Il rilancio degli investimenti fissi lordi della pubblica amministrazione, e in particolare di quelli in infrastrutture (mediamente poco più della metà), è continuamente evocato – con consenso pressoché unanime di governi e opposizioni, istituzioni e accademici, analisti e commentatori – come strumento capace di sostenere crescita e produttività, oltre che di colmare divari di dotazione e, più recentemente, di manutenzione, sicurezza e adeguamento funzionale e tecnologico.
Dopo la crisi, gli investimenti hanno mostrato una dinamica negativa nella media dei paesi dell’Unione europea, ma molto di più in Italia. Il divario si è acuito negli ultimi anni: tra il 2010 e il 2018 gli investimenti pubblici in Italia sono cresciuti di 33 punti percentuali in meno rispetto all’UE (netto Italia) e ulteriori 7 punti rispetto agli USA [Rapporto Centro Studi Confindustria 2018].
Il governo in carica, fin dal suo insediamento, ha fissato l’obiettivo di aumentare gli investimenti pubblici almeno al 3 per cento del PIL (l’ultima volta è stato nel 2009), con uno shock di 50 miliardi di euro di spesa. Lo scenario programmatico della Nadef del settembre 2018 prevedeva però più prudentemente un aumento degli investimenti fissi lordi della PA rispetto a quello tendenziale, con risorse aggiuntive, pari a 0,2 punti di PIL nel 2019 fino ad arrivare a 0,3 punti di PIL nel 2021. La Legge di bilancio 2019-2021 fissava il profilo degli investimenti della PA. in 36,7 mld nel 2019, 39,5 nel 2020 e 44,5 nel 2021. Il recente Def 2019 conferma questo andamento programmatico, dato che gli investimenti pubblici dovrebbero aumentare in rapporto al PIL dall’1,9 per cento nel 2018 al 2,3 per cento nel 2021 e 2,5 per cento nel 2022. Il 3 per cento del PIL rimane un obiettivo tendenziale, ma improponibile almeno nei prossimi anni, stante i vincoli di finanza pubblica.
Al di là dei vincoli sulle risorse in Italia esiste, però, un problema legato ai meccanismi con cui un investimento pubblico da programmato diviene realizzato, su cui occorre riflettere, nel momento in cui si vuole affidare un ruolo così rilevante per la crescita del paese a questo strumento, anche in relazione alle aperture che le nuove regole europee di governancesi preparano a concedere. Negli ultimi tre anni la spesa effettiva per investimenti pubblici è stata sempre inferiore a quanto programmato dai governi. In media gli investimenti pubblici hanno visto a consuntivo una contrazione, con quanto messo in bilancio due anni prima, dell’ordine del 15-20%. Inoltre, il trend della spesa effettuata è inesorabilmente decrescente dal 2014 (da 36,5 mld a 33,1 mld).
Tutto lascia intendere che, anche nel triennio 2019-2021, si confermerà questo scarto tra programmazione e realizzazione. Ciò evidenzia difficoltà nell’erogazione della spesa, le cui cause devono essere attentamente indagate. Certamente alcuni investimenti sono stati rimandati per contenere la spesa pubblica e quindi il deficit; gran parte degli avanzi primari registrati negli ultimi anni è infatti dovuta al forte calo degli investimenti pubblici. Ma anche la funzionalità della macchina pubblica che attua tutte le fasi di spesa in conto capitale sembra in qualche modo carente.
Un investimento pubblico si realizza in un mercato dove la domanda proviene dalle amministrazioni pubbliche grazie ai progetti disponibili in portafoglio e l’offerta viene dal mondo delle imprese fornitrici di macchinari per l’attività amministrativa, mezzi per la realizzazione di opere pubbliche e servizi. In Italia, specie nelle regioni dove il sistema di imprese è attivo e efficiente, la carenza di investimenti è originata da una carenza di domanda pubblica. La causa è quasi sempre connessa alla scarsità di risorse dovuta ai vincoli di finanza pubblica, ma non è una spiegazione sufficiente, anche perché non è irrilevante il fenomeno dell’overshootingdegli enti locali, ovvero un eccesso di risparmio sull’investimento che si traduce in avanzi di amministrazione (secondo stime attendibili si tratterebbe di circa 4,7 mld di Euro nel 2017).
Le non molte ricerche empiriche usano come proxy della dinamica della domanda pubblica l’evoluzione del numero e dell’importo delle procedure avviate (ovvero quelle per cui è stato richiesto un codice identificativo gara, CIG). Il CIG deve essere infatti obbligatoriamente richiesto per ciascun affidamento con o senza gara (e nel caso della gara per ciascun lotto nel quale sia eventualmente articolata), indipendentemente dal tipo di contratto (appalto o concessione) e dalla procedura di selezione del contraente. In questo senso, il CIG è di fatto un elemento sostanziale della procedura, e si può ritenere in grado di fornire un censimento pressoché completo dell’universo di interesse. Le procedure avviate non coincidono con il volume degli investimenti pubblici (generalmente questi sono il 35-40% del valore delle aggiudicazioni), in quanto deve essere completata la definitiva realizzazione delle opere, ma è generalmente riconosciuto che, almeno per le infrastrutture, gli effetti moltiplicativi comincino a formarsi già dalla fase di aggiudicazione, in quanto le imprese edili si apprestano ad aprire i cantieri.
Il Rapporto sul mercato del procurement, IRPET 2018 fornisce alcune evidenze, in tema di procedure avviate per il periodo 2012-2017, ovvero il periodo relativo alla seconda fase della Grande recessione 2008-2014 e alla parziale ripresa. I dati si concentrano sulla Toscana con riferimento ai dati nazionali, ma data l’emblematica caratteristica media della regione può fornire un quadro estendibile al paese. Per di più altre analisi indicano come l’efficienza delle amministrazioni pubbliche della Toscana siano mediamente superiori.
Consideriamo il mercato dei lavori pubblici, che più delle altre forme di procurement(servizi e forniture) ha risentito della Grande recessione e della conseguente riduzione delle risorse in conto capitale a disposizione delle stazioni appaltanti. La riforma del Codice degli appalti, introdotta nel 2016, si è infatti inserita in una congiuntura caratterizzata da una forte aspettativa di ripresa della domanda di lavori pubblici, incidendo sui processi e sulle pratiche delle amministrazioni in modo molto rilevante e rappresentando, di fatto, un fattore di freno.
Nell’ultimo biennio, il valore delle procedure di lavori avviate a livello nazionale si è infatti ridotto considerevolmente. In particolare, nel 2016, anno dell’introduzione del nuovo Codice, si è registrata una flessione di 6 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, mentre il 2017 ha visto una lieve ma non ancora sufficiente ripresa degli importi banditi. In Toscana, nel 2016, il valore dei CIG si è ridotto di circa 300 milioni di euro rispetto al 2015 passando da 1.367 a 1.053 milioni (-23%), mentre nel 2017 si assiste a una ripresa (1.578 Milioni, ovvero un incremento annuo di circa il 50%). In ogni caso, la dinamica registrata nel mercato toscano può dirsi sostanzialmente stabile, al contrario di quella nazionale che ha visto ridursi – nel biennio 2016-2017 – la media del valore delle procedure di circa 6,5 miliardi di euro (il 30%) rispetto al quadriennio precedente. La dinamica dell’importo totale è, almeno nel caso della Toscana, interamente determinata dalle “grandi opere” mentre il calo del numero delle procedure registrato nel 2016 è da ricondursi alle procedure di importo inferiore al milione di euro e, in particolare, da quelle di importo inferiore ai 150.000 euro. Nel contesto nazionale si evidenzia invece una dinamica del numero più accentuata nelle classi di importo inferiori e una dinamica nettamente decrescente degli importi per tutte le classi.
Il numero e il valore delle procedure avviate in Italia nel 2017, anno peraltro di ripresa, indicano come sia lontano l’obbiettivo dei 50 miliardi di investimenti pubblici pari a circa il 3% del PIL. Il numero di aggiudicazioni dovrebbe salire considerevolmente e il valore complessivo dovrebbe crescere di almeno il 35-40%, un balzo che non sembra raggiungibile dal mercato dei lavori pubblici nel nostro paese, inceppato dal lato della domanda pubblica. Gli elementi che limitano la domanda di procurementdelle amministrazioni pubbliche nel nostro paese, e a cascata la realizzazione degli investimenti pubblici, sono sinteticamente ascrivibili a
- Vincoli di bilancio e di indebitamento degli enti decentrati
- Limiti decisionali della politica, unita alla complessità delle procedure, solo in parte dovute al nuovo Codice dei Contratti
- Scarsità di progetti e avversione al rischio dell’amministrazione, generalmente priva delle competenze necessarie per operare in un mercato così sofisticato e tecnico.
Per attivare un volume di investimenti pubblici in grado di incrementare il PIL potenziale occorre intervenire su tutti e tre gli elementi. In merito al primo punto, dal 2016 c’è stata una progressiva riduzione dei vincoli con il passaggio dal Patto di stabilità interno ai vincoli sui saldi di competenza potenziata e all’utilizzo degli avanzi di amministrazione [Ufficio Parlamentare del Bilancio, 2019]: le risorse non dovrebbero più costituire un vincolo stringente. In merito al secondo, innanzi tutto sembra che i politici, dopo aver sbandierato la programmazione degli investimenti ed averne conseguito il consenso, vedano ridursi lo specifico interesse alla sua realizzazione, quando questa può generare “grane” (e la Magistratura ci mette del suo). Inoltre, è in corso una rivisitazione del Codice dei Contratti che dovrebbe migliorare le procedure, ma con il rischio di aprire qualche breccia per l’altro grave problema della corruzione. Questo rischio si verifica già con il c.d Decreto “sblocca cantieri”, che innalza il valore dei progetti per i quali l’aggiudicazione avviene per gara.
Ma il vero problema è il terzo, che attiene all’ancora insufficiente introduzione di personale aperto all’innovazione e con competenze tecnico ingegneristiche nella PA. C’è un problema demografico all’interno delle PA, la cui rilevanza non è stata percepita e le cui conseguenze ricadono indirettamente sul fenomeno dello stallo degli investimenti pubblici nel nostro paese.
Paolo Lupino
E’ la prima volta che leggo un’analisi così lucida delle cause dei ritardi e delle inefficienze nel processo di ripresa degli investimenti pubblici.
In particolare ho il piacere (sic!) di condividere l’allarme del Prof. Petretto sull’assoluta scarsa consapevolezza dell’attuale inadeguatezza delle competenze tecnico-ingegneristiche della Pubblica Amministrazione, fattore che più degli altri impedisce ed impedirà qualsiasi proposito di ripresa degli investimenti nel settore dei lavori pubblici.
La mancanza pluriennale di un adeguato turn-over (blocco delle assunzioni) ha progressivamente indebolito la P.A. che non viene ancora considerata dalla Politica (e dall’opinione pubblica) come il vero fulcro degli investimenti pubblici, lasciando che la stessa divenisse preda di una percezione collettiva superficiale che la vede solo come fonte di spreco e di fatto inutile.