Vi sono date scolpite in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Una di questa è il 19 luglio 1992, esattamente trent’anni fa.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica e Borsellino aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese, nella villetta di Villagrazia. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò la Agnese e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato come tanta gente andasse da lui a porgere le condoglianze per la morte di Giovanni Falcone, ucciso cinquantasette giorni prima, ricavandone tuttavia la sensazione che vedessero in lui la prossima vittima.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Lo sapevamo i giornalisti che frequentavano il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente. Il magistrato aveva fatto intendere di “aver compreso”. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina e solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo, si disse convinto che Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e le mafie hanno scelto una nuova strategia che ha permesso l’ascesa economica e territoriale. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria, quali la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti. La pandemia ha offerto ai capitali delle mafie ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi, imprese e semplici cittadini. Oggi un’altra sponda offerta alle organizzazioni mafiose è rappresentata dai bonus edilizi. Il clan camorristico dei Casalesi parrebbe essere stato il primo ad aver fiutato l’affare, avendo storicamente disponibilità di centinaia di ditte edilizie compiacenti o addirittura allo stesso riconducibili. Solamente l’istituto di Poste Italiane, una delle principali piattaforme per trasformare i crediti in soldi, avrebbe inconsapevolmente monetizzato per il clan diverse centinaia di milioni di euro. Le cifre precise sono in corso di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati della Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, infatti, il 21,4% delle 459 segnalazioni per operazioni sospette legate alla cessione crediti d’imposta nel 2021, ha connessioni a contesti “potenzialmente riconducibili alla criminalità organizzata”. Parliamo di una cifra che si attesta sui 5,6 miliardi di Euro.
L’omicidio di Paolo Borsellino, dopo trent’anni, resta senza colpevoli.
Si sono susseguiti in numero di processi di cui è difficile persino tenere il conto.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla. Fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano.
Ma non dobbiamo arrenderci.
La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere un impegno quotidiano nella scuola, nelle famiglie, nelle istituzioni. Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse.
Così è, e per questo ancora oggi Paolo Borsellino è vivo tra noi.
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