La scelta dell’argomento da trattare questo mese è quasi obbligata ma considerandone la complessità e soprattutto quanto è stata lunga la strada per giungere a questa scoperta, gli dedicheremo più di un appuntamento. Parliamo, come avrete già capito, della famosa fotografia che ha fatto il giro del mondo, quella che immortala un buco nero. Per la prima volta gli scienziati che partecipavano all’ambizioso progetto internazionale denominato “Event Horizon Telescope”, hanno pubblicato orgogliosamente la storica e meravigliosa immagine di un buco nero. Si tratta del buco nero supermassiccio presente nella galassia M87, a circa 50 milioni di anni luce dalla Terra. L’immagine del secolo è stata ottenuta puntando la galassia con otto potentissimi radiotelescopi. Ma per capire i possibili scenari che abbiamo spalancato si deve procedere con ordine. Innanzi tutto: cos’è un buco nero? Sorprendentemente bisogna risalire molto indietro nel tempo per ripercorrere le stazioni di un viaggio lunghissimo cominciato addirittura nel 1700. Il primo attore a comparire sulla scena è un pastore anglicano, un personaggio veramente originale, John Mitchell. Siamo a Londra, più precisamente alla prestigiosa Royal Society, centro di attrazione delle menti europee più geniali del 17° e 18° secolo. In un trattato datato 1783 si trova una ipotesi tanto semplice quanto rivoluzionaria: la luce emessa da una stella di massa straordinariamente elevata può non essere visibile. Nel 1796 Laplace farà un ragionamento identico calcolando che una stella avente la stessa densità della terra, ma con un diametro 250 volte quello del Sole, risulterebbe impossibile da venire osservata. Alla base c’è una ipotesi tutto sommato semplice, per capirla bisogna fare un calcolo matematico banale a partire dalle Leggi di Newton. Supponiamo di lanciare un oggetto, più lo lanciamo in alto più tempo impiegherà per tornare a terra. La domanda che si pose a quel punto fu la seguente: esiste la possibilità di effettuare un lancio abbastanza potente da far sì che l’oggetto non torni più giù? Esiste una velocità oltre la quale la pallina riesce a sfuggire all’attrazione gravitazionale della terra? La risposta fu sì, e fu facile fare i relativi calcoli. Questa velocità prende il nome di velocità di fuga. Emerge in modo chiaro che più la massa del pianeta è grande, più la velocità di fuga dovrà essere elevata. E’ intuitivo: più pianeta è massivo, maggiore sarà l’attrazione gravitazionale che è in grado di esercitare e di conseguenza maggiore sarà la velocità di lancio da imprimere a un oggetto se vogliamo che sfugga a tale attrazione. Un ipotetico corpo la cui velocità di fuga fosse superiore a 300.000 km al secondo, farebbe prigioniera persino luce e risulterebbe invisibile. Fino a questo punto siamo però rimasti sul piano del mero esercizio accademico, nessuno pensava davvero che oggetti del genere potessero esistere nel mondo reale. Con la relatività generale Einstein apre una nuova visione della gravitazione, vista come una deformazione del tessuto dello spazio-tempo che ci circonda. Noi non ce ne accorgiamo perché la gravità del mondo nel quale viviamo è molto debole e quindi lo spazio ci appare euclideo, che è quello spazio familiare studiato appunto sui banchi di scuola. Ma quando la gravità è elevata, lo spazio attorno all’oggetto che la crea, si curva e modifica le sue caratteristiche. Oggi sappiamo che questa bizzarria non esiste solo sui quaderni di matematica tra formule astruse ed è stata confermata proprio dall’esistenza dei buchi neri. Questisono oggetti nei quali la gravità è tanto elevata che lo spazio si curva. Il tessuto dello spazio-tempo è talmente ripiegato su se stesso da costringere la luce a percorrere un tunnel senza sbocco. La vera domanda a questo punto è: ma se in natura un corpo come quello che ci siamo immaginati matematicamente esiste davvero, cosa sappiamo sul suo conto? Com’è che si formano questi oggetti che sembrano essere più mitologici che astronomici? Qui si concentra tutta la prima fase dello studio sui buchi neri: è necessario investigare sui processi portano un corpo celeste in quelle condizioni estreme. Se vogliamo capire questo bisogna avere chiaro cosa accade “in morte di una stella”. Ci sono voluti decenni ma pian piano i meccanismi della formazione, dello sviluppo e della fine delle stelle hanno iniziato a farsi più chiari. Come muore una stella? Quali sono le stagioni della sua “vita” galattica? Innanzitutto per essere così come è, una stella, al pari di tutti i corpi deve avere un suo equilibrio, similmente a quello che c’è tra due forze opposte. Le stelle sono costituite prevalentemente da idrogeno ed elio e il complicato processo che le tiene in vita prende il nome di fusione nucleare. Proprio come gli esseri umani, le stelle nascono e muoiono e, proprio come gli esseri umani, nel corso della loro vita, devono affrontare molte scelte. Una stella “nasce” da una nebulosa interstellare, cioè da un ammasso di gas in cui gli elementi iniziano a interagire fra loro. Questo causa una contrazione e un successivo e massiccio aumento di densità. L’antagonismo tra le forze gravitazionali interne, che tendono a far contrarre l’ammasso di gas, e l’elevatissima pressione termica che tende a farlo esplodere, determina il successivo destino: superata una massa critica, i materiali collassano e si ha la formazione di una protostella. Essa si trova al centro della nube e la forza gravitazionale le permette di trattenere materiali e accrescere sia la sua massa che la sua densità,raggiungendo temperature elevatissime. Poiché al suo interno non c’è alcun tipo di reazione nucleare in grado di liberare energia, la protostella continua a ridurre le proprie dimensioni, fino a quando il nucleo raggiunge la temperatura di 10 milioni di kelvin. Superata questa soglia la protostella diviene una stella. Nel suo nucleo la temperatura e la pressione sono talmente alte da trasformare la materia in uno stato di plasma. Nella stella, ormai adolescente, cominciano ad evidenziarsi alcune criticità. Le reazioni di fusione nucleare permettono di liberare raggi gamma e fotoni a seguito della trasformazione di atomi di idrogeno in atomi di elio. Grazie all’energia liberatasi, la stella è in grado di sorreggere gli strati più esterni, evitando il collasso completo. Proprio la massa è l’elemento che permette di prevedere per quanto tempo la stella si troverà in questa situazione di equilibrio. Infatti la stabilità è legata alla disponibilità di idrogeno all’interno del nocciolo: quando esso finisce avverranno nuove contrazioni ai danni del nucleo. A questo punto la stella deve operare una scelta: se ha una massa piccola, il collasso non potrà andare incontro a nuove fusioni nucleari e soccomberà. Se invece è dotata di grande massa, la temperatura aumenterà tanto da permettere nuove reazioni trasformandola in una gigante rossa.Nel nucleo l’elio si trasforma in carbonio, ma quando anche l’elio terminerà ci sarà un ulteriore bivio legato ancora alla massa della stella. Se essa è abbastanza grande, la gigante si trasformerà in una supergigante rossa, e nel nucleo il carbonio diventerà protagonista di ulteriori fusioni nucleari. Questa situazione di instabilità terminerà quando il nucleo della stella diventerà di ferro, elemento che non permette di liberare l’energia necessaria a stabilizzare l’astro, che inevitabilmente andrà incontro alla morte. Anche l’ultima fase di vita di una stella dipende dalla massa: se è inferiore a 8 masse solari, il nucleo, dopo aver espulso gli strati più esterni che costituiranno una nebulosa planetaria,diventerà una nana bianca. Se invece la stella è più grande di 8 masse solari, essa esploderà formando una supernova e il suo nocciolo diventerà una stella di neutroni, una pulsar o un buco nero.La forza di attrazione gravitazionale di quest’ultimo, come abbiamo già detto, è immensa: tutto ciò che gli passa troppo vicino viene catturato e vi cade dentro, senza poterne più uscire.Il punto di partenza di ogni osservazione astronomica è proprio l’appetito dei buchi neri, che fanno grandi scorpacciate di astri vicini modificando il movimento di masse non troppo distanti. Il materiale che cade verso il buco nero crea dei grandi e spettacolari anelli che lo circondano ed è così che scopriamo, lì concentrata, una massa enorme. In fondo un buco nero è una sorta di Pantagruele cosmico pronto a ingurgitare tutto quello che incautamente gli si avvicina anche se in realtà, l’attrazione gravitazionale che esso esercita su un corpo, dipende dalla distanza dal corpo stesso: solo chi è troppo spericolato viene catturato da questo gigantesco imbuto spaziale. I buchi neri sono fra gli oggetti più misteriosi ed esotici, si deve applicare la fisica quantistica per avere la possibilità di ricostruire le loro origini. Proviamo a spiegarlo un po’ meglio, riproponendoci comunque di tornare sull’argomento anche in futuro. E’ importante a questo punto introdurre e definire il concetto di “conservazione dell’informazione”. In pratica quando osservo un oggetto che ha attraversato varie fasi di evoluzione dovrei essere in grado, in linea teorica, di ripercorrere a ritroso tutti i capitoli della sua storia, paragrafo per paragrafo. Quando però ho a che fare con i buchi neri questo non accade. Non posso risalire al punto di partenza, essi distruggono l’informazione, sono dei severi censori siderali che sigillano ermeticamente il proprio interno dall’universo circostante. Per questo gli scienziati di tutto il mondo gioiscono come paparazzi per l’eccezionalità della “fotografia”, un vero e proprio scoop cosmico che ha immortalato l’attore più tenebroso e sfuggente del firmamento. Siamo di fronte a una cosmogonia che investe domande in un certo senso esistenziali. Di primo acchito tutto questo può sembrare controintuitivo e paradossale, ma nell’ambito della fisica quantistica è del tutto normale perdere l’orientamento. Non dobbiamo spaventarci di fronte a questo “ammasso di buio” più grande dell’orbita di Saturno e avente massa di sei miliardi e mezzo di soli. Per quanto indifesi, ci troviamo pur sempre a una distanza di decine di milioni di anni luce. In fondo anche al centro della nostra galassia è placidamente ospitato un enorme buco nero in cui sono concentrate centinaia di milioni di masse simili al sole. E’ un vicino taciturno e riservato anche se ingombrante. Vorrei concludere accennando a un ulteriore concetto, che va sotto il nome vagamente leopardiano di “orizzonte degli eventi” e che approfondiremo nella prossima puntata; per adesso ci limitiamo a dire che questo cosiddetto orizzonte divide lo spazio interno al buco nero da quello all’esterno; in soldoni è quella superficie sferica che contiene una massa talmente grande, e avente quindi una velocità di fuga così elevata, da rendere impossibile capire cosa accade “oltre”. In pratica questa, altro non è che una linea immaginaria superata la quale l’informazione si perde, e non siamo più in grado di ricostruire cosa è avvenuto al di là diun raggio limite chiamato raggio di Schwarzschild, dal nome di uno dei fisici-matematici più straordinari della storia. E’ stato lui a modellizzare l’evoluzione stellare stupendo in prima persona Albert Einstein, tra i pochi o forse l’unico ad aver capito che i calcoli di questo giovane tenente di artiglieria tedesco, partito volontario per il fronte durante la Grande Guerra, avrebbero rivoluzionato per sempre il nostro modo di guardare il mondo. Anche sulle vicende avventurose e sugli studi di quest’ultimo torneremo in futuro. Per il momento godiamoci la visione del re nero dell’universo, incoronato di plasma fluorescente nella profondità dello spazio siderale.
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