Per comprendere le ragioni della crisi della sinistra (europea e non soltanto italiana) bisogna partire dal fatto che per quasi tutto il XX secolo la sua storia si è pressoché identificata con quella del socialismo. La crisi della sinistra europea è perciò la crisi del socialismo, in entrambe le versioni in cui si è manifestato nel corso del secolo scorso, quella autoritaria e quella liberale. Paradossalmente la crisi del socialismo è esplosa proprio a causa del successo che esso ha ottenuto e del fatto che ha potuto sperimentare la validità o meno delle sue teorie. Quello autoritario, che ha dominato la storia della sinistra per due terzi del secolo e che sembrava – a cavallo degli anni ’60 e ’70 – avviato a imporsi a livello planetario, ha subito nel corso di meno di un ventennio un tracollo che appare definitivo. Il crollo dell’Unione Sovietica e la scomparsa del sistema di potere imperniato su di essa ha spazzato via in un tempo incredibilmente breve un’esperienza che, se in forme statuali durava da un settantennio, per quanto riguardava l’ideologia e il sistema di valori su cui si basava affondava le sue radici nella metà del XIX secolo.
Nel corso del trentennio che ci separa da quegli eventi sono state analizzate le cause di quel crollo repentino che si riassumono fondamentalmente nell‘incapacità di un apparato burocratico e militare sempre più elefantiaco e inefficiente di controllare una società che si andava modificando velocemente, anche per effetto della rivoluzione nel sistema mondiale delle comunicazioni.
Ma nel corso del ‘900, accanto e parallelamente al socialismo autoritario, si è affermato in Europa anche un socialismo liberale che al valore dell’uguaglianza – perno di ogni cultura socialista – univa quello della libertà. Anche il socialismo liberale (o democratico, se si preferisce) ha avuto successo e i partiti che lo rappresentavano sono andati al governo in numerosi Paesi dell’Europa occidentale e hanno potuto sperimentare la validità delle loro costruzioni teoriche. Anche in questo caso proprio il successo ottenuto è stato alla base della crisi, sia pure in forme assai diverse da quelle del socialismo autoritario. Perno del successo del socialismo democratico è stata la costruzione del Welfare State; ma una volta costruito il sistema di sicurezza sociale universale la crisi è nata proprio dall’impossibilità (o dall’incapacità) di andare oltre su quella strada, rendendo così superflua la funzione dei partiti socialisti che di quella costruzione erano stati protagonisti. Questa incapacità ha prodotto crisi non meno radicali – anche se si sono manifestate in forma diversa – di quelle che hanno caratterizzato il socialismo autoritario: si pensi al crollo di due partiti socialisti che avevano ottenuto i maggiori successi nella costruzione di una società basata sui principi del socialismo democratico: quello francese e quello israeliano.
Nelle repubbliche che componevano l’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Europa orientale che facevano parte del suo sistema di potere il crollo è stato così radicale da non lasciare spazio a esperienze di governo che in qualche modo si richiamassero alla storia del socialismo democratico. Anzi, qualsiasi riferimento a forme di socialismo, sia pure diverso da quello sperimentato, non ha più trovato spazio in quei territori dove, al contrario, hanno preso piede e si sono progressivamente affermate forme di nazionalismo estremo che hanno messo in discussione sia il principio di uguaglianza che quello di libertà.
In maniera del tutto diversa sono andate le cose nell’Europa occidentale che aveva conosciuto in profondità l’esperienza del socialismo democratico. Qui la sinistra ha considerato – a torto o a ragione – come definitivamente acquisite le conquiste dello Stato sociale – senza rendersi conto che permanevano sacche di antica povertà e se ne stavano formando di nuove – e si è messa alla ricerca di nuovi valori e di nuovi obiettivi che potessero giustificare la sua esistenza. Questa ricerca l’ha portata a elaborare una nuova teoria dei diritti dove – acquisiti quelli sociali – hanno trovato posto quelli riferiti a gruppi sociali diversi da quelli dei lavoratori, che costituivano la base tradizionale del consenso per i partiti socialisti. E li hanno individuati soprattutto nelle donne e negli immigrati. E’ evidente che questa scelta portava a dividere – anche sul piano teorico – la storia e l’identità della sinistra da quella del socialismo. La lotta per l’affermazione del principio di uguaglianza delle donne ha avuto un notevole successo ma anche in questo caso – come già era avvenuto nel caso dello Stato sociale – è stato il successo a determinare la crisi: il principio dell’uguaglianza di genere si è affermato come principio universalmente accettato e quindi non più caratterizzante esclusivamente la cultura di sinistra. Diverso è il caso degli immigrati che, come tali, costituiscono una categoria per sua natura transitoria e quindi non tale da poter costituire una solida base per una definizione teorica della sinistra.
Ma non si tratta solo di questo. A partire da un certo momento c’è stata una deformazione nella cultura di sinistra: principi fondamentalmente giusti sono stati esasperati e sono diventati espressione di una deriva estremistica che in realtà si è espressa, più che nella definizione di obiettivi e di programmi, in un mutamento di linguaggio: si è così assistito all’affermazione del politicamente corretto, di derivazione americana ma che si è rapidamente imposto anche in Europa come marchio distintivo della nuova sinistra, introducendo forme stereotipate di linguaggio che niente hanno a che fare con la tradizione del socialismo.
Ma non basta. Il politicamente corretto ha subito un’ulteriore degenerazione – anche in questo caso soprattutto negli Stati Uniti ma con inevitabili ricadute europee – con il diffondersi della cosiddetta cancel culture. In realtà la cancel culture rappresenta un recupero – esasperato e deformato – di un aspetto presente nella storia della sinistra, soprattutto in quella autoritaria: la vocazione a fare il processo alla storia-
Già nelle due più radicali rivoluzioni che si sono avute in Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, quella francese e quella russa, la tentazione di distruggere, di cancellare tutto quello che la storia aveva prodotto era stata forte. La distruzione delle statue dei presunti autori di misfatti razzisti e colonialisti era stata anticipata più di due secoli fa dalla decapitazione dei busti dei Re di Francia dalla facciata di Nôtre Dame. Ma in Francia il processo alla storia durò poco tempo e la continuità storica fu riaffermata pienamente già con Napoleone. Anche nella Russia sovietica l’età di Stalin rappresentò – oltre a molte altre cose – il recupero della tradizione e della storia russa.
Quello che i moderni assertori della cancel culture sembrano non capire è che la storia non può essere processata ma solo conosciuta e capita in modo da poter evitare o almeno attenuare, per il futuro, le ingiustizie e le violenze che l’hanno caratterizzata. Violenze e ingiustizie che non sono state monopolio solo dei popoli europei. La storia è stata costantemente caratterizzata da rapporti di forza, e questo è stato vero non solo per l’Europa ma anche per l’Asia o per l’Africa. Ciò che dovrebbe caratterizzare la sinistra oggi non è il processo al passato, ma la volontà di costruire un futuro diverso. In fondo è quello che diceva Marx quando sosteneva che era ora di uscire dalla preistoria per entrare nella storia.
(questo articolo con il consenso dell’autore è ripreso dalla Voce Repubblicana del 03/05/21)
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