Che bello! Siamo riformisti e vedere aprire uno “spazio” di discussione sul riformismo in Italia non può che essere un motivo di contentezza. Però occorre subito chiarire una cosa. Il riformismo in Italia è una parola a forte dose di ambiguità. Riformisti erano quei socialisti e comunisti che, nel dopoguerra, non pensavano di cambiare l’Italia attraverso un esito rivoluzionario. E per questo furono in parte avversati da una cultura comunista egemone che, magari non pensava, ugualmente ai riformisti, alla rivoluzione, ma che tardava a ribaltare l’impostazione originaria che quella rivoluzione preconizzava. E riformisti, per andare in tempi più recenti, erano quei pensatori di sinistra che, abbandonando il mito dello Stato come unico, o principale, strumento di regolazione dell’economia, ammettevano la logica e il principio del mercato anche per regolare aree un tempo esclusivamente delegate all’indirizzo e alla azione della mano pubblica. Insomma i riformisti stavano nel solco della sinistra socialista e comunista italiana ma con una maggiore apertura verso l’approccio liberale, meglio liberaldemocratico, non solo verso l’economia ma anche verso la società italiana.
Ecco io penso che questo approccio abbia ancora oggi, anche in un periodo di ritorno all’ideologia statalista che si avvale di percorsi molto diversi da quelli tradizionali della sinistra italiana ed europea, una grande prospettiva. Ma con una specificazione. E cioè che l’approccio riformistico se vuole trovare il consenso nella attuale contemporaneità deve essere radicale. Cioè un riformismo moderato, che cioè vuole stare dentro il caldo nido di uno statalismo rassicurante e conciliante, magari aprendo soltanto alcuni ristretti spazi di libera iniziativa dei singoli, dei gruppi e della comunità rischia di non interessare nessuno e di risultare perdente sia in termini di sviluppo che in termini di sicurezza per i cittadini. E se il riformismo cede sullo sviluppo, che è il terreno proprio di elezione, è evidente che non può che perdere sul terreno della sicurezza e delle garanzie per una popolazione sempre più impaurita e vessata dal binomio sconvolgente della finanziarizzazione e dalla globalizzazione dell’economia. Due elementi che sempre di più appaiono distruttivi delle strutture istituzionali nazionali che hanno rappresentato il confine di riferimento della democrazia in occidente e distruttivi di un capitalismo che magari mancava di qualche elemento di partecipazione dei lavoratori ma che garantiva crescita e benessere diffusi.
Quindi, dicevamo, il riformismo deve oggi presentarsi agli italiani come un approccio radicale. E deve far intendere come potrebbe cambiare davvero la vita quotidiana dalla applicazione di alcuni, pochi, principi che derivano dalla tradizione liberaldemocratica di stampo anglosassone e che sempre hanno avuto una certa resistenza ad affermarsi nel nostro sistema latino.
Il primo concetto da affermare in maniera forte è quello del mercato. In Italia, nelle diverse esperienze più o meno riformiste degli ultimi decenni, si è pensato più al concetto di privatizzazione (che è una precondizione) che a quello di mercato. Per cui si è abbandonato lo statalismo per andare verso un sistema di oligopolio privato. Ovvero dalla padella nella brace. Ed invece quello che deve essere rafforzato è il mercato come strumento di allocazione delle risorse e come, attraverso il principio della concorrenza, generatore di efficacia e di efficienza. Il fatto è che il tema non è principalmente privato vs pubblico ma modello di mercato vs modello di regolazione pubblica. E non è la stessa cosa. Ci sono tanti modi per rafforzare la logica di mercato nell’economia del paese. Anche nelle aree gestite dal pubblico. E’ questa la vera riforma del paese. E non la privatizzazione di qualche pezzo dell’economia magari sotto l’ombrello di favorevoli concessioni pubbliche e di qualche favorevole regolazione dello Stato.
Legato al principio del mercato c’è il principio della meritocrazia. Spesso quando si parla di merito lo si collega ad una vaga idea di giustizia sociale. I più bravi è giusto che vadano più avanti. E questo sarebbe, in sé, già una importante acquisizione per un paese come l’Italia dove vanno sempre avanti i figli di, gli amici di, gli appartenenti a e gli adulatori del. Ma qui il tema è più complesso. Mandare avanti i più meritevoli, in tutti i campi dalla politica all’economia, dalla cultura al giornalismo, e così via nei diversi settori della società è non solo giusto ma è anche utile. Giusto per i singoli e utile per l’intera comunità. La concorrenza e, laddove non esiste, la selezione devono tendere a far avanzare i migliori perché così funziona meglio il sistema. Diventa più efficiente e più creativo. E, come effetto indotto, spinge i singoli all’impegno nello studio e nel lavoro come principali strumenti di elevazione sociale. E crea infine, cosa non banale in un momento di delegittimazione della conoscenza e delle competenze, una più elevata accettazione sociale delle inevitabili differenze di ruolo, di reddito, di carriera e di prospettiva che i diversi soggetti acquisiscono nel corso della loro vita produttiva e di relazione.
Ed infine, accanto a mercato e meritocrazia, emerge con forza l’idea di responsabilità. In un mondo meno protetto dallo Stato e meno intermediato dalla scelta politica non viene meno l’idea della solidarietà e dell’accompagnamento dei singoli e delle comunità sociali o territoriali svantaggiate verso un migliore equilibrio economico e sociale. E questo creando in primis una tendenziale eguaglianza iniziale delle opportunità ma anche, in un sistema che si definisce liberaldemocratico e non liberista, un recupero di chi resta indietro. Di chi non ce la fa per svariati motivi, sia dipendenti dalla sua capacità e impegno sia dipendenti da variabili esterne. Ma in un sistema liberale l’idea della responsabilità di “sé verso sé” deve essere centrale nell’approccio alla vita. L’Italia ci parla spesso, basta vedere la filosofia di approccio dell’attuale reddito di cittadinanza del Governo gialloverde, di un paese in cui le difficoltà individuali e di gruppo vengono sempre e solo ribaltate sullo Stato. E’ lo Stato che deve. Il cittadino al massimo può. E non sempre. Ecco, un approccio di riformismo radicale deve ribaltare questo principio. E lasciare ovviamente intatte, anzi rafforzarle, le garanzie di sostegno nelle difficoltà per tutti. Ma solo a fronte di singoli e comunità che prendono in mano il proprio destino, il proprio percorso di rinascita e di riscatto con l’aiuto dello Stato ma mettendo in campo in primo luogo la propria responsabilità.
Insomma riformismo è per me mercato, meritocrazia e responsabilità. Giocate in maniera radicale in un paese che invece si attarda troppo sulla presenza dello Stato in maniera continua e forte nella vita dei cittadini.
Mauro Grassi
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