Temo che un saggista spregiudicato e interdisciplinare come Sergio Benvenuto (interdisciplinare come ogni saggista) non si farà molti amici con il suo pamphlet “Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi” (Castelvecchi, pp. 180, euro 17,50). Il fatto di essere, come apprendo dalla quarta di copertina, sia psicanalista sia filosofo e psicologo sociale, forse lo metterà in cattiva luce agli occhi di chi vuole la filosofia più pura che contaminata e tende a non dare molto peso alle riflessioni teorico-politiche di uno psicanalista.
Ma le competenze miste e l’uso di mescolare le diverse discipline, mettendo a confronto i loro metodi e punti di vista, ha in questo caso un vantaggio: vari luoghi comuni politici possono rivelarsi troppo rigidi o fallaci e comunque sottratti alla riflessione critica. Per esempio (e con questo siamo già nel cuore polemico del libro) si continua a partire dall’idea che tutti i problemi sociali e politici siano questione di economia, più precisamente di diseguaglianze economiche: “Per il liberismo quel che conta è il free market esaltato come modello per ogni assetto sociale. Per la sinistra marxista e post-marxista contano le classi sociali che sono soprattutto classi economiche: la storia è storia di lotte di classe. Per la sinistra di oggi l’incremento dell’uguaglianza economica sembra essere l’obiettivo principale, se non addirittura ultimo, della politica”.
Prima di mettere in discussione questo economicismo dominante nella cultura politica, Benvenuto avanza una obiezione di metodo: la filosofia politica deve contaminarsi con le ricerche empiriche e i dati che forniscono le diverse scienze sociali, storiche e psicologiche. Il grande vantaggio che ha avuto Marx è stato di essere sia un filosofo sia un economista e uno storico. Non c’è visione politica fondata senza analisi sociale empirica che consideri l’economia in un contesto etico e antropologico. Un grande sociologo come Weber si servì anche di storia delle religioni per capire i moventi dell’agire economico. La sfida della Guerra Fredda che paralizzò la politica mondiale per mezzo secolo contrapponendo Stati Uniti e Unione Sovietica non era spiegabile solo in termini di lotta di classe fra occidente capitalistico e oriente comunista. Lo scontro era fondato su rivalità di vario genere, tra cui l’antropologia politica e geopolitica, storicamente fondata, di due nazioni multietniche come Usa e Urss, con la loro pretesa “imperiale” di incarnare un modello sociale universale in cui tutti i popoli dovevano riconoscersi. Se si guarda a molti conflitti violentissimi e prolungati nella storia, risulta piuttosto chiaro che le ragioni di uno scontro così accanito erano culturali, religiose, etniche, storiche, identitarie, di puro prestigio e potere.
Tutto il libro di Benvenuto è soprattutto un tentativo documentato di scalzare il partito preso di chi spiega sia i problemi sociali sia i conflitti politici attuali in termini di diseguaglianza economica. La maggiore aspirazione di chi ha un reddito basso non è di accorciare la distanza fra redditi bassi e redditi alti riducendo la diseguaglianza economica: al primo posto c’è invece il semplice miglioramento quantitativo del proprio reddito in sé, anche se le disuguaglianze aumentano. Chi guadagna abbastanza e può permettersi qualche piccolo lusso diventa subito molto meno sensibile al fatto che qualcuno abbia redditi dieci o cento volte superiori. La cosa che economicamente non si tollera è molto di più la povertà che non la disuguaglianza. Non a caso il ceto medio, anche basso, si identifica più con il ceto alto o medio-alto che con gli indigenti, i “proletari”, i poveri, gli esclusi.
Interessanti perché insolite ma molto realistiche sono poi le considerazioni che Benvenuto dedica a coloro che “scelgono” la povertà, ne sentono un certo bisogno, benché non sempre facilmente decifrabile. Esistono individui che sono attratti dalla povertà o la accettano, piuttosto che “darsi da fare” in vista di mete sociali più normali o superiori: e questo per qualche ragione psicologica, morale, estetica. Sono degli stravaganti? George Orwell, che di povertà se ne intendeva, disse una volta che in fondo ognuno è un po’ lunatico. Ci sono gli snob che mirano in alto, alcuni invece che guardano in basso e anche se non sono propriamente né artisti né filosofi trovano che nella povertà ci sia qualcosa di poetico e di filosofico. In qualche caso, la necessità viene vissuta come una virtù. Si è stati respinti dalla società o si è scelto di restare ai margini? Proprio la psicanalisi, osserva Benvenuto, “ci insegna come sia ambigua, sfuggente, fluttuante, la linea tra scegliere e subire. La povertà è una forma di dissidenza”, è la protesta, la denuncia di chi non si rassegna a “giocare il gioco della società” con tutte le sue regole e i suoi doveri reali o inventati. Gli intellettuali, gli artisti e i filosofi sono rientrati a lungo in questo “tipo sociale”. Attualmente si cerca molto la sicurezza e il successo e non saprei dire se il dandy povero che rifiuta di essere produttivo e di lavorare secondo norma stia sparendo o invece si diffonda. Di giovani disoccupati, non occupati e renitenti in Italia e in occidente ce ne sono molti.
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