Il caso TIM, Open Fiber, Cassa Depositi e Prestiti, Macquarie e KKR è complicatissimo. Ma il principale problema politico sottostante è semplice e non ha molto a che vedere con lo sviluppo di una efficiente rete di telecomunicazioni. Il problema è che TIM non può continuare a dar lavoro alle decine di migliaia di persone che oggi occupa. La maggioranza degli esperti stima che TIM abbia almeno ventimila dipendenti più di quelli che sarebbero necessari. Lo sviluppo di una rete in banda ultra larga è sicuramente considerato da tutti come un obiettivo molto importante, ma ho l’impressione che il governo voglia raggiungere questo secondo obiettivo solo in una maniera che “salvaguardi i livelli di occupazione“. Il governo sembra voler non intervenire nella fase attuale, ma c’è un forte rischio che l’eventuale acquisto di TIM da parte del fondo KKR non faccia altro che rimandare (di poco) lo scoppio del problema degli esuberi dalla società e possa creare altri problemi.
Negli ultimi due/tre decenni, il settore delle telecomunicazioni ha subito molte trasformazioni strutturali che hanno cambiato profondamente la maniera in cui opera e la sua redditività. La tecnologia si è sviluppata facendo nascere nuove forme di comunicazione a costo quasi nullo e facendo scendere i costi di quelle tradizionali. I regolatori, applicando regole decise a livello europeo, hanno incoraggiato la concorrenza, cosa che ha fatto scendere i prezzi e ridotto le quote di mercato degli ex-monopolisti. Le nuove società che sono entrate nel mercato sono molto più snelle ed efficienti degli operatori storici. Tutto questo è molto positivo per i consumatori (famiglie, imprese e settore pubblico), ma non per il personale delle società nate dai vecchi monopoli statali.
Il problema dell’eccesso di personale nelle società di telecomunicazioni storiche esiste anche in Francia, in Germania ed in altri paesi, ma nel caso italiano è più forte. A questo si aggiunge il fatto che TIM non è stata sempre gestita bene e ha fatto molte scelte strategiche poco felici. Molti investimenti passati e la fusione con l’Olivetti dei cosiddetti “capitani coraggiosi” hanno creato un grosso debito che limita la sua capacità di azione: 22 miliardi di euro al 30 giugno 2021. Per di più, le difficoltà di TIM sono aggravate dal fatto che nel nostro paese i prezzi sono scesi molto, a volte più che in altri paesi. Da anni i ricavi di TIM sono sempre più bassi rendendo più difficile la gestione dei debiti che la società si porta dietro da molto tempo.
Il prezzo che KKR potrebbe oggi pagare per acquistare TIM – circa 11 miliardi di euro – è leggermente inferiore alla cifra che lo stato italiano incassò nel 1997 quando questa fu privatizzata: una cifra equivalente a 11.8 miliardi di euro. Chi in questi più di venti anni ha comprato azioni Telecom/TIM e le ha poi rivendute ha quasi sempre perso molti soldi. Un’impresa in buona salute finanziaria e con un buon andamento dei ricavi potrebbe forse tollerare temporaneamente un eccesso di personale, ma questo non è certo il caso di TIM.
Sia ben chiaro: il governo deve aiutare le persone che potrebbero perdere il loro posto di lavoro in TIM. È necessario da un punto di vista sociale e si può comprendere che il governo voglia evitare che questo problema, esistente da anni e mai affrontato in misura adeguata, possa scoppiare in un momento già difficile per tante altre ragioni. Purtroppo il governo è limitato nella sua azione dal fatto che in Italia non abbiamo un’indennità di disoccupazione come quelle che esistono negli altri paesi industriali avanzati. Quello che è necessario è proteggere le persone, non i posti di lavoro esistenti. La ripresa della produttività in Italia richiede la creazione di nuovi posti di lavoro ad alto valore aggiunto e l’abbandono di altri a valore aggiunto più basso. Quello che è necessario è un aiuto pubblico a chi perde il lavoro e percorsi formativi verso altri lavori, non la difesa della situazione esistente.
L’assenza in Italia di una vera indennità di disoccupazione conduce a tante storture: chi perde il posto di lavoro in piccole imprese non ottiene quasi nulla, chi perde il posto di lavoro in imprese medie viene aiutato temporaneamente con un uso improprio della Cassa integrazione e chi lavora in imprese grandi viene aiutato da pasticci come quelli di Ilva e ITA (ex Alitalia).
La rete unica proposta negli ultimi anni da TIM era soprattutto una maniera di ridurre la concorrenza (specialmente quella esercitata da Open Fiber) nella speranza che questo potesse permettere un certo aumento dei prezzi e un aumento delle quote di mercato. Questo avrebbe migliorato le finanze di TIM e le avrebbe permesso di spalmare su tempi più lunghi l’inevitabile riduzione del suo personale. Di per se, una rete unica non conduce ad uno sviluppo più rapido della rete nazionale di telecomunicazioni. Questo dipende soprattutto dall’intervento pubblico per sviluppare la rete nelle zone dove il settore privato non ha una convenienza economica in tempi ragionevoli.
Ma una rete unica controllata da un operatore che gestisce i servizi è un anatema dal punto di vista delle scelte che sono state fatte nell’Unione europea e che sono incorporate nel suo quadro regolamentare per le telecomunicazioni. La Commissione europea, attraverso la commissaria Vestager, ha spesso ripetuto i principi fondamentali dell’approccio europeo senza prendere esplicitamente posizione su quanto si stava discutendo in Italia. Ufficialmente perché il nostro governo non aveva notificato nulla; più probabilmente per lasciare più margini di manovra al governo italiano nel pilotaggio di una qualche soluzione.
Recentemente però la Commissione ha dovuto prendere posizione su di un caso vicino (il passaggio della Cassa Depositi e Prestiti dal 50 al 60 per cento delle azioni di Open Fiber) e ha messo nero su bianco alcuni dettagli che indicano chiaramente che una rete unica “à la TIM” non è possibile. Questa tardiva presa di posizione della Commissione europea è forse all’origine di alcuni sviluppi recenti dall’abbandono della richiesta di TIM della maggioranza del capitale della società che avrebbe gestito la rete unica (abbandono poi smentito) all’arrivo del fondo di investimenti KKR.
È difficile vedere l’acquisto di TIM da parte di KKR come una soluzione soddisfacente dal punto di vista dell’interesse pubblico. E questo non perché si tratta di un fondo non europeo. Il modus operandi dei fondi come quello di cui si parla consiste nell’investire in imprese in difficoltà, risanarle parzialmente o integralmente (cosa che certo non permette di mantenere livelli di occupazione eccessivi) e poi rivenderle dopo qualche anno realizzando un guadagno che giustifichi l’intervento fatto. Molto spesso la rivendita dell’impresa avviene per rami aziendali se il fondo ritiene che la vendita dei singoli pezzi possa permettere di ricavare più che dalla vendita dell’impresa nella sua configurazione iniziale. Non posso fare a meno di aprire una parentesi per ricordare che le analisi disponibili mostrano che la maggior parte delle concentrazioni di imprese (mergers) si rivelano un fallimento e che queste spesso sono realizzate perché gli intermediari finanziari e i tanti consulenti guadagnano sia dalle concentrazioni che dal successivo smembramento delle aziende.
L’intervento di KKR rinvierebbe lo scoppio del problema dei livelli di occupazione in TIM al massimo di un paio di anni. Purtroppo, molti governi italiani (e forse anche quello attuale) hanno un orizzonte temporale talmente breve che il rinvio di un problema di un paio di anni è visto come una manna insperata.
Ma il problema dovrebbe comunque essere affrontato e il governo italiano deve chiedersi come. TIM è una società privata. Difendere i livelli di occupazione di TIM non può significare che fare arrivare in qualche modo più soldi a TIM riducendo il grado di concorrenza per permettere prezzi più alti e maggiori quote di mercato (come proposto da TIM), permettendo a TIM di attingere generosamente dai fondi del PNRR o in altre maniere simili. Queste sono vie non trasparenti per migliorare i margini di TIM in cambio di impegni, che non possono essere espliciti e quindi controllati, a mantenere i suoi livelli di occupazione. Per di più, se una parte dei maggiori fondi che arriverebbero a TIM grazie a questi interventi pubblici servirebbero probabilmente a mantenere i livelli di occupazione, un’altra parte, non trascurabile, andrebbe in dividendi agli azionisti, in bonus milionari ai suoi dirigenti e in guadagni di un fondo di investimento che fosse intervenuto. È questa la strada che il governo vuol seguire?
Se poi TIM fosse acquistata da KKR, questo fondo tra quattro o cinque anni vorrà rivenderla, forse in vari pezzi. Probabilmente vorrebbe scorporare la rete di TIM (cosa che è stata discussa per anni dalla stessa TIM) e venderla ad un lauto prezzo. A chi potrebbe mai venderla? Viste le dichiarazioni fatte finora da quasi tutti i nostri esponenti politici penso che il governo vorrebbe sempre avere un controllo pubblico della rete. È quindi probabile che un futuro governo voglia che ad acquistarla sia la Cassa Depositi e Prestiti. Ma a che prezzo KKR (o chiunque sarà il proprietario di TIM) potrebbe rivendere la rete? Il costo dell’acquisto futuro della rete sarebbe molto probabilmente ben più alto di quello che la Cassa dovrebbe sostenere oggi per prendere il controllo di TIM.
Un’operazione del genere non sarebbe certo facile. Ci sono molti ostacoli da superare dall’azionariato della Cassa Depositi e Prestiti in Open Fiber (società in concorrenza con TIM) alla compatibilità dell’operazione con gli scopi statutari della Cassa stessa.
Un intervento diretto dello stato avrebbe il vantaggio di essere più trasparente e di ridurre le perdite dovute a dividendi, bonus e guadagni dei fondi di investimento eventualmente intervenuti. Ma il problema dei livelli occupazionali di TIM rimarrebbe invariato e dovrebbe prima o poi essere risolto. Una soluzione dovrebbe essere trovata. Questa dovrebbe essere messa in opera sotto il controllo della Commissione europea per il carattere di aiuto di stato di ogni intervento di alleggerimento specifico del costo del personale. Ma la grossa differenza è che l’operazione avrebbe luogo sotto il controllo degli elettori ai quali si dovrebbero spiegare le ragioni di questo intervento dello stato.
In ogni caso, non posso che sottoscrivere l’appello lanciato il 30 novembre da Massimo Giannini sulla Stampa : quale è la posizione del governo su questo problema
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