Mi domanda un amico: «tu che sei nel contempo uno psicologo e uno studioso di scienze politiche, che dici? non è forse vero che l’Italia sta diventando il paese dell’odio?». La mia risposta è: sì e no. Nel senso: l’odio c’è sempre stato; in quanto predisposizione fa parte della natura umana e non è sempre un male; ma ora in effetti… c’è qualcosa di più e di diverso. Enzo Bianchi (sulla Repubblicadel 10 luglio) ha parlato di una diffusa «morte del prossimo» nella coscienza degli italiani e di una «morte della compassione» che non trova l’eguale dalla fine della guerra.
Che ci sia da qualche anno una crescita abnorme di manifestazioni di odio – le più varie, nelle parole e nei fatti – è sotto gli occhi di tutti. Basta pensare al fenomeno degli haterscol loro flusso ininterrotto di offese, diffamazioni, calunnie, invettive, minacce, che dilaga onlinee, seppure in misura minore e un pochino più contenuta, anche sulle prime pagine e perfino nelle aule parlamentari. Per non parlare delle violenze – verbali, ma talora anche agite – contro questa o quella categoria sociale: rom, immigrati, musulmani, ebrei, anziani, disabili, LGBTQI, donne (ammesso e non concesso che le donne siano in questo senso una “categoria”). Due soli esempi, entrambi piuttosto recenti ed entrambi accaduti a Roma. Primo, il 24 gennaio: una tranquilla signora se ne va per gli affari suoi, con la sola colpa di portare con sé un borsa con una scritta in ebraico, quando improvvisamente uno sconosciuto le sputa addosso tre volte (in faccia, sul trolley e sulla borsa) e poi si allontana. Secondo, il 2 aprile: una piccola folla, radunata per protestare contro l’arrivo di alcune famiglie rom in un centro di accoglienza di Torre Maura e per inveire contro gli operatori sociali, si diverte a calpestare una partita di panini imbottiti che suppone destinati ai rom. È facile immaginare come gli autori di queste vigliaccate (due fra mille) si siano poi allontanati non soltanto impuniti, ma perfino orgogliosi di sé! Con la felice coscienza di chi ha saputo manifestare una energica reazione contro «quelli lì», del tipo «quanno ce vò ce vò».
Ora, che queste reazioni irriflesse siano nutrite di odio, ed esse stesse odiose, è fin troppo ovvio. Ma già questo – il fatto che la maggioranza delle persone per bene si compiaccia di definirle “odiose”, cioè degne di odio– dimostra che c’è odio e odio. Come dire: uno cattivo, da evitare, e uno buono, che resta ammesso; un odio “odioso” e uno “giustificato”. Da qui a dire che “giustificato” è l’odio dell’odio il passo è breve ma, come dirò fra poco, neppure questo sarebbe esatto. Non è semplice il discorso sull’odio, cerchiamo di farlo come si deve. A tal fine mi permetto di aprire una (breve) parentesi psicologica di «teoria dell’odio». Che chiedo al lettore di seguire con pazienza quale necessario preambolo al discorso politico.
Teoria dell’odio. Una parentesi psicologica.
In quanto sentimento l’odio consiste nel volere il male dell’altro, cioè nel desiderio invincibile di arrecargli nocumento o anche, al limite, di distruggerlo e, talvolta, nell’adoperarsi a questo fine. S’indirizza contro qualcuno o qualcosa, ma può investire una intera categoria. L’oggetto dell’odio esiste nel mondo esterno, ma la capacità psicobiologica di “odiare” gli preesiste nel soggetto, vale a dire in ognuno di noi, e non è che unatra le possibiliforme di relazione soggetto-oggetto. Sulle orme degli a priorikantiani, la teoria psicoanalitica di W.R. Bion distingue tre tipi di “legame oggettuale”: L(l’amore, all’insegna delle pulsioni libidiche), H(l’odio, all’insegna delle pulsioni aggressive), K(la conoscenza, all’insegna della curiosità). PIù forme-legame possono attivarsi nei riguardi dello stesso oggetto, talvolta in modo conflittuale (come nel caso dell’ambivalenza affettiva); ma è pure normale che pulsioni di natura diversa o «consorzi di pulsioni» (Meltzer) sorreggano quelle che chiamiamo “passioni”: sentimenti complessi che non solo coinvolgono un oggetto, ma comportano un progetto. Nelle passioni abbiamo un oggetto d’amore (L) e un soggetto che si dispone ad esplorare tutte le possibilità di relazione con esso (K), però anche una disposizione aggressiva a difendere l’oggetto d’amore, e la relazione con esso, contro ogni oggetto terzo che possa recargli danno (H). Dal che risulta evidente che le pulsioni aggressive ispirate dall’odio (H) non sono per sé stesse un male; sono anzi una forma di relazione del tutto naturale, di alto valore evolutivo-adattivo. Sempre che siano intese a difendere gli oggetti d’amore (incluso se stesso) nell’ambito di un atteggiarsi complessivo illuminato dalla conoscenza. Insomma K,la funzione esplorativo-cognitiva, è quella che tiene annodate le altre due. Se K=0, amore e odio si sciolgono e se ne vanno ognuno per conto suo. Ne derivano: una visione bianco/nero (scissione degli oggetti affettivamente ambivalenti) e la «morte delle passioni» (cioè la morte dei sentimenti costruttivi, che cedono il passo a quelli di appropriazione/distruzione dell’esistente). Peggio ancora: seKassume un segno negativo, cioè se al desiderio di conoscere e di capire subentra il diniego opposto alla realtà da chi “nulla vuol saperne” (perché crede di sapere già con assoluta certezza tutto quello che c’è da sapere), allora Le Hrestano – direbbe Kant – «forme vuote»: prive di qualsivoglia oggetto conoscibilenonché passibile di amore o di odio per fondate ragioni e, dunque, facile preda di oggetti immaginari(qualcosa di molto simile alle allucinazioni). Bion considera Kla base della conoscenza simbolica e, viceversa, –Kdello stesso ordine della invidia (per cui esistono solo idealizzazioni positive/negative, entusiastiche o spregiose, le quali non possono essere introiettate ma solo proiettate all’esterno, perché fanno stare troppo male).
La rabbia degli esclusi nella democrazia contemporanea.
Ciò detto, torniamo al nostro problema: quello della diffusione sociale dell’odio.
Ad accendere l’odio non è sempre un oggetto effettivamente minaccioso che, esplorando l’ambiente, abbiamo correttamente identificato come “responsabile”. Egualmente capaci di accendere l’odio, e d’ispirare pulsioni aggressive, sono anche – al di qua di ogni oggetto – le frustrazioni di ogni genere. In particolare, ferite narcisistiche e mortificazioni della persona. Orbene: noi viviamo – in Italia più che altrove – una epoca e un tipo di società che espone milioni di persone a questo genere di frustrazioni. Non si tratta di una questione puramente economica né puramente “oggettiva”: gli italiani obbligati a tirare la cinghia per arrivare alla fine del mese sono stati in passato ben più di ora, a livelli di reddito ben più bassi. Così pure i disoccupati. Certo, la crisi finanziaria del 2008 e la stagnazione che tuttora ne consegue hanno colpito duro: non solo sulle tasche degli italiani, ma sul loro sentire. Quel che si percepisce – nell’ambito economico come ovunque – sono le variazioni: paradossalmente, il regresso e la delusione delle aspettative di crescita producono più risentimento di un livello di vita magari più basso, ma stabile e previsto. E più che mai ne producono se, nello stesso periodo, vediamo crescere le diseguaglianze a vantaggio di una ristretta minoranza (ma questo non è un problema solo italiano).
Per rendere le cose ancora più complicate (ma pure questo non è un problema solo italiano), noi viviamo oggi in un tipo di capitalismo molto diverso da quello puritano delle origini. Quello comandava la frugalità, metteva limiti e vietava di godersi la vita più di tanto: su tutto prevaleva l’impegno nella produzione. Tutt’al contrario l’economia odierna, fondata sul primato del consumo, comanda la dissipazione: stimola l’ingordigia (sia di oggetti, sia di esperienze), ci ripete (pubblicità in testa) No limits!e, insomma, fa del godere sfacciato il suo imperativo. Ma questo messaggio subliminale, ben lungi dal promuovere un’autentica liberazione, costituisce una ingiunzione paradossale per le minoranze ricche e una ironica presa in giro per la stragrande maggioranza. Come dire: «devi godere!». Sì, volentieri; ma come? di che?
A tutto ciò si aggiungono delle fonti di frustrazione e di rabbia peculiarmente italiane. C’è la rabbia degli esclusi– in particolare i giovani, specialmente del Sud: eterno problema del nostro Paese – ma c’è anche la rabbia di quelli che – al Nord come al Sud – si sentono frenati(dalla burocrazia, dal carico fiscale, da uno Stato più nemico che amico), qualche volta perfino braccati(penso alla delegittimazione sistematica d’intere categorie professionali). E ciò a fronte di alcuni altri che, solo per essere nel giro giusto, risultano invece garantiti, sostenuti e promossi al di là di ogni merito. Ne derivano, ed è ovvio, rancore e invidia.
Il rancore accende l’odio, gli conferisce un peculiare colore e ispira pulsioni aggressive vissute nel profondo come una specie di giusta vendetta degli esclusi. Che tali si sentono, esclusi, non solo e non tanto dalla distribuzione del reddito, bensì da ogni forma di riconoscimento sociale. Ed è questo un punto di estrema importanza, come dimostra il rilievo che assume oggi il tema del «riconoscimento» nel dibattito tra filosofi politici (Walzer e Honneth, per limitarsi a due nomi).
Poi c’è l’invidia: un sentimento fra i più distruttivi, con cui la democrazia – lo notava già Tocqueville – non può non fare i conti. La democrazia stimola l’invidia, il capitalismo stimola l’ingordigia: un circolo vizioso da cui invidia e bramosia vengono spinte sempre più su. È la fonte di conflitti più difficile da gestire – avvertiva lo psicoanalista Franco Fornari – tanto nel mondo interno come nella vita sociale, perché si finisce col voler distruggere tutto ciò che non possiamo avere né essere.
A questo punto abbiamo una forma attiva (H) in cerca di un contenuto da odiare. Pulsioni aggressive in cerca di un oggetto da attaccare. Se possibile, collettivamente: tutti insieme, per sentirsi meno soli e per darsi vicendevolmente quel riconoscimento che non viene trovato altrove (un po’ come succede oggi su certe pagine Facebook). Un oggetto d’odio, dunque, ma quale? L’invidia acceca, impedisce di ragionare…
Senza cornici: dall’odio ideologico all’odio selvaggio.
Una volta i partiti ideologici di massa e la Chiesa assolvevano a una funzione educativa e di sostegno, che impediva alle forme cognitive (K) di crollare travolte dall’invidia. Indicavano sì dei nemici, ma questi “oggetti” ben di rado erano persone da odiare in quanto persone; erano invece cause complesse, su cui intervenire per ridurre il malessere. Nella dottrina marxista la causa dello sfruttamento capitalistico non ha nulla a che fare con la cattiveria dei capitalisti, che possono anche essere ottime persone, bensì risiede in un certo meccanismo. E ben di rado nel PCI l’organizzazione della «lotta di classe» è stata un incitamento all’«odio di classe» (nel senso immediato di questo termine). Distinzioni analoghe si trovano nella dottrina della Chiesa. Giovanni XXIII, pur confermando l’anticomunismo di principio dei cattolici, volle distinguere fra l’«errore» e l’«errante», fedele in ciò all’antica distinzione fra odium theologicum, inevitabilmente connesso con la difesa dei propri princìpi, e odiotout court, evangelicamente inammissibile. C’erano dunque un «odio ideologico» e un «odio teologico» in qualche modo positivi: formulati in maniera tale da non assumere come bersaglio le singole persone (non direttamente, almeno) e soprattutto integrati, l’uno e l’altro, all’interno di progetti complessivi (che comprendevano analisi talvolta raffinate e valori supposti universali). Questi progetti potevano anche essere “anti-“ (anticapitalisti, anticomunisti), ma insieme con le rabbie e con le frustrazioni, che c’erano anche allora, veicolavano speranze, fiducia nel futuro. E catalizzavano un’autentica passione politica: di «militanza» nel PCI, di «servizio» nella DC. Non voglio idealizzare il passato, né mi nascondo che per alcuni l’impegno politico poteva fungere, ieri come oggi, da copertura degli interessi. Resta però che per milioni di persone l’impegno politico ben diversa dalle quelle che Benasayag chiama le «passioni tristi» di oggi. Di più: in quanto istituzioni, i partiti ideologici di massa offrivano agli aderenti un supplemento d’identità che leniva le ferite narcisistiche.
Le cose sono cambiate. Senza più istituzioni capaci di contenerle, le angosce collettive e l’odio da esse provocato dilagano all’esterno senza un bersaglio preciso, crescono senza disciplina (quel che Eliot Jacques chiama «contagio emotivo»). Come l’ansia libera si manifesta nell’individuo nelle forme del DAG (Disturbo di Ansia Generalizzata) così – potremmo dire – l’odio libero si manifesta nelle dinamiche di gruppo come DOG (Disturbo di Odio Generalizzato), finché questo DOG non trovi qualcuno o qualcosa contro cui “accanirsi”. A questo punto la domanda è: che succede quando l’oggetto da odiare non è chiaro? Le strade possibili in mancanza di un oggetto chiaro sono tre: (1) l’odio rifluisce all’interno sul soggetto stesso; (2) l’odio si ripiega su di sé, come odio dell’odio; (3) l’odio s’indirizza all’esterno sul primo oggetto a disposizione. Vediamole una per una.
Due strade dell’odio senza oggetto: depressione e “buonismo”.
L’odio che rifluisce sul soggetto stesso è molto simile a quello che la psicoanalisi chiamava «pulsione di morte». Ed è questa la strada che l’odio imbocca (forse) in talune patologie psicosomatiche e (certamente) in talune forme depressive. Di natura neppur tanto vagamente “depressiva” è il fenomeno post-crisi dei NEET (Neither in Employment nor in Education or Training), ben noto agli economisti e imponente nel nostro Paese (il 26% dei giovani fra 15 e 34 anni, secondo la Caritas). I Neet sono i giovani disanimati che «si chiamano fuori»: non soltanto né lavorano né studiano, ma ciò che è peggio hanno smesso di cercare e appaiono privi di ogni progetto di vita.
Seconda strada: l’odio senza oggetto si ripiega su di sé, come odio dell’odio. Sembra una cosa bella, ma non lo è: corrisponde a quello che si chiama «buonismo» ed è comunque una forma di odio, che mette in non cale tutte le regole. Il buonismo altro non è che il rovescio del «cattivismo», inteso con ciò l’uso vendicativo e persecutorio delle regole. I cattivisti sostengono – tanto per fare un paio di esempi – che tutti i rom sono ladri in potenza da reprimere con durezza e che i migranti sono qui solo per «rubarci il lavoro, stuprare le nostre donne, diffondere il terrorismo, imporre l’Islam», dunque da respingere in blocco. I buonisti sostengono invece che tutti gli immigrati e tutti i rom sono poveri cristi che, se infrangono le regole, lo fanno sospinti dal bisogno e che dunque tutto dev’essere loro perdonato. Il fatto che buonismo e cattivismo siano due facce della stessa moneta (l’odio ignorante, che di nulla vuol sapere e nulla cerca di capire) è confermato dal fatto che non solo crescono insieme e si alimentano l’uno dell’altro nell’Italia di oggi (con una ridicola quanto nefasta divisione del lavoro fra buonismo di estrema sinistra e cattivismo di estrema destra), ma da tempo coesistono all’interno degli stessi mondi e delle stesse istituzioni. Penso al mondo del giornalismo (che anziché assolvere alle funzioni informative ed educative che gli sono proprie, troppo spesso indulge fin dai titoli all’invettiva) e penso soprattutto alla mondo della giustizia, dove un certo “cattivismo” della magistratura inquirente coesiste con un certo “buonismo” di quella giudicante. Sarà pur colpa delle procedure complicatissime (che di certo vanno riformate), ma fatto sta che siamo fra i paesi col più alto tasso di detenuti in attesa di giudizio e, nel contempo, fra quelli dove risulta altamente improbabile che un individuo condannato anche più volte sconti effettivamente le pene comminategli. Come dire che sta fuori chi dovrebbe essere dentro e viceversa. La felice coesistenza di buonismo e cattivismo sta, del resto, pure nel linguaggio. In Italia, si direbbe, non esistono carceri né prigioni; quelle che negli eufemismi irridenti della burocrazia sono «case circondariali» (case, pensate!), negli auspici di tanti altri sono la «galera»!
La terza strada: distruggere l’altro.
La terza strada porta all’esterno. In mancanza di un oggetto specificamente responsabile del suo malessere (che non è capace d’identificare), il soggetto si accanisce contro il primo oggetto che gli capita a tiro. Non è propriamente uno «spostamento» di pulsioni aggressive da un oggetto a un altro, perché il primo oggetto manca(c’è un vuoto cognitivo, un buco); l’oggetto-bersaglio, opportunamente suggerito da chi ha interesse a farlo, viene usato dal soggetto per non deprimersi, vale a dire per riempire in qualche modo il buco nero dell’odioe prevenire che le pulsioni aggressive ispirate dall’odio senza nome gli rifluiscano addosso. Tuttavia, come nello spostamento, l’oggetto-bersaglio che viene suggerito deve presentare una qualche rassomiglianza con un vecchio oggetto di odio così da risultare in qualche modo “familiare” (ciò che ne facilita l’identificazione). È un vecchio trucco, ma purtroppo funziona sempre. Per reindirizzare contro gli ebrei l’odio di masse popolari ancora in parte egemonizzate dal comunismo, i primi manifesti nazisti dipingevano l’Ebreo con le stesse fattezze porcine e nelle stesse pose con cui i manifesti comunisti dipingevano il Capitalista. Analogamente, il successo elettorale del M5S nelle politiche 2018 ha potuto mobilitare in parte gli orfani della sinistra anti-sistema aizzandoli contro una generica «casta» da rovesciare immantinente, dipinta con colori che la facevano rassomigliare ai «borghesi borghesi, ancora pochi mesi» di tanti anni fa.
Tuttavia, rispetto agli slogan del Sessantotto (per non parlare dei partiti istituzionali della prima repubblica), la propaganda con cui populisti e sovranisti additano al Popolo nemici da odiare presenta una inquietante novità. Non si tratta tanto di oligarchie da scalzarebensì, troppo spesso, di persone da distruggere. Persone in carne e ossa additate al pubblico ludibrio in quanto personificazioni simboliche di categorie immaginarie. E ciò non sulla base comunque razionale di analisi politiche (fosse pure sbagliate), ma sulla base puramente apodittica di affermazioni insensate, ora bugiarde ora folli. Per esempio: Laura Boldrini in quanto personificazione di una Casta di corrotti che vivono di sfacciati privilegi alle spalle degli italiani; Carola Rackete come agente del «piano di sostituzione etnica» voluto da Soros; per non parlare delle persecuzioni mediatiche subite da Maria Elena Boschi. E che mi siano venute in mente tre donne non è forse casuale; anzi, la dice lunga sul clima becero e violento che populismo e sovranismo sono riusciti a creare.
Come se ne esce?
Perché succede tutto questo? Come siamo passati dalle Odi barbareche leggevamo a scuola agli “odi barbari” che imperversano sulle bacheche dei social media, da quelle tracimando nella vita reale? Qui bisogna stare molto attenti, perché le fallacie prospettiche sono in agguato (e col rimpianto dei bei tempi andati non si va mai da nessuna parte). Gli italiani nonsono oggi più ignoranti e più cattivi di quando eravamo ragazzi; al contrario, sono mediamente più colti e più educati. Quello che vediamo è solo una maggiore presenza d’ignoranza e di cattiveria sulla scena pubblica. In realtà le persone rozze e potenzialmente violente sono moltomenodi prima, ma più selvaggio (perché privo di cornici) è l’odio che ognuna di esse sviluppa e più esili le barriere che in ognuno si frappongono fra la pulsione aggressiva e il passaggio all’atto. Per contro, enormemente più vaste sono la visibilità, e dunque l’influenza, su cui costoro possono contare. Ciò per un complesso di ragioni che sarebbe lungo analizzare in dettaglio, ma che si possono intuire: ragioni storiche di lungo periodo (la trasformazione dei partiti, il declino delle ideologie); ragioni sociologiche, connesse con le nuove forme di comunicazione; però anche ragioni politiche, perché si tratta di un odio coltivato ad arte, di cui sovranismo e populismo non possono fare a meno per esistere.
Come se ne esce? In prospettiva, con un progetto di governo più credibile, sorretto da una dottrina politica all’altezza dei tempi, che stenta a vedere la luce. Campa cavallo! Ma nell’immediato come evitare che l’ignoranza, l’invidia, l’odio selvaggio travolgano le strutture della democrazia liberale? Come rivolgersi all’esterno? Non certo facendo prediche francescane da saputelli di sinistra, che ci renderebbe più che mai… odiosi. Buonismo, no. Semmai battendosi – con tutti quelli che ci stanno – per una serie di riforme che vadano alla radice del problema, in due campi. Primo: nella sfera dei partiti, per nuove forme di selezione del personale politico (che oggi non pare più in grado di fungere da esempio, se non cattivo). Secondo: nel campo della comunicazione, dai talk show a Facebook. Riforme tali da coinvolgere, rinnovandole profondamente, la polizia postale, la magistratura, la scuola, l’ordine dei giornalisti, il garante delle telecomunicazioni, l’antitrust, l’Europa stessa. Per una informazione di qualità liberamente accessibile e facilmente riconoscibile contro le «postverità» subdolamente diffuse. Nell’interesse – va spiegato – della stragrande maggioranza. Perché, certo, abbiamo bisogno di norme e istituzioni che rendano più facile reprimere gli abusidal basso; ma ancor più abbiamo bisogno di prevenire gli abusidall’alto(ciò che solo l’Europa ha dimostrato qualche volta di poter fare).
Queste riforme bisogna studiarle per tempo, cioè: ora. E non hanno nulla a che fare con la solita storia di «aggravare le pene», ritornello del «cattivismo». Né buonisti né cattivisti. Solo riformisti.
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