Diceva Ennio Flaiano che in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Lui ne parlava a proposito della verità, ma di questi tempi vale a maggior ragione per la banalità, come purtroppo dimostra la frequentazione dei social. La banalità è una madre sempre gravida e i suoi figli ormai sono legione. E difatti su questi schermi ne sforna a ripetizione, di pallidi epigoni dei vari Serra, Gramellini, Grasso; epigoni che, dall’alto di cattedre alquanto pericolanti, si producono, quotidianamente e senza che abbiano mai a marcare visita, in concioni di profonde (per loro) verità su qualsivoglia argomento dello scibile universale e della cronaca meridiana. Dall’immigrazione alla fisica quantistica, dalle norme sulla navigazione alla guerra mondiale, dalla politica all’esistenza di Dio, non v’è bersaglio, naturale o sovrannaturale, che possa sfuggire al loro infallibile mirino telescopico da cecchino perennemente di sentinella.
E dunque, è tutto un fiorire di assertive declamazioni che, con animo sprezzante del pericolo e col petto coraggiosamente rivolto allo schermo, si immaginano di natura dirompente e di effetto illuminante. Qualche limitato e nient’affatto esaustivo (ché la banalità, come la fantasia, non ha limiti) esempio: la nostra Costituzione è “bella”, i diritti vanno garantiti, le sentenze si rispettano anche se non si condividono, bisogna stare dalla parte dei deboli e non da quella dei forti, dalla parte degli ultimi e non dei primi, in Italia le leggi sono scritte male, i salari sono bassi, passeggiare tra gli alberi e in mezzo ai fiori è meglio che andare al centro commerciale.
Banalità assolute – come altro le si potrebbe definire? -, e però (qui, l’arguzia!) sapidamente condite con arabeschi di frasi a effetto e citazioni colte, che rimandano anche il meno avvezzo ad un passato di lunga e faticosa acquisizione e ad un presente di letture pervicacemente impegnative.
Per carità, tutto lecito e nulla di nuovo: è stato detto (non da Flaiano ma è lo stesso) che gli italiani sono un popolo fortemente espressivo, nel senso che amano esprimersi di continuo e senza preoccuparsene troppo. Il punto è che però la dinamica – di più: l’architettura – di cui è composto il mezzo “social” è tale per cui il diuturno profluvio di arabescate banalità va a provocare e stimolare un effetto a dir poco vizioso. Quello che Paolo Sorrentino (che può piacere oppure no, ma banale non lo è certamente) in una battuta di una recente serie tv ha giustamente stigmatizzato come “uno dei sentimenti più orrendi dell’animo umano”, e cioè l’entusiasmo immotivato.
Ma sì, perché a commento del profluvio di cui sopra è tutta una gara a “bravo!”, “chapeau!”, “ottimo spunto!”, fino ad arrivare all’elogio ad personam: “sempre lucido!”, “come te nessuno!”, e via discorrendo (anzi, entusiasmandosi). E più la banalità è tale e più sale la curva orgasmica dell’entusiasmo collettivo. Che poi…“collettivo”… parliamone, giacché la collocazione geografica dei patentati followers di cui si compiacciono i nostri eroi a stento oltrepassa le mura del recinto urbano ove essi hanno trascorso praticamente l’intera esistenza, salvo, per taluni più fortunati, gli anni di studio universitario nel vicino capoluogo, da cui hanno subitaneamente e di gran carriera fatto ritorno, spaesati come montanari tibetani a Ibiza, non appena conseguito il sospirato pezzo di carta.
Ora, per sperimentare in concreto l’effetto come sopra definito, occorre armarsi di pazienza e coraggio (lì sì che ce ne vuole…), e provare a introdurre nell’ingranaggio dell’entusiasmo il granello non dico della contrarietà ma anche solo di una minima perplessità (vi sono casi in cui perfino le banalità possono essere errate o infondate, un fattore di complessità che però sfugge completamente ai nostri). Apriti cielo, prosciugati mare e spalancati terra. Si viene immediatamente surclassati di apprezzamenti degni di un mafioso evaso dal 41-bis, tali da renderti immediatamente consapevole come inutile e vana sia ogni argomentazione nel merito. Mai mettere in discussione il Verbo, soprattutto quando cavalca sulle ali della banalità. È da notare come in quella tenzone cavalleresca che ormai è divenuta la “discussione” social, il Proferitore (del Verbo) quasi mai intervenga direttamente nel rimbrotto al colpevole intruso, lasciando, come un velocista consumato, il lavoro di sfiancamento ai gregari. Le volte che interviene, e lo fa con tutto il peso sacerdotale di cui si sente investito, è allorquando occorra riportare nell’arabescato seminato lo sventurato seguace nel raro (quasi di scuola) caso in cui questi abbia osato fuoriuscirne, coltivando, anche solo per lo spazio di un “commento” o di un “like”, la mefitica gramigna del dubbio.
Ma siccome al peggio non c’è fine, e anzi segue un peggio ancora peggiore (spesso causato dal primo), tutto ciò produce a sua volta un altro effetto, che assume i contorni di vera e propria devastazione intellettuale, tanto da essere ormai divenuto canone di letteratura e studio. Il Nostro, continuamente oggetto di cotanto immotivato e limitato (territorialmente, ma non per Lui) entusiasmo, si sente sempre più missionario per conto della Verità, tanto da pretendere di poter vestire anche panni palesemente non suoi. Si va dalla toga del giureconsulto al camice dello scienziato, dalle mostrine del generale di corpo d’armata all’alloro del docente di relazioni internazionali o di scienza politica. Perfino la tunica del sacerdote (ma che dico: la berretta del cardinale!) non sfugge al suo multiforme guardaroba, riservando di poter discorrere di questioni teologiche alla pari con il Pontefice di turno.
Ed è qui che deflagra la bomba tossica dell’apparentemente innocua banalità: l’applicazione dei canoni della medesima (che a volte indossa astutamente la maschera della complessità) e del senso comune a questioni parecchio più stratificate: la guerra e la pace, la destra e la sinistra, l’Italia e l’Europa, il clima e le migrazioni. Affrontate come se fossimo, per dirla con Michele Apicella, in un film di Alberto Sordi. E una volta che la sala (leggi: bolla) è gremita, il riflesso spontaneo e maggiormente condizionato, si sa, è sempre quello di applaudire.
Ed allora, ecco il prodotto avvelenato della banalità arabescata, che, invece di essere trattata con l’indifferenza che meriterebbe, viene osannata e portata in trionfo dall’entusiasmo immotivato. Magari sotto l’arabesco vi fosse il vuoto, la palese insensatezza. Sarebbe senz’altro meno dannoso. Invece no, là si annida la vera malattia le cui spore appestano i nodi della rete e della discussione pubblica (ormai la stessa cosa), molto più dell’odio e delle fake news, la cui rapida diffusione tra le varie “bolle” avviene anzi proprio grazie alla lubrificazione previamente indotta dagli effetti della banalità.
Se il Novecento venne straziato dalla “banalità del male”, a noi, nani che si illudono di vestire panni da gigante, orfani come siamo dei veri giganti oggi rimpiazzati da esangui figuranti, tocca tristemente assistere al velenoso insorgere della “malità” del banale. Il futuro, anche qui come altrove, si presenta tutt’altro che luminoso.
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