Interessante l’editoriale di Angelo Vaccariello su Il Riformista del 9 ottobre. Il sottotitolo dell’articolo non lascia spazio alle interpretazioni: “Tanti fondi, pochi risultati: la solita Italia fallisce la prova del PNRR”.
Questo tema si può affrontare da diversi punti di vista. Il primo, e direi più interessante, fa riferimento alla qualità degli interventi. Si tratta di un Fondo per il rilancio di medio-lungo periodo che, giustamente ed efficacemente, si sarebbe dovuto affiancare a riforme di sistema legate a norme e funzionamenti della PA. Insomma, non era tanto importante l’effetto di impatto della spesa sulle dinamiche di breve periodo quanto l’innovazione e l’efficienza strutturale che avrebbe generato in seguito agli Investimenti e alle Riforme.
Per questo motivo mi sarei aspettato una grande attenzione da parte della politica e degli esperti dei diversi settori sulle tipologie e la taglia degli investimenti. E sulla radicalità e innovazione in tema di riforme. Ed invece questi temi se ne sono scivolati via nella discussione fra piccoli gruppi di “Gestori del PNRR” più appassionati a definire indicatori di risultato con linguaggio “anglofone”, che sicuramente fa effetto fra gli addetti ai lavori, in un “bailame” indistricabile di milestones, di target e di performance che ha fatto perdere di vista gli obiettivi strategici del Piano. I quali obiettivi sono riconducibili a poche “criticità” del sistema Italia che avrebbero richiesto pochi e qualificati interventi, strettamente connessi a generare cambiamenti forti e visibili, e che avrebbero dovuto trovare sostegno in vere riforme di sistema e di settore.
Senza parlare poi degli interventi delegati al sistema delle Regioni e dei Comuni che il più delle volte si sono indirizzati ovunque, in una diffusione a pioggia, senza tener conto della strategicità richiesta. E che hanno rispettato più la logica dell’accontentare un po’ tutti piuttosto che dell’intervento indirizzato laddove andava superata una criticità strutturale.
E quindi si può dire, pur con alcune lodevoli eccezioni, che il PNRR, al di là dei tempi e dei modi della spesa pur critici, non ci lascerà un paese molto diverso, nei suoi problemi di fondo, da quello che era prima del Piano. In tal senso concordo con quanti parlano, ad oggi, di una occasione persa.
Ma veniamo al tema dell’impatto di breve periodo, che, se pur meno importante, riveste indubbiamente un qualche interesse di natura economica. E cerchiamo di affrontarlo partendo non tanto dai dati del PNRR, e cioè le spese, i ritardi, i settori etc. Dati che sono spesso poco chiari e centellinati all’opinione pubblica con una riservatezza incomprensibile. Ma partiamo dal sistema macroeconomico sul quale il Piano è impattato. E sugli effetti, visibili e certificabili, che sono emersi in questi anni.
In particolare, facciamo riferimento alla contabilità nazionale e in particolare alle voci, che hanno un qualche interesse per il tipo di Piano considerato, degli Investimenti Pubblici e delle altre spese in Conto Capitale.
La realizzazione del PNRR avrebbe dovuto impattare sulla componente degli investimenti pubblici e avrebbe dovuto mettere in evidenza un grado di “aggiuntività” rispetto alla situazione normale, senza Piano. E’ difficile dire se questi interventi sono stati davvero aggiuntivi o hanno coperto spese che l’Italia avrebbe fatto normalmente anche senza PNRR. Ma proviamo a misurare questa aggiuntività ipotizzando per il 2022, 2023 e 2024 un livello normale di investimenti pari al 2,8% del PIL. Una quota da considerare “normale”, per alcuni versi anche troppo bassa per il paese, dopo la strutturale debolezza degli anni precedenti. Ebbene da questa valutazione gli investimenti aggiuntivi del triennio risultano di appena 26 miliardi. Veramente una cifra limitata rispetto al volume normale di 178 miliardi che l’Italia avrebbe molto probabilmente fatto senza Piano. Questo sarebbe l’effetto PNRR in tema di investimenti aggiuntivi.
Ma vediamo cosa è successo alla voce relativa alle altre spese in Conto capitale. In questo caso la “normalità” può essere stabilita intorno all’1,2% del Pil. Si tratta di incentivi alle imprese e alle famiglie che lo Stato elargisce a favore di investimenti privati e che sono stati nel decennio 2010-2020 intorno al 40% della spesa complessiva in Investimenti. Ed è già un valore elevato se si pensa alla tradizionale debolezza degli investimenti infrastrutturali dell’Italia. Si pensi solo alle “briciole” dedicate al Piano di adattamento al cambiamento climatico con il tema acqua che continua ad essere trattato da “sorella povera” degli investimenti a rete del paese.
Ebbene negli anni che vanno dal 2021 al 2023 l’eccedenza di questa voce rispetto ai valori normali del paese ha rappresentato 218 miliardi rispetto ad un volume considerato normale di 77 miliardi. Davvero una “voragine” in una voce contabile dove il superbonus 110% e gli altri bonus edilizi l’hanno fatta “da padrona”.
In sintesi, nell’ultimo triennio gli investimenti pubblici hanno avuto una eccedenza di 26 miliardi rispetto ad un volume normale di 178 miliardi, mentre le spese di incentivazione privata hanno avuto una eccedenza di 218 miliardi a fronte di un volume normale di 77 miliardi.
Difficile aggiungere di più in termini di commenti. Viene soltanto, di fronte a questi valori, di adombrare l’ipotesi che a fronte della disponibilità di tante risorse europee l’Italia abbia dirottato risorse proprie, altrimenti da destinare agli investimenti pubblici, per coprire spese in bonus molto più capaci di generare consenso. A scapito ovviamente di un rafforzamento strutturale del paese che era, e rimane ancora, l’obiettivo principale del PNRR.
Da: DIAC diario infrastrutture e ambiente costruito
https diariodiac.it/il-pnrr-sta-fallendo-sui-due-punti-strategici-fondamentali-effetti-strutturali-e-investimenti-pubblici-aggiuntivi/
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