Nella sua lunga vita, Luigi Sturzo è stato prima considerato un campione di antiliberalismo e antifascismo e poi, una volta tornato in Italia dopo il lungo esilio imposto da Mussolini, uno strenuo difensore di un liberalismo antistatalista. Lo stesso Sturzo, in un articolo del 1956, così si esprimeva in terza persona: “Si accusa don Sturzo che, dal ritorno in patria, con la sua critica non risparmia i socialisti, i partitini, anche la D.C., specie l’ala sinistra; mentre nel trentennio della sua attività politico-sociale in Italia (1895-1924), e nello stesso esilio, le sue critiche, oltre che a Giolitti nominatim, andavano alla classe politica di allora, la demo-liberale; andavano ai nazionalisti, ai fascisti, agli industriali, non sempre ai socialisti, mai ai sindacati dei lavoratori. Ci sono forse due Sturzo: uno ante e uno post? ovvero il secondo Sturzo rinnega il primo, il vecchio non riconosce il giovane?”[1].
Si tratta di un tema che continua ad interessare storici e pensatori politici.
Chi è dunque Luigi Sturzo? E ve ne sono davvero due?
Cercheremo una risposta, sia pure parziale e sommaria, tornando a fare una fugace visita ai due Sturzo: il primo, quello che tra il 1895 e il 1945 (cinquant’anni) opera all’interno del movimento cattolico, fonda e guida il Partito Popolare Italiano, pensa e scrive dai luoghi dell’esilio, e il secondo, quello che tra il 1946 e il 1959 scruta da osservatore partecipe le vicende della neonata repubblica italiana.
Il primo Sturzo (1895-1945): antiliberale e antifascista
Gli anni che corrono tra il 1895 e il 1945 sono segnati da avvenimenti epocali: l’ascesa e il declino dell’Italia liberale, la prima guerra mondiale, la difficile ricostruzione, il trionfo e la rovinosa caduta del regime fascista, la seconda guerra mondiale.
Luigi Sturzo nasce a Caltagirone, in provincia di Catania, il 26 novembre 1871. Trascorre gli anni dell’infanzia e della gioventù nei seminari di Acireale e Noto e nel 1894 viene ordinato sacerdote.
La Chiesa e la società italiana, in quel quarto di secolo, cambiano profondamente. Nel marzo del 1871, l’anno di nascita di Sturzo, la Chiesa proclama il cosiddetto non expedit ponendo ai cattolici un esplicito divieto di partecipare alla vita delle “illegittime” istituzioni dello stato italiano. Pochi mesi dopo, il 1° luglio, Roma viene proclamata capitale d’Italia. Nel giugno del 1874 si riunisce a Venezia il Primo Congresso Cattolico e l’anno dopo, il Secondo Congresso, riunitosi a Firenze, delibera l’istituzione di un’associazione permanente denominata Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia.
L’Opera promuove e coordina una miriade di iniziative sociali. Un’inchiesta del tempo censisce oltre 22 mila opere riconducibili alla Chiesa: scuole, ospedali, orfanatrofi, cooperative, società di mutuo soccorso. L’Opera anima anche un dibattito culturale sul ruolo dei cattolici nella società italiana. Emergono due alternative linee culturali. I “transigenti” vorrebbero una conciliazione tra Chiesa e Stato e tra cattolicesimo e liberalismo. Gli “intransigenti” si oppongono invece alla logica dei fatti compiuti e considerano il cattolicesimo una dottrina autosufficiente che non ha bisogno di ulteriori apporti; in particolare ritengono che la questione sociale possa essere risolta solo con la restaurazione di corporazioni miste composte da lavoratori e datori di lavoro.
Intorno al 1890 i cattolici sono ancora divisi tra transigenti e intransigenti. Nel 1891 Leone XIII promulga la prima enciclica sociale della Chiesa, la Rerum Novarum, che non avvalora né nostalgici ritorni ad un passato corporativo né avveniristiche aperture verso il moderno liberalismo. Apre invece la prospettiva di una riforma sociale del capitalismo fondata sulla collaborazione tra classi sociali organizzate in corporazioni miste o composte di soli operai.
Il XVII Congresso Cattolico, riunito a Roma nel settembre del 1900, approva un ordine del giorno, proposto da Giuseppe Toniolo, in cui si ribadisce che la formazione di rappresentanze di classe, miste o composte di soli lavoratori, è la via da seguire per risolvere la questione sociale. Sturzo decide di approfondire il tema e nel 1901 pubblica il saggio forse più importante di questa fase prepolitica: L’organizzazione di classe e le unioni professionali.
Lo schema è quello della Rerum Novarum, ripreso e approfondito da Toniolo. Anche per Sturzo, all’origine della questione sociale c’è la pervasiva influenza di un liberalismo individualista che, disconoscendo il ruolo delle classi sociali e delle comunità intermedie, ha scristianizzato (dice proprio così) e disgregato la società. Il socialismo è un falso rimedio perché, contrapponendo le classi sociali, mira in realtà all’affermazione, alla dittatura, di una sola classe: il proletariato. Il vero rimedio è la giusta collaborazione tra libere e riconosciute unioni professionali. Sturzo osserva come le comunità intermedie, nonostante i provvedimenti repressivi o restrittivi delle autorità politiche, siano rinate o sopravvissute spontaneamente. La famiglia è la prima comunità naturale, sorta per soddisfare vitali bisogni affettivi ed educativi. La classe è l’unione di coloro che svolgono la stessa professione riconoscendo la centralità del lavoro nella vita dell’uomo. Il comune è un’altra comunità naturale che coordina le attività di individui, famiglie e classi presenti sul territorio. Lo stato è semplicemente l’unione dei comuni. Scrive il prete calatino: “Il liberalismo ha ridotto l’operaio solo di fronte al capitalista, di fronte ai compagni, di fronte allo stato; così lo ha disarmato dell’unica forza propria legale-economico-politica. Esso è solo nella spietata concorrenza della mano d’opera, solo nei contratti di lavoro e nei regolamenti di fabbrica, solo nella disoccupazione e nell’emigrazione, solo nella sopraffazione legale-sociale, per cui, pur esercitando il diritto del voto, non ha rappresentanza giuridico-morale d’interessi”[2]. E ancora: “la famiglia, la classe, il comune, lo stato nel progressivo sviluppo della società sono organismi naturali, con funzioni proprie e specifiche, con diritti propri inviolabili, per il conseguimento del fine della natura: la conservazione e il miglioramento morale e materiale dell’individuo e della specie” (Ivi, p. 147).
Nonostante i tentativi di conciliazione, i contrasti all’interno dell’Opera dei Congressi non si placano e nel luglio del 1904 Pio X, succeduto a Leone XIII, scioglie la gloriosa associazione.
Nel successivo quindicennio non cessa però l’azione politica, sociale e sindacale dei cattolici italiani. Toniolo resta la figura centrale di riferimento ma cresce la statura di Sturzo, soprattutto dopo il lungimirante discorso pronunciato a Caltagirone nel 1905 sul ruolo politico dei cattolici.
Il suffragio universale maschile introdotto nel 1912, il Patto Gentiloni siglato l’anno successivo tra liberali e cattolici e le impellenti necessità di concorrere alla ricostruzione del Paese dopo la catastrofe della prima guerra mondiale fanno da prologo alla nascita del Partito Popolare Italiano.
Sturzo fonda a Roma il 18 gennaio 1919 il primo partito di cattolici italiani lanciando un Appello “a tutti gli uomini liberi e forti” sulla base di un programma articolato in 12 punti. Il partito ottiene un insperato successo alla prima competizione elettorale e partecipa a storici gabinetti.
Nell’Appello e nelle relazioni tenute ai congressi che si svolgono tra il 1919 e il 1924, Sturzo chiarisce natura e finalità del nuovo partito. Si tratta, innanzitutto, non di un “partito cattolico” ma aconfessionale, popolare e di ispirazione cristiana. Il cattolicesimo è infatti una religione universale, che unisce, mentre un partito è una forza politica che inevitabilmente divide. Tuttavia la religione non è, come erroneamente ritiene il liberalismo, un fatto privato ma uno spirito che vivifica anche la sfera pubblica. Scrive: “È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione”. E ancora: “Sarebbe illogico dedurre da ciò che noi cadiamo nell’errore del liberalismo, che reputa la religione un semplice affare di coscienza, e cerca quindi nello stato laico un principio etico informatore della morale pubblica; anzi è questo che noi combattiamo, quando cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva”[3].
Il nuovo partito è, inoltre, secondo Sturzo, l’unica forza politica italiana autenticamente riformista[4]. La scena, dopo la guerra, è dominata dall’ingombrante presenza di un vecchio stato liberale in avanzata decomposizione. I segni dell’inevitabile declino sono: accentramento amministrativo, elefantiasi burocratica, atomismo gestionale e cioè incapacità di riconoscere e valorizzare la ricchezza delle comunità intermedie che abitano la società. A fronte di uno stato vecchio, stanno due giovani forze rivoluzionarie: il socialismo, che vuole abbattere la formale democrazia liberale per instaurare una reale dittatura economica e politica del proletariato, e il fascismo, che disconoscendo l’autorità delle deboli istituzioni liberali, vuole costruire uno stato forte in grado di assicurare ordine e sicurezza. L’unica forza riformista è quella popolare che, riconoscendo la legittimità delle istituzioni esistenti e rinunciando ad ogni velleità rivoluzionaria, mira ad attuare una profonda riforma dello stato italiano. In un discorso pronunciato a Firenze il 18 gennaio 1922, in occasione del terzo anniversario della fondazione del partito, Sturzo esclama: “la riforma organica dello stato, la delenda Carthago del partito popolare italiano”[5].
Nella breve esperienza del popolarismo si chiariscono i caratteri e i contenuti della “riforma organica dello stato” proposta da Sturzo.
Innanzitutto, il prete calatino respinge ogni contrapposizione tra stato e società. Lo stato, dice in benevola polemica con V.E. Orlando, è semplicemente l’organizzazione politica della società. E la società è una comunità di comunità: famiglie, classi, comuni (nonché province e regioni). La “riforma organica” mira a costruire uno “stato autenticamente popolare” che riconosca e tuteli le comunità intermedie in cui si svolge la vita degli uomini. In concreto, il PPI propone, tra gli altri, una serie di provvedimenti legislativi per introdurre l’azionariato operaio, il decentramento amministrativo e un Senato elettivo e rappresentativo dei “corpi della nazione”. Proposte che saranno respinte dagli alleati di governo (da Giolitti a Mussolini) e che non incontreranno neppure il favore della minoranza socialista.
Il 25 ottobre 1924 Sturzo lascia l’Italia per un lungo esilio. Negli anni trascorsi prevalentemente a Londra e New York pubblica una serie di saggi e libri, inclusi alcuni scritti sul corporativismo in cui chiarisce la sostanziale differenza tra la tradizione cattolica e quella fascista e aggiorna l’analisi sulla crisi e la riforma del capitalismo. La crisi ha ancora origine nell’individualismo liberale. La riforma è sempre in una ricomposizione organica della società. Quello che è nuovo, e in parte sorprendente, è la giustificazione di un intervento regolativo (corporativo) dello stato nell’economia.
In breve, il primo Sturzo, quello che opera tra il 1895 e il 1945, è un riformista popolare che propugna una “riforma organica dello stato” per superare la questione sociale aperta dal liberalismo individualistico e irrisolvibile con la duplice e contrapposta rivoluzione socialista e fascista.
Il secondo Sturzo (1946-1959): un cattolico-liberale antistatalista
Il 6 settembre 1946 Sturzo torna in Italia, pochi mesi dopo il referendum istituzionale e la proclamazione della Repubblica, ma dopo ventidue anni di esilio.
Gli anni che vanno dal 1946 al 1959 sono quelli della ricostruzione e di uno sviluppo economico che diventerà “miracoloso”. Anni di grandi scelte politiche, come l’approvazione della carta costituzionale, l’adesione alle nuove istituzioni della comunità internazionale ed europea e, sul piano interno, la decisione di non dismettere l’IRI e di potenziare l’industria di stato.
Dopo la breve ma intensa esperienza dei governi di unità nazionale, i governi che si susseguono in questo periodo sono sorretti da maggioranze centriste guidate a lungo da Alcide De Gasperi, già presidente del PPI e ora leader della Democrazia cristiana.
Il primo settennato repubblicano (1946-52) è dominato dalla disputa tra degasperiani e dossettiani (La Pira, Fanfani e lo stesso Dossetti) intorno alla politica economica della ricostruzione. I dossettiani respingono la logica dei due tempi – prima il risanamento, poi lo sviluppo – e reclamano un’azione pubblica volta a ridurre, già durante la ricostruzione, la disoccupazione e gli squilibri territoriali. Divisi sull’azione di governo, le due correnti sono unite in Assemblea Costituente. In particolare, i dossettiani concorrono in modo decisivo alla stesura di quegli articoli della Carta in cui sono riconosciuti e tutelati fondamentali diritti della persona e delle formazioni sociali (le comunità intermedie) in cui si svolge la personalità umana. I democristiani si battono anche per l’approvazione di un articolo che preveda l’elezione di un Senato di Regioni rappresentative dei corpi della nazione, ma sono sconfitti.
Sturzo è un osservatore partecipe di quegli avvenimenti, come prolifico giornalista e, a partire dal 1952, anche come Senatore a vita. Addita il pericolo di una deriva statalista e cioè di una smisurata fiducia nella capacità del governo di guidare l’economia e la società, frutto probabilmente di una perdurante, negativa, influenza del fascismo. Coglie quel pericolo nella pervicace decisione di non dismettere gli inutili e costosi enti pubblici ereditati dal regime, a partire dall’IRI, ed anche nel dibattito costituente dove incombe lo spettro di uno stato onnipotente che, salvo poche eccezioni, limita fortemente le libertà individuali. Scrive Sturzo: “Dopo ventidue anni di assenza, nel mio laborioso adattamento mentale alle condizioni presenti della nostra Italia, non posso sopportare l’aria greve e soffocante dello statalismo. Una triste eredità che ci viene, è vero, dal periodo dell’unificazione, ma che è stata intensificata nel periodo fascista e che ora incombe su tutti noi come una necessità fatale”[6].
Il giudizio sulla Costituzione si attenua una volta che la Carta è approvata. Sturzo invita a rispettarla e apprezza alcune positive acquisizioni come il riconoscimento dell’ente Regione, a lui e ai popolari tanto caro.
Il successivo settennio repubblicano (1953-59), l’ultimo per Sturzo, è segnato dalla fine del centrismo degasperiano e dall’aspra ma illuminante polemica tra La Pira e Sturzo sullo statalismo. Il 7 giugno 1953 si svolgono le elezioni politiche generali. La coalizione centrista non raggiunge, per pochi voti, il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza e la sconfitta elettorale della Dc segna il tramonto politico di De Gasperi. Il 25 giugno si riunisce il parlamento. Inizia la seconda legislatura repubblicana. Comincia la stagione del centrismo post-degasperiano. Nell’inverno del ’53 il Sindaco di Firenze La Pira opera, con il determinante aiuto del Presidente dell’Eni Mattei e del Ministro dell’Interno Fanfani, il salvataggio della Pignone. Un intervento ad hoc, microeconomico, che, oltre a salvare centinaia di posti di lavoro, preserva per l’intero Paese un apparato industriale di eccellenza. Nella primavera del ’54 a Firenze si respira ancora aria di crisi. Una importante fabbrica cittadina, la Manetti & Roberts, annuncia circa settanta licenziamenti. Il Sindaco interviene nuovamente accusando i vertici confindustriali di aver sollecitato i licenziamenti. La polemica con Sturzo nasce intorno a questo episodio, ma subito si allarga e investe i principi ispiratori che dovrebbero disciplinare il ruolo economico dello stato.
Al fondo della polemica, come ho cercato di mostrare altrove[7], non c’è un dissidio sui principi. I due illustri siciliani fanno infatti riferimento agli stessi principi della dottrina sociale cattolica. Il dissidio riguarda una diversa valutazione della situazione economica italiana: La Pira ritiene che, siccome non è possibile dismettere (privatizzare) l’enorme apparato di imprese pubbliche, sarebbe auspicabile utilizzarlo meglio come strumento di politica economica per ridurre disoccupazione e disuguaglianze, mentre Sturzo vorrebbe che si iniziasse a pensare ad una graduale dismissione proprio per non cadere definitivamente nella trappola dello statalismo.
L’ultima lettera di La Pira a Sturzo è del 5 marzo 1959. Sturzo muore a Roma l’8 agosto 1959.
In breve, il secondo Sturzo appare ancora un riformista che, tornato in patria dopo una lunga e forzata assenza, vede e denuncia il pericolo di una deriva statalista.
Conclusioni
Chi è dunque Sturzo? E ve ne sono davvero due?
Sturzo è sempre un riformista popolare che concepisce il compimento della persona umana nella relazione coi propri simili, nella partecipazione alla vita di una serie di comunità a raggio crescente: famiglia, impresa, comune, stato, comunità internazionale di stati.
Sturzo ritiene che la responsabilità della questione sociale sia del liberalismo che ha teorizzato e praticato un’idea individualistica e assolutistica della libertà, finendo per contrapporre lavoro e capitale, e rifiutando il ruolo istituzionale delle comunità intermedie, dall’impresa “partecipata” al Senato “corporativo” delle regioni.
La soluzione non è la rivoluzione: né quella socialista che, attraverso la lotta di classe, mira al dominio di una classe sulle altre, né quella fascista che si illude di poter risolvere il conflitto sociale per via autoritaria.
La soluzione è il riformismo, un riformismo popolare che si batte per la collaborazione tra capitale e lavoro all’interno dell’impresa con la formazione di unioni professionali (sindacati) che promuovono l’azionariato operaio, un ampio decentramento amministrativo che valorizzi il ruolo dei comuni, un Senato rappresentativo delle forze locali e sociali della nazione.
Nel cinquantennio che va dal 1895 al 1945 Sturzo si scaglia prima contro il dominante liberalismo poi contro l’imperante fascismo, mentre nel primo quindicennio dell’Italia repubblicana vede il pericolo di un debordante interventismo. Ma è sempre la critica di un riformista.
Occorre sempre diffidare delle autorappresentazioni dei protagonisti, si tratti di economisti o di politici. Ma è corretto anche darne conto. Nel 1956 il fondatore del PPI così risponde al quesito, da lui stesso posto, circa l’esistenza di due Sturzo, il vecchio che non riconosce più il giovane: “Quelli che parlano così, non conoscono l’uomo. A parte la senilità, che se gli articoli non dimostrano, è un fatto innegabile, 85 anni a novembre, don Sturzo è stato sempre uguale a se stesso, costantemente un critico di coloro che detengono il potere. Nel primo trentennio erano al potere i democratici-liberali o liberali-democratici (come amavano chiamarsi), poi vennero i nazional-fascisti; nel presente decennio sono i democristiani col contorno dei partitini (sia contemporaneamente, sia parzialmente, sia a turno, salvo i cinque mesi del governo Pella). La critica si dirige a chi fa e a chi parla; i governi del dopo guerra han parlato molto, han legislato moltissimo (troppo, dico io); hanno fatto e sbagliato parecchio; nessuno di loro pensa divenire un Mussolini che «ha sempre ragione». Dall’altro lato, la critica di don Sturzo ai nenniani e ai sinistroidi della coalizione governativa (ogni partito ha la sua freccia al fianco sinistro) è per quello che essi dicono e, quando hanno un briciolo di potere, anche municipale, per quello che fanno. È chiara la mia posizione? Spero di sì”[8].
La lettura proposta in queste pagine tende ad offrire una rappresentazione unitaria della vicenda umana e politica di Sturzo che, a parere di chi scrive, è stato essenzialmente un “riformista popolare”.
[1] L. Sturzo, “La critica di Sturzo e i filo-socialisti” (1956), in Id., Politica di questi anni. Consensi e critiche (1954-56), Bologna, Zanichelli, pp. 300-301.
[2] L. Sturzo, “L’organizzazione di classe e le unioni professionali” (1901), in Id., Sintesi sociali, Bologna, Zanichelli, 1961, p. 139.
[3] L. Sturzo, “La costituzione, la finalità e il funzionamento del Partito Popolare Italiano” (1919), in Id., I discorsi politici, Roma, Istituto Luigi Sturzo, 1951, p. 13.
[4] Il riformismo, come noto, è associato alla disputa, interna al movimento operaio, tra socialisti-riformisti e comunisti-rivoluzionari, ma esistono anche altre tradizioni di pensiero, laiche e cattoliche. Sul significato e la storia del riformismo, cfr. D. Settembrini, “Riformismo”, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 1990, pp. 973-977.
[5] L. Sturzo, “Crisi e rinnovamento dello stato” (1922), in Id., I discorsi politici, cit., p. 210.
[6] L. Sturzo, “Statalismo” (1947), in Id., Le profezie dimenticate, Roma, Atlantide editoriale, 1996, p. 85.
[7] A. Magliulo, “Statalismo ed economia di mercato. La polemica tra La Pira e Sturzo”, in Rivista di studi politici, 2008, n. 3, pp. 153-182.
[8] L. Sturzo, “La critica di Sturzo e i filo-socialisti” (1956), cit., p. 301.
Marco Vedovato
Interessante analisi, una piu approfondita conoscenza della storia, dell’economia, della scienza politica, servirebbe oggi, per risalire la china di una situazione economica e sociale italiana, degradata e in costante declino.
Nell’analisi sul giudizio sul pensiero di Sturzo, aggiungerei che si deve tener conto delle mutate condizioni di politica internazionale, durante il periodo dell’opera di Don Sturzo, che ne hanno influenzato il pensiero. Mutare o correggere opinione, è sintomo di fertilità intellettuale. Ritengo che sia stata una normale crescita del pensiero, dettata dallo studio e dall’esperienza.
Ancora un grazie al prof. Magliulo.