L’ elezioni finlandesi sono state l’ulteriore conferma. Il centrodestra è vincente in tutta Europa, anche in quei paesi che nel “trentennio glorioso”, gli anni dal 1940 al 1970, sono stati la culla della socialdemocrazia e gli inventori del Welfare State. Non è valsa nemmeno la presenza di una leader, giovane, preparata, dal forte impatto mediatico e che aveva affrontato con successo la pandemia e la crisi internazionale innescata dall’invasione dell’Ucraina. Il partito socialdemocratico di Sanna Marin, pur recuperando voti dagli alleati di governo, Partito di centro, Alleanza di sinistra e Verdi, è arrivato solo terzo con il 19,9 per cento e 43 seggi (il Parlamento finlandese ha 200 membri). Meglio di lui la Coalizione nazionale, 20,8 e 48 seggi, e il Partito dei Finlandesi, 20,1 e 46 seggi, due formazioni di centrodestra.
Ad incidere sul risultato, contrariamente a quanto si potrebbe pensare dall’esterno, non è stata la situazione internazionale e il timore dei problemi che una politica apertamente filoatlantica potrebbe creare con la Russia che, non va dimenticato, confina con la Finlandia per oltre 1000 km. I partiti che hanno vinto hanno, sul tema, la stessa identica posizione della Marin, sostegno all’Ucraina, aumento delle spese militari e ingresso nella NATO. No, la sconfitta socialdemocratica è stata causata da due questioni di politica interna, una riconfermata apertura sull’immigrazione e l’incremento del debito pubblico che negli ultimi anni ha raggiunto il 73% del PIL. Su questi temi la Marin non aveva proposto nessuna inversione di rotta. In particolare sull’economia il governo uscente proponeva di continuare ad investire nei servizi senza nessun taglio della spesa pubblica, taglio che invece era al centro delle politiche di coloro che poi hanno vinto le elezioni.
La stessa identica cosa era avvenuta l’anno scorso alla socialdemocratica svedese Magdalena Andersson. La leader danese invece, nello stesso lasso di tempo, aveva mantenuto la sua maggioranza di centrosinistra al costo però di brusche inversioni di rotta proprio sui temi economici e del welfare.
Cosa significa tutto questo? Che gli elettori europei non sono più sensibili alle politiche sociali e di welfare? Assolutamente no, significa solo che gli elettori, prima di molti dei loro politici e rappresentanti, hanno capito che non è più possibile finanziare i servizi solo attraverso il classico modello di Welfare State che poggia sulla fiscalità generale.
In una società moderna, e perciò stesso sempre più complessa, i bisogni e le sensibilità sociali sono in continuo e costante aumento, ed è giusto che sia così. Solo che se si vuole finanziare i bisogni vecchi e nuovi attraverso la fiscalità generale, che è il classico modello di welfare di stampo socialdemocratico, si deve adottare, come logica conseguenza, un livello di tassazione talmente alto che finisce per creare rigetto in una buona parte dell’opinione pubblica.
La ricetta dei conservatori punta a tagliare i servizi e a ridurre la spesa pubblica. Messaggio semplice che spesso riesce a fare breccia. Da qui il prevalere delle forze di centrodestra, anche perché sul versante del centrosinistra non si riesce ad opporre una ricetta diversa. Si difende l’welfare esistente in nome di principi come l’accoglienza, per quanto riguarda l’immigrazione, e la giustizia sociale, sul versante dell’economia. Ma il risultato è che si finisce per perdere le elezioni.
Eppure la ricetta diversa, per non buttare via il bambino con l’acqua sporca, esiste. Basterebbe avere il coraggio di metterla in pratica. È quella di passare dal Welfare State alla Welfare Society. Nel primo caso si distribuiscono le risorse che vengono dalla fiscalità generale, nel secondo si utilizzano anche risorse che vengono da soggetti, pubblici, privati o del privato sociale, che hanno a cuore il bene comune.
La differenza è sostanziale. Prima di tutto perché nella Welfare Society si utilizzano capitali privati per politiche di utilità sociale, e quindi si hanno a disposizione più risorse, e poi perché, ad esempio, cambia il ruolo dei soggetti del Terzo Settore che passano dall’essere un aiuto per le politiche sociali ad essere i protagonisti di queste politiche. Infatti mentre oggi questi Enti per esistere hanno bisogno di ricevere dall’Autorità pubblica una concessione, nella nuova accezione invece hanno bisogno solo di essere riconosciuti, cioè sono Enti che hanno una loro vita autonoma.
Per fare questo però bisogna applicare non solo a parole il principio della sussidiarietà orizzontale che è quel processo per il quale “lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base appunto del principio di sussidiarietà. La sussidiarietà orizzontale esprime il criterio di ripartizione delle competenze tra enti locali e soggetti privati, individuali e collettivi, operando come limite all’esercizio delle competenze locali da parte dei poteri pubblici: l’esercizio delle attività di interesse generale spetta ai privati o alle formazioni sociali e l’ente locale ha un ruolo sussidiario di coordinamento, controllo e promozione; solo qualora le funzioni assunte e gli obiettivi prefissati possano essere svolti in modo più efficiente ed efficace ha anche il potere di sostituzione (enciclopedia Treccani)”.
Dal basso verso l’alto quindi e non viceversa. E’ questo rovesciamento di ruoli che molti non digeriscono. In tanta parte della vecchia sinistra, che ha i piedi ben saldi nell’800, prevale la concezione che il potere politico debba guidare la società verso un modello predefinito di nuovo assetto sociale, giudicato a priori giusto. Per ottenere il risultato voluto si deve quindi prevedere e incasellare tutto.
Da noi questa visione “ideologica” è talmente forte che nel “trentennio glorioso” ha impedito il radicarsi della socialdemocrazia che pure aveva inventato ed applicato il Welfare State dimostrando tra l’altro che funzionava. L’accusa che si rivolgeva alle socialdemocrazie nordiche era che non ci si poneva l’obiettivo di quelle “riforme di struttura” che sole avrebbero potuto cambiare la società. Anzi, puntando su “case, scuole e ospedali” si finiva per stabilizzare un sistema che andava invece cambiato per adeguarlo al progetto ideologico di una società perfetta.
Da allora è cambiato il mondo, le vecchie ideologie sono formalmente morte ma hanno lasciato un sedimento culturale che fa sentire i suoi effetti.
In Europa le sinistre sono ancora ancorate alla difesa del Welfare State al quale vorrebbero attribuire il compito di rispondere a tutti i bisogni, vecchi e nuovi. Ed è proprio questa difesa, a prescindere, del Welfare State e dei costi connessi che porta quei partiti alla sconfitta.
Figuriamoci in Italia dove si è cercato di saltare a piè pari la fase socialdemocratica. Anche il tentativo di puntare tutto sui “diritti” è destinato al fallimento. Le società occidentali sono in tutto e per tutto delle “società aperte” dove le persone, o quanto meno la maggioranza delle persone, vuole certamente vedersi riconosciuti i propri diritti ma è pronta anche ad assumersi le proprie responsabilità per dare un contributo in positivo al bene comune.
Se a sinistra non si entra finalmente in questo ordine di idee la destra, anche quella più retriva, avrà davvero vita facile.
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