Alcune brigate delle Idf inizieranno questa settimana il rientro alle loro basi dall’area. Si tratta delle zone di guerra dove l’esercito israeliano avrebbe raggiunto l’obiettivo di neutralizzare le capacità offensive di Hamas, in particolare con la distruzione delle postazioni fisse e mobili da cui sono state lanciate ogni anno decine di migliaia di missili contro le città e i villaggi israeliani.
Contemporaneamente si sta per avviare il ritorno graduale alle loro abitazioni dei cittadini israeliani evacuati dopo il 7 ottobre perché residenti nelle zone di confine con la Striscia di Gaza e con il Libano. Sono piccoli segnali che qualcosa si sta muovendo, ma la realtà sul terreno resta drammatica mentre proseguono le campagne di disinformazione favorite dalle ottuse posizioni pubbliche espresse in questi giorni dai Ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Givr, esponenti della destra israeliana.
La disinformazione regna sovrana, ma il massacro del 7 ottobre ha il acceso i riflettori su due ineludibili dati di fatto che nessuno può negare:
- dal 2005 ad oggi Hamas e la Jihad islamica hanno mantenuto il controllo (pressoché assoluto dal 14 giugno 2007) della Striscia di Gaza;
- per quasi 20 anni Hamas ha potuto accumulare – quasi indisturbato – un arsenale militare di proporzioni tali da rappresentare una minaccia esistenziale per lo Stato d’ Israele.
L’ aggressione in territorio israeliano del 7 ottobre scorso ha fatto legittimamente sospettare che siano stati anche utilizzati i più recenti e sofisticati strumenti di guerra elettronica per accecare le comunicazioni delle Idf quantomeno nelle prime ore dell’ assalto. Prima o poi qualcuno dovrà spiegare ai cittadini israeliani come e perché per quasi vent’anni il potenziamento militare di Gaza (di dimensioni inaudite) sia stato consentito dalle autorità politiche. Nella speranza che arrivi una spiegazione di questa prolungata e imperdonabile miopia politica segnalo che i primi segnali di alleggerimento della pressione militare israeliana sulla Striscia (a cui ho accennato all’ inizio) rendono ancora più urgente una strategia per affrontare adeguatamente il dopoguerra.
Una ampia riflessione politica è necessaria per non ripetere gli errori commessi durante gli otto anni del percorso negoziale di Oslo, che si è rivelato inconcludente. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu evita accuratamente l’ argomento per non dissolvere l’ibrida e litigiosa maggioranza che sorregge il suo governo.
In Israele, inoltre, alcuni quotidiani sostengono la tesi (a mio avviso davvero singolare) che parlare del “dopo” indebolirebbe lo sforzo bellico delle forze armate che combattono per difendere Israele dopo il massacro del 7 ottobre (di gran lunga la maggiore strage di cittadini ebrei dalla Shoah ad oggi).
L’esperienza storica – viceversa – insegna il contrario. Senza una chiara strategia per il post-conflict una nazione non è in grado di acquisire e consolidare stabilità e sicurezza nel medio e lungo periodo. Per gli israeliani e i per palestinesi è l’ora della verità. Questa volta non si possono tollerare gli errori, le ambiguità e le incertezze che hanno accompagnato gli accordi di Oslo e la loro implementazione.
In un articolo di grande interesse scritto nel 2013 per la Fondazione Konrad Adenauer, Ron Pundak ha raccontato come sono andate veramente le cose. Ron era uno dei due principali negoziatori di Oslo ed è scomparso prematuramente all’ eta’ di 59 anni. L’ ho conosciuto molto bene perché quando era direttore del Peres Center tra il 2007 e il 2010 abbiamo seguito insieme progetti di “track II diplomacy” (“diplomazia parallela” ndr), come Saving Children per la cura di 12.000 bambini palestinesi in Israele, nonché il Forum for Peace che ha coinvolto numerose Ong israeliane e palestinesi guidate dall’ attuale Ministro degli Esteri dell’ Anp Riad Malki.
Nell’articolo che ho citato Pundak ha descritto con grande lucidità le esitazioni, le incertezze e le ambiguità dei grandi protagonisti di Oslo: Rabin, Arafat e Peres. Nello stesso testo ha raccontato le tante vicissitudini delle fasi successive (Oslo 2). Per esempio le grandi rivalità interne a Fatah creavano grandi difficoltà quando si trattava di decidere su come comporre le delegazioni palestinesi ai negoziati; per non parlare degli atteggiamenti ondivaghi e degli sterili tatticismi prima di Netanyahu e poi di Barak. I negoziati di Oslo si sono sostanzialmente arenati quando proprio per la mancanza di visione, le dispute intra-partitiche e inter-partitiche hanno preso il sopravvento sia sul fronte palestinese che su quello israeliano. Ron Pundak ha sempre sostenuto che per arrivare alla pace è necessario indicare da subito qual’ é l’obiettivo finale a cui puntano le parti. Poi, su tutto il resto (tappe, tempi, modalità, ecc.) si può trattare. La verità è che per una parte (non piccola) di palestinesi la distruzione di Israele è più importante della nascita dello Stato palestinese. Così come una fetta significativa di cittadini israeliani vede la nascita di uno stato palestinese come il fumo negli occhi.
Per questo le parti devono innanzitutto convergere sull’ obiettivo di rovesciare queste percezioni prospettando senza timidezza e/o retropensieri l’ unica soluzione che almeno a me pare possibile: due popoli, due Stati (2p2s). Sui contenuti specifici, le diverse tappe e i tempi in cui articolare il processo di pace si potrà discutere (in particolare a chi affidare la gestione transitoria della Striscia di Gaza dopo la sconfitta di Hamas) ma la soluzione politica finale – 2p2s – deve essere condivisa pubblicamente dalle parti sin dall’ inizio.
Dopo l’orrendo massacro del 7 ottobre e dopo una guerra così aspra in cui un grandissimo numero di civili palestinesi ha perso la vita non ci si deve aspettare una coesistenza facile tra i due popoli e i due Stati. Dopo la strage del 7 ottobre e la risposta militare israeliana, tutto sarà ancora più difficile di sempre; probabilmente servirà più separare con accortezza che creare contatti. Proprio per questo non basta riproporre gli accordi di Abramo peraltro concepiti e siglati – come ha ricordato l’Ambasciatore Antonio Badini – scavalcando i palestinesi.
Le distanze resteranno grandi, le ferite aperte, ma servono due Stati che si riconoscano reciprocamente. I palestinesi e i paesi arabi devono riconoscere ad Israele il pieno diritto ad esistere e prosperare. E gli israeliani – anche quelli più riottosi – devono arrendersi all’ idea che – gli piaccia o non gli piaccia – anche il popolo palestinese ha diritto a creare uno Stato suo proprio. Occorre liberare al più presto tutti gli ostaggi, ma anche mettere Hamas in condizione di non nuocere nel medio e lungo periodo. Per raggiungere questo ultimo obiettivo è indispensabile la convergenza politica su 2p2s.
Questa è l’ipotesi a cui stanno lavorando gli Stati Uniti e che è fortemente osteggiata dalla Russia e dall’Iran. I Paesi che vogliono essere coinvolti nella mediazione sono numerosi cosi come quelli interessati a garantire la sicurezza nella Striscia (e poi la ricostruzione) dopo il cessate il fuoco. Si mormora di un possibile interesse a partecipare di un membro della Nato come la Turchia, degli Emirati Arabi Uniti, della Giordania, della stessa Arabia Saudita. É presto per prefigurare una coalizione internazionale, ma è il momento giusto per ricordare che il presidente russo Vladimir Putin ha tradito la fiducia accordatagli (non si sa bene perché) da Benjamin Netanyahu; e che lo stesso Vladimir Putin il 7 dicembre è stato accolto con tutti gli onori ad Abu Dhabi e Ryad.
Quando discuteranno con gli Stati Uniti le garanzie di sicurezza da offrire ad Israele nei nuovi assetti di Gaza, le cancellerie europee (Farnesina compresa) non dimentichino che alcuni paesi arabi non solo si sono girati dall’ altra parte quando la Federazione Russa ha invaso l’ Ucraina, ma hanno fatto di molto peggio dopo che il 7 ottobre Hamas ha aggredito Israele. A buon intenditor poche parole.
Lascia un commento