La presentazione da parte di Comune di Prato e della società di servizi ambientali Alia del progetto “Textile hub”, in piccola parte da finanziare con i fondi PNRR, ha innescato una serie di reazioni che vanno dalla curiosità generale alla ferma levata di scudi da parte di alcuni stakeholder: residenti nella zona dove dovrebbe sorgere il centro, imprese del settore del riuso e del riciclo delle frazioni tessili e imprese meccaniche. Se da un lato reazioni stizzite alla localizzazione di un impianto di raccolta e selezione di rifiuti erano da mettere in conto, colpiscono le critiche e i distinguo da parte dei custodi del know how del centenario riciclo delle lane cardate.
Per ammissione degli stessi proponenti, che stanno correndo ai ripari in fatto di ascolto, il progetto non è stato proceduto da un adeguato dibattito pubblico. La querelle ha assunto comunque un rilievo che va oltre il perimetro locale nella misura in cui accende una spia preoccupante sugli insidiosi micro ostacoli con i quali il PNRR dovrà fare i conti nella “messa a terra” dei progetti in materia energia, infrastrutture e rifiuti.
Le schermaglie sull’hub tessile pratese, un avveniristico edificio di 9.000 mq, ricordano un case study proposto nei corsi di management in tema di stakeholder engagement. Un padre di famiglia assiste insieme ai tre figli ad un incidente tra due autovetture, una rossa e una blu. Il figlio maggiore, commentando poco più tardi con il padre la dinamica dell’incidente, attribuisce la responsabilità al conducente dell’auto rossa e il padre si dice d’accordo con lui. Qualche minuto dopo questi incontra il secondo figlio che, in merito all’accaduto, sostiene che la colpa sia del conducente dell’auto blu e il padre conviene che in effetti ha ragione. Il terzo figlio, infine, fa presente che non si può dare ragione ad entrambe le visioni; al che il padre commenta: “sì, hai ragione anche tu!”. Il campo di forze entro il quale si colloca il progetto, in effetti, è molto più complesso ed articolato delle sue semplici dimensioni operative e l’impressione generale è che le varie parti non si siano molto preoccupate di capire le ragioni altrui. L’impianto è disegnato per raccogliere e selezionare su base annua 34.000 ton di rifiuti tessili “post consumo”, tutto sommato poca cosa se si pensa che (in base agli scarni dati disponibili, da prendere con beneficio di inventario!) le imprese pratesi già adesso, tra vestiario per il “mercato seconda mano” e stracci per il riciclo, sottraggono alle discariche più di 180.000 ton di frazione tessile.
Tralasciando la carenza generale di impianti per i rifiuti nel nostro Paese e le spinte della Direttiva Quadro Rifiuti e del Green Deal europei per colmare in tempi possibilmente brevi questa lacuna, la decisione di realizzare l’hub va ricondotta anche al recente obbligo di organizzare la raccolta differenziata dei rifiuti tessili come già avviene per il vetro, la carta o i RAEE. Nel 2019 i comuni italiani (dati ISPRA) hanno differenziato rifiuti tessili “post consumo” per 146.000 ton; si stima, tuttavia che le quantità di abiti dismesse ammontino ad almeno tre volte tanto e che, in seguito all’obbligo di raccolta differenziata scattato proprio lo scorso 1 gennaio, le quantità di rifiuti da selezionare e avviare a riuso o riciclo cresceranno notevolmente con forte impatto sulle numerose filiere già operative: le cooperative e gli enti del terzo settore autorizzati dai comuni a gestire i cassonetti sulle strade, le imprese specializzate nella prima selezione dei sacchi (“riuso vs. riciclo”) e quelle a valle che affinano in seconda battuta le selezioni iniziali, gli importatori di abiti raccolti all’estero, i commercianti di abiti usati (che in buona parte sono esportati) e le aziende del riciclo impegnate a sminuzzare gli stracci per ottenerne fiocco per nuovi filati e tessuti, ovatte e pezzami vari per usi industriali.
Anche gli operatori di questa composita filiera non hanno nascosto le proprie perplessità per un progetto che, a loro modo di vedere, si sovrappone a una rete di attività consolidate. Un altro fattore che agita questa galassia è l’annunciata introduzione di “tasse ambientali” da inserire nello scontrino dei vestiti e della biancheria (Extended Product Responsibility) per finanziare proprio l’attività di raccolta, selezione, riuso e riciclo dei prodotti tessili. Inoltre, al di là delle dimensioni fisiche, il progetto del Comune di Prato inizialmente era stato immaginato come un grande contenitore di laboratori, start up e attività formative con tanto di cornice di università e centri di ricerca. Il tutto con la malcelata ambizione, condivisa dalle associazioni di categoria e dai sindacati tutti schierati a fianco del Comune, di candidarsi per la short list dei sei hub tessili europei proposti da Euratex, l’associazione dell’industria tessile abbigliamento UE. Per questi centri, il cui profilo salvo riferimenti generici a compartecipazioni pubbliche e private non è ancora del tutto chiaro, in ogni caso non sarà sufficiente fare appello alle sole vocazioni storiche del riciclo della lana.
Il confronto tra gli stakeholder pratesi, in realtà, per il momento si è impantanato sulla scelta localizzativa e sul profilo tecnologico/operativo dell’attività di raccolta e selezione dei rifiuti tessili. Le imprese della filiera del riciclo della lana che rigenerano stracci per la produzione di filati e tessuti hanno espresso ferme perplessità; il riciclo, a loro avviso, presuppone una selezione a monte molto più accurata di quella legata alla dimensione regionale prevista nel progetto di hub; la separazione delle fibre per tipo e colore, inoltre, deve fare affidamento ancora sulla manualità e il colpo d’occhio degli operatori. In ogni caso, per quanto straordinariamente importante sotto il profilo identitario, la lana rigenerata impiegata nella produzione di filati e tessuti cardati attualmente ammonta a poco più di 22.000 ton (fonte Associazione ASTRI). Più consistente, perlomeno in fatto di quantità operate, il riciclaggio di fibre diverse dalla lana svolto da imprese locali con la produzione di ovatte e feltri fonoassorbenti e coibentanti per le automobili, il settore edile e per numerosi altri impieghi.
Ultima, ma non meno importante, si è alzata anche la voce di alcune aziende meccanotessili locali specializzate nella produzione di impianti che sminuzzano gli stracci per ricavarne fiocco di fibre eterogenee; tramite processi di termosaldatura questi impianti ottengono intere famiglie di tessuti non tessuti di vari spessori che si prestano a numerose applicazioni che potenzialmente potrebbero sostituire cartone, plastica e altri prodotti per imballaggi. I loro impianti, che vantano già procedure ampiamente consolidate, sono stati venduti in vari paesi europei proprio nelle filiere della gestione dei rifiuti tessili ma, ad oggi sono stati ignorati proprio nella loro patria: da Comuni e Regione queste imprese si sarebbero aspettate adeguati sostegni anche in termini di green procurement.
Allo stato attuale, e questo non solo in Italia, la raccolta dei rifiuti tessili è la fase del processo di riciclo meno investita dai processi di meccanizzazione e di innovazione. Passi avanti consistenti sono stati fatti, invece, nella loro trasformazione. I progressi più significativi si registrano nel trattamento meccanico che risulta efficace ma questo spesso va ancora a scapito delle caratteristiche delle fibre naturali tendenzialmente molto delicate; in quello termico, che sfrutta le proprietà delle fibre sintetiche per ricavarne chip utili per nuovi processi di fusione; e in quello chimico che recupera le fibre naturali dei tessuti tramite dissoluzioni o altri processi (come fanno, ma soprattutto facevano, i carbonizzi di Prato). In termini di volumi, tra tutti svetta il recupero di “policotone”, neofibra rigenerata da articoli in poliestere e cotone già trattata con successo in numerosi impianti. Inutile sottolineare che, data la pressione per la soluzione del nodo dello smaltimento dei rifiuti tessili, si contano in giro per il mondo numerosi progetti di ricerca e prototipi di impianti.
Tornando a Prato, anche il progetto di hub del Comune e di Alia è articolato sue due livelli: la selezione per dividere gli abiti da indirizzare al riuso (60% del totale trattato) da quelli per il riciclo (40%) sarà manuale; per processare questi ultimi, invece, si utilizzerà una tecnologia basata su sensori ottici in grado di riconoscere e differenziare i fazzoletti di tessuti in base al tipo di fibra e al colore. Impianti di questo tipo sono già operativi nel Nord Europa ma tutto lascia pensare che occorreranno tempo, esperienza e numerosi aggiustamenti per raggiungere gli standard di selezione ai quali sono abituate le 70 filature cardate pratesi ancora attive.
Se il progetto non incontrerà particolari ostacoli sulla sua strada, Alia e i comuni toscani sono di fronte a una straordinaria occasione per far nascere una filiera della raccolta e della selezione delle frazioni tessili “post consumo” facendo leva su tre pilastri: 1) come stazioni appaltanti del servizio raccolta differenziata possono (devono) ritagliare spazi ai numerosi enti non profit già attivi senza abbassare la guardia sulle clausole di qualificazione e certificazioni, sulla tracciabilità e sugli audit necessari per evitare le infiltrazioni che screditano tutte le filiere dei rifiuti; 2) con i loro flussi di spesa pubblica, grazie ai gradi di premialità per il green procurementpresente nel Codice degli appalti, possono aprire intere praterie all’offerta di prodotti riciclati; 3) infine, nella misura in cui l’hub tessile saprà declinare i processi di innovazione intrecciandoli organicamente con il patrimonio di know how sedimentato nel distretto pratese, potrebbero modificare radicalmente la percezione della gestione dei rifiuti nel nostro Paese, come già avviene per la carta, il vetro e molti metalli. Ma l’agenda locale, per il momento, sembra avvolta da schermaglie tattiche che la confinano su orizzonti decisamente più circoscritti rispetto a quelli tracciati dal PNRR.
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