa, consultiva, tuttavia basata sul controllo di qualità e di verosimiglianza delle informazioni e sull’uso dei nuovi mezzi di comunicazione per la formazione di un’opinione pubblica più consapevole, (auto-) critica, esperta e argomentativa. È insomma il lavoro preparatorio della democrazia, è la coltivazione di una nuova cultura democratica nel solco del DNA di questa forma di governo e di civile convivenza. È tutto ciò che è indispensabile prima di un semplice click on line, e affinché quel click sia un gesto non solo estetico ma compiutamente etico. Di un’autentica etica politica democratica.
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