È forse la prima volta, negli ultimi trent’anni, che in campagna elettorale non si parla di “riforme”. È comprensibile che l’attenzione dell’opinione pubblica sia su inflazione e crisi energetica. Ma davvero non c’è più niente da cambiare, nell’ordinamento del Paese? E davvero non ci sono innovazioni giuridiche e istituzionali che forse potrebbero mitigare gli stessi aumenti dei prezzi?
Di riforme si parla solo in relazione agli impegni del Pnrr: qualcuno vorrebbe rinegoziarli, altri li dipingono come un moloch indiscutibile. Ma il tema delle riforme non coincide col Pnrr, né si esaurisce in esso. Se l’Italia oggi si trova in grave difficoltà economica non è solo per ragioni contingenti. È per ragioni di cui discutiamo da anni e che non hanno trovato, finora, nessuna soluzione. Gli aiuti dell’Europa, anziché spingerci a sciogliere quei nodi, ci hanno illuso che non ci fosse più bisogno di parlarne: che non servissero scelte di fondo, che interrogassero i valori di tutti e la coscienza di ciascuno.
Il tema centrale della discussione dovrebbe essere, oggi come in passato, la presenza eccessiva e disfunzionale dello Stato nell’economia. Ci sta bene oppure no? L’Italia è un paese che tassa troppo famiglie e imprese, sottraendo risorse preziose alle attività di consumo e investimento. È un paese che spende troppo, spiazzando le attività private e sbarrando l’accesso dei privati a interi settori. È un paese che regolamenta troppo, mettendo lacci e lacciuoli all’innovazione e generando inefficienze ed extracosti. Di conseguenza, la via d’uscita dalla crisi non può che passare da un percorso di riduzione del peso dello Stato.
I principali passi da compiere per muoversi in tale direzione sono illustrati nel “Manuale delle riforme per la XIX Legislatura” (PDF), con cui l’Istituto Bruno Leoni porta il proprio contributo al dibattito in corso. Il Manuale propone ipotesi di riforma in cinque grandi aree: fisco, spesa pubblica, politica energetica, welfare (lavoro, pensioni, scuola e sanità) e concorrenza. L’obiettivo è quello di disegnare un programma coerente di intervento per ampliare gli spazi di autonomia individuale e liberare le tante forze produttive ingabbiate da una presenza pubblica pervasiva e asfissiante. Prendere di petto l’interventismo italiano non significa solo mettere in atto alcune prescrizioni del Pnrr e, in generale, seguire le raccomandazioni che periodicamente arrivano dalla Commissione europea e che puntualmente sono disattese. Significa anche e soprattutto mettere in discussione alcune tendenze recenti che hanno segnato una crescita incontrollata non solo dell’intervento pubblico, ma anche della sua arbitrarietà: dall’ingresso dello stato nel capitale di imprese come Autostrade e Tim all’allargamento del golden power.
Il prossimo governo dovrà porsi la domanda su come mettere in moto la crescita italiana. La risposta non può essere cercata, di nuovo, nell’adozione di interventi magari di per sé utili, ma frammentari e incoerenti; tanto meno essa sta nella riproposizione stantia di forme di politica industriale che, oltre a non risolvere i problemi attuali, finirebbero per reintrodurne di vecchi. L’unico modo per uscire da una stagnazione pluridecennale è mettere mano ai fondamentali: liberare l’economia italiana.
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