“Il Rabbino Joba Nevroth, sfuggito al pogròm di Kishinev dei primi del Novecento, riparò in Odessa, dove, ridotto da tempo a fare il sarto, l’Evreiskij Portnoy, animò nel 1936 la rivista Belikij Okean (Il Grande Oceano) chiusa, dopo il primo numero dalla Commissione per la Libertà della Cultura del PCUS. Fu esiliato ad Erevan, Armenia, dove per non destare sospetti, si dedicò alla raccolta di racconti popolari caucasici. Uno di questi, “La carpa riformista”, gli costò il gulag ed il congelamento per il quale il medico socialista di turno prescrisse un’amputazione che potremmo definire alquanto drastica.
Nel testo incriminato si narra di una carpa agonizzante nel fango di una palude in estinzione. “Fermati, compagno viandante” – gemette il pesce – ti prego, buttami addosso un po’ d’acqua! “Senta, compagna carpa” – replicò il viandante ristabilendo seccamente il lei – ” rifiuto fermamente di prestarmi a queste squallide pratiche deviazioniste! … Aspetti, e le grandi piogge di primavera verranno di sicuro, prima o forse poi, a dare linfa alla sua vacillante fede comunista!” Dzakalebali! Comunista sarà lei!” disse la carpa, e, dignitosamente, com’ era vissuta, spirò.”
Un gelido silenzio accolse questo mio intervento al Congresso Provinciale del PCI. I più avevano l’aria infastidita e dubbiosa. “Cosa avrà voluto dire?”, ce l’avevano scritto in faccia. Il compagno Ballico invece capì. Era l’eminenza grigia delle Transazioni Invisibili Italia-URSS e conosceva perfettamente la lingua di Pushkin.
Lui, oscuro professore di matematica del paese di Sindona, si era intestato l’Associazione Italia – URSS quando già tutti ne ridevano, prendendola per una rivendita di patacche, distintivi e matrioske. Ma lui era di una intelligenza superiore, fece curare a Mosca il nanismo del figlio del Padrone delle Ferriere e vi furono in contropartita treni interi di carbon coke importati in Italia. Tempo sei mesi e lui entrava e usciva da tutti gli enti e ministeri sovietici e fu scelto da una grandissima istituzione finanziaria italiana come uomo di punta nell’impero morente. Buono anche per il “dopo”, stesse relazioni, oligarchi e non più funzionari.
La Dirigenza, dalle franche risate dell’amico Antonino ad ogni mia citazione in russo capì che era qualcosa di losco (in realtà c’era più d’una parolaccia, intraducibile per decenza) e ne colse l’intento irriguardoso: fu l’inizio della mia emarginazione nel partito di Gramsci.
Nel breve volgere di un paio di anni, con la Caduta del Muro e la Svolta della Bolognina, lo stesso gruppetto dirigente – con fare distratto – mi ostracizzò una seconda volta. In quanto filosovietico (e non, correttamente, filosovietiche, ovverossia cultore delle sode compagne di colà) dissero, aggiungendo al danno la presa per il zhopa.
A dir la verità, entrai nel cono d’ombra un po’ prima, con la presa di coscienza femminile e femminista. I Congressi venivano sospesi finché da una macchia ribollente di compagne appartatesi in un angolo della sala non arrivava la messaggera con l’ukaze che indicava la lista delle donne che dovevano entrare in Direzione “come donne”.
Questo termine voleva dire che le donne avvocato, medico, architetto etc. erano escluse dal computo. Erano “le competenze” in cui “la valenza di genere non fa premio”. E faceva premio, eccome, con le incompetenti, che venivano promosse a mazzi, come i carciofi, fino a raggiungere il numero magico.
Una volta ebbero un moto di generosità accogliendo con involontario umorismo il primo compagno gay nelle loro quote. Poco dopo l’ordine venne ristabilito, quando emerse che la bella Nikita, figlia del glorioso compagno Baccàri di Casaleone, era stata inserita tra i maschi per via del richiamo krusheviano che nel PCI prevaleva sulla stupenda Anne Parillaud del film omonimo, nel senso di Nikita.
Una notte che mi ero cibato di cotiche e borlotti sognai che la senatrice Grimalda Scampìa, eletta nel nostro collegio, era morta di vecchiaia alla barriera di Mestre nel bel mentre si dirigeva a Verona per concludere trionfalmente la Festa de L’Unità.
La kermesse si adeguò immediatamente: fu sospeso il gran ballo con Raoul Casadei XXIII tra le proteste rumorose dei parassiti del liscio (quelli che si portano sedia e acqua minerale da casa per non lasciare una lira), furono chiuse le cucine, andarono a prendere a casa, per il discorso commemorativo, Dino Facchinetti, specializzato in stesura necrologi e orazioni funebri.
Insorse il popolo delle salamelle ed il loro leader naturale esclamò: “ De sciò mazgoòn”. Non proprio come Lawrence Olivier, ma convinse i dirigenti ad una mediazione su un piatto unico: risotto listato a lutto al nero di seppia, raffinato.
Intanto allo stand della Direzione si susseguivano le notizie sulla sequenza dei non eletti sulla scia della già compianta Scampìa.
Burchiellazzi indisponibile per tumulo di cariche, Malcostumi in preda ad Alzheimer (firma di rinuncia già prudentemente raccolta con mano amica e notaio cecato), Ciupaciuppis mandato in Sicilia a fare il Segretario Regionale, la Pelosi-Leprotti scopertasi transgender.
Restava Enzo Milanese, che divenne Senatore. Con carriera, come dire, napoleonica. Ne aveva la statura.
Enzo lasciava, anche da vivo, un grande vuoto: chi l’avrebbe sostituito quale Primo Responsabile di Banche & Finanza sul territorio? Uno che non aveva nemmeno un conto corrente.
Tra me e me dissi: ”Azzurro, è il tuo momento!” Trafelato mi presentai da Branko Ronfante, Segretario Provinciale, vestito come quando vado a Milano, in Piazza Affari.
“Eccomi qua, sono l’uomo che fa per te!” Non appena ebbi pronunciato la parola “uomo” – pur senza caricarla di connotazioni di genere – mi resi conto di essermi tradito.
Il Segretario mi iscrisse sul registro dei candidati al numero tsinque-tsento-tsinquanta-tsinque, sorrise affabilmente e mi liquidò con la frase – vero incubo di una vita – che per garbo istituzionale sostituisce il repentino invio a quel paese:
“Per la verità, pensàvimo de méterghe ‘na dona…” Avrà capito anche chi non vive in quella terra felice che va da Gardaland all’Adriatico.
Un giorno, in un crepuscolo che ho preferenza a definire color malva, ero nel patio a fumare un sigaro. Nel corso delle pigre oscillazioni della sedia a dondolo, attraverso uno spicchio di vetrata, potevo intravvedere i piedi della Consorte, le unghie laccate, la catenina alla caviglia sinistra. Le mutevoli sfumature del cielo preserale costituivano la condizione ideale per profonde riflessioni. “Io vedo lei, so che è lei. Lei non vede me!”. Questo fu il mio elaborato. E mi viene buono per il Partito, per cui stravedevo, non essendone, non dico riamato, ma nemmeno notato.
Così andavano le cose nel Partitone della Sinistra. Quando volevi silurare qualcuno, metterti di traverso a qualcun altro, tiravi fuori le Quote Rosa. Ma nulla è cambiato, una volta il killer alzava il ditino e diceva: “E se ci mettessimo un operaio?” Mai che lo stronzo offrisse il suo, di posto, ad uno “de quei che se lava le mane prima de pissàr, non dopo, come i siòri”. Sempre, quando si faceva il mio nome …
Io, che la notte dell’Immacolata 1970, mentre Miceli e Gasca Queirazza ordivano le loro oscure trame, presidiavo la Federazione Comunista armato di fucile per difendere l’indifendibile! Sarà prescritta, spero, questa storia!
Io, che avevo subìto 10 processi politici, uscendone indenne in nove casi, rischiando ogni volta il mio posto in banca!
La decima no, mi condannarono a sei mesi. Su denuncia di Marco Giacinto Pannella, cui augurai tante belle cose, tra cui l’obesità era la minore. E che gli avevo fatto? La gioventù del terzo millennio forse non sa che un tempo il PCI organizzava bibliche code, con anticipo di una settimana, davanti al Tribunale, per accaparrarsi il primo posto, in alto a sinistra, sulla scheda elettorale. Lo si riteneva di facile individuazione per il popolo che doveva metterci una croce.
Sagace, il nostro popolo: la prima volta che gli innovatori presentarono la lista per le Comunali in ordine alfabetico, i primi quattro, oscuri riempitivi, furono pavlovianamente eletti a valanga. La Testa di Lista nel cuore e nell’anima. Avessero insegnato l’orientamento sulla scheda e pure quello politico il popolo del Nord poi non sarebbe passato alla Lega a fare da costola!
Quella volta la stessa idea del primo posto venne anche ai Radicali. Loro avevano un elettorato di élite che il simbolo lo avrebbe trovato comunque. L’idea era, limpidamente, quella di romperci i coglioni. Fu la volta che vidi, in carne ed ossa, il primo travesti della mia vita.
Era acconciato da Carmen di Bizet, vestito rosso e garofano tra i capelli. Stazionava – e questo è quello che conta – davanti al portone del Tribunale, quando arrivò il primo plotone di militanti comunisti. Primo lui, indubbiamente. Il PCI aveva organizzato le cose in grande, con turni di compagni dalle quattro province della circoscrizione elettorale.
Al segnaposto radicale si unirono, ben presto, sparute rappresentanze delle professioni liberali e della “Verona bene” più l’amico/nemico Gianmaria Roots, credo l’unico sopravvissuto, oltre a me. Fu allora che la Direzione Politica mise in atto l’Operazione Leningrado. Per via dell’assedio, ma a parti invertite.
Una muraglia umana costituita da rudi e taciturni operai si strinse attorno ai Radicali, che erano sei o sette, compresa la Carmen. Chi voleva mangiare, fare la pipì, farsi dare il turno, veniva lasciato uscire. Ma la selva di compagni si richiudeva al suo passaggio diventando impenetrabile per chi voleva entrare. All’inizio furono tollerati lanci di panini ed altri generi di conforto, poi qualcuno cominciò a saltare come nel basket per intercettarli. No pasaràn, los bocadillos!
Quando presero a palpare il culo alla Carmen, sulla mia coscienza di classe prevalse lo spirito di Voltaire e me ne andai, né fui presente quando, all’ora di apertura del Tribunale, con l’arrivo dei compagni di Stienta, Rovigo, dalle mani callose e larghe come badili, dal basket si passò al rugby e poi al wrestling ai danni dei pochi radicali residui. Rugby, questa parola racchiudeva il mio destino. Il Pubblico Ministero, infatti, pur non avendomi mai fatto entrare nel suo campo visivo, mi definì: “… tal Azzurro, un sottopancia del Partito Comunista, tipico fisico da pacchetto di mischia del rugby, eccetera eccetera…
Chiese un anno e mezzo, ma la Giuria, avuto riguardo al mio fisico cagionevole (che indusse l’Esercito all’obiezione di coscienza contro di me, a riformarmi insomma) mi graziò con sei mesi, che erano tanti, visto la mia assenza dalla scena del crimine, ma potevano considerarsi una botta di culo nell’epoca in cui la Magistratura non era ancora tutta comunista.
Profondi dissapori ebbi persino alla fondazione della Libreria Rinascita, destinata a rischiarare le tenebre della nostra Vandea d’Italia. L’intellighenzia locale fu prodiga di consigli, mentre io, che intellettuale non ero, ci misi di mio cinque stipendi da bancario di allora, primi Anni Settanta. Di lì a poco il primo incidente: i miei amici di sempre, ex-aspiranti guerriglieri, anziché andare, come un tempo, in montagna per allenarsi a fare il Popolo alla Macchia (cit. Luigi Longo), si erano ormai buttati sui funghi, materia nella quale ero a livello zero. Per rimediare, andai alla “mia” libreria e chiesi un libro di micologia, con le foto a colori per distinguere quelli buoni. La compagna commessa, che più avanti per motivi oscuri divenne Direttrice della Libreria delle Donne, ovvero vigilante del relativo scaffale, dopo la precisazione che non avevo detto “mitologia” mi guardò con un misto di commiserazione e disprezzo, soggiungendo: ”qui non teniamo quelle robe lì!”
Infatti, a forza di non tenere questo e quello, la libreria fu dichiarata mezza fallita, azzerò il capitale, tra cui i miei cinque stipendi, che non vidi mai più. Sopravvisse il brand, con lo stesso Direttore e la stessa Direttrice delle Donne, con mezzi misteriosi quanto miracolosi. Uno di questi era lo stand fisso alla Festa de L’Unità, nel corso della quale smaltivano i fondi di magazzino (90% Editori Riuniti) a prezzo di copertina. A me manco un buono sconto quale socio fondatore azzerato e affondato.
Memorabile, infine, fu la mia esperienza di manager della Festa Provinciale de L’Unità. “Manager” mi definivano con rancore i soliti compagni callosi che erigevano gli stand coi tubi Innocenti e gestivano la Cucina di Vulcano dalla quale uscivano salamelle al benzopirene e risotti al tastasàl.
Il compagno Gino Marconcini, responsabile dell’Organizzazione e in precedenza addirittura delle Donne, doveva formalizzare l’ingaggio di una band. Fece arrivare, invece, la Banda di Conselice, specializzata in ouvertures operistiche. Ignaro di ciò, fronteggiai col servizio d’ordine una combattiva pattuglia di ex-amici gruppettari, i quali – parimenti all’oscuro – reclamavano il rock gratis.
Il compagno Renato Zangheri, sindaco di Bologna, era l’attrazione politica sulla quale lavoravamo da mesi. Chiamò “il Nazionale” all’ultimo minuto avvertendoci che, per sopraggiunti superiori impegni, lo avrebbe sostituito l’altrettanto compagno Angiolino Satanassi, primo cittadino di Forlì. Lo giuro, ma sembrava uno scherzo. E il Segretario lasciò a me l’onere ed il rischio di annunciare il nuovo oratore all’altoparlante. Ci misi tanta malizia, sottolineando ammiccante la natura luciferina del personaggio, proveniente da una terra dai sapori forti e sfavillante di bagliori anticlericali, che il Presidente delle Acli, che era un ospite con buono pasto, se ne andò a metà risotto…
L’apoteosi ci fu con Franco Battiato, di cui curai l’ingaggio con quattro palanche, spacciandolo per cantante di protesta quando già militava nella musica sperimentale e nell’avanguardia colta. Si esibì, con salopette e torso nudo non abbronzato, ricciolino ed occhialuto, con gli Osage Tribe. Al tempo non aveva al seguito quel macigno indigesto di Manlio Sgalambro. Il presagio però c’era: incidevano per l’etichetta Bla Bla!
Fu il pubblico a rendere perplesso il Compagno Segretario Margutte. Erano venuti tutti i gay del circondario, preti e militari compresi, sia pur in incognito, col pullover legato alla vita. Non era ancora l’epoca del coming out, nemmeno mediante estrosità nell’abbigliamento. Depilati, vestiti e curati nel look molto meno dei fighetti eterosessuali d’oggidì. Ma all’epoca, quella macchia vivace si notava, e come si notava! L’occhiuto Segretario scrutava perplesso. Nell’Inferno di Dante, c’è qualcuno che con le mani fa “ambo le fiche”, se ricordo bene. Margutte, quando voleva rafforzare il suo eloquio, intercalava il discorso con frequentissimi “indubbiamente”. Lottava, con pari determinazione, contro il Capitale e la Sintassi. Quando era alla Federbraccianti girava per la Bassa Veronese col compagno Elvìn. Lui guidava il Galletto Moto Guzzi, perché aveva una gamba di legno. Quando si fermava, i piedi a terra li metteva Elvìn, privo di mezzo braccio causa residuato bellico.
In un memorabile Comitato Federale mise l’avverbio addirittura a metà numero: “… perché dopo il 1968 c’è stato il millenovecento – indubbiamente – sessantanove …”, e poi univa pollice ed indice della destra facendo assertivamente ruotare il polso.
E pari pari si rivolse a me: “Operai – indubbiamente – non ce ne sono. Ma perché – compagno Azzurro – ci sono tanti flosci … come dire … orecchioni?”. Ed io, confuso e turbato da questi imbarazzati eufemismi di stampo proletario, mi eclissai in quella tipica notte estiva degli Anni Settanta.
E qui, in postfazione, dopo lo sfogo del mio rancoroso Mr Hyde, interviene pro veritate l’equilibrato Dr Jekyll: al PCI devo tanto. L’indimenticabile Segretario Margutte, cui feci da sherpa in un suo drammatico colloquio col Vescovo di Verona per indurlo a telegrafare nel Cile in pieno golpe per salvare la vita al compagno Luis Corvalan, mi designò nel Cda di un importante ente energetico, finendo per alzare le mie quotazioni nella banca che fino ad allora mi teneva nell’angolo causa posizioni politiche. Ed infine, con la Mano del Signore che lo guidava, mi sbarrò la strada, quando, col posto in banca, chiesi di fare il Funzionario di Partito, licenziandomi.
“Ti te sì mato, ghe n’è quindese de funsionari, tuti fuori corso, tuti es – disocupé, e i ciapa un terso del tò stipendio…”
Eppertanto:
- Yo declaro – y es la pura verdad –
Que soy miembro del Partido Comunista,
y no diré una palabra màs, màs, màs!
giorgio chiavegato
Posso solo dire: io c’ero!