E non sarà breve. Il riferimento è alla seconda fase per cui il conto alla rovescia sembra ormai scoccato. Torneremo a una vita sociale che però sarà meno sociale di quanto abbiamo conosciuto fino a pochi mesi fa. Non sarà come riaccendere la luce, non basta schiacciare un interruttore, e non essendo stata una guerra non ci sarà nemmeno la firma di un armistizio per la fine concordata delle ostilità. Altro segno evidente che tutto sarebbe più o meno finito. Dovremmo abituarci a una convivenza, lunga, con il virus come purtroppo può accadere con un inquilino scomodo o fastidioso che, per il momento, non può essere cacciato via.
Saremo muniti di istruzioni che indicheranno più il “da non farsi” che il “da farsi”. Un po’ come se nel libretto delle nuove televisioni all’improvviso fosse scritto di non inserire la spina nella presa di corrente come la prima volta siamo stati abituati a fare. Non è semplicemente una battuta, perché il virus ha portato nelle nostre vite delle vere e proprie inversioni a U, molte delle quali ancora non abbiamo scoperto. Ad esempio, alcune parole hanno improvvisamente mutato di significato e cambiato il suo posizionamento, il virus ha veramente agito su di loro. Prendiamo soltanto il termine “distanziamento sociale”, se nel mondo pre-covid era associato a qualcosa di negativo ora indica un qualcosa di positivo per la nostra salvaguardia. Mentre “abbraccio”, per quanto oggi se ne abbia tanta voglia, è diventato improvvisamente un qualcosa di pericoloso e non più un segno di intimità e affetto. Cambiare il linguaggio vuol dire anche cambiare la percezione e la conoscenza del mondo, cosa che per questa pandemia è stata fatta usando, nuovo esempio, un vocabolario militare in una situazione sanitaria dove forse sarebbe stato più importante affermare una terminologia legata alla cura, che è stata, è e sarà il vero nodo della questione.
In un clima ancora molto confuso dovremmo capire bene se il comportamento tenuto fino a questo momento sia stato più dominato dalla paura verso gli altri (terrore di cadere tra le braccia di un untore come tra quelle di un nemico) che di rispetto per sé e per gli altri (sentimento di empatia verso una condizione che riguarda tutti). Anche da una così attenta riflessione intorno al nostro modo di vivere questi mesi di isolamento dipenderà la nuova fase che, come detto, non sarà breve ma che siamo chiamati a progettare e a concretizzare a breve. Partire da una delle due posizioni vuol dire non arrivare nello stesso luogo. Nelle pieghe di quanto provato in questi mesi sta la possibilità di cambiamento che tutti evocano, che tutti annunciano e che appunto non può essere lasciata al solo schiacciare un interruttore perché non arriverà automaticamente.
Questo riguarda anche il campo dell’arte e della cultura che in questo momento dovrebbe prendere la testa di ogni manifestazione legata al vero cambiamento. Qualche anno fa in un suo libro sul patrimonio culturale del nostro paese Giuliano Volpi, archeologo che nel tempo ha assunto importanti posizioni all’interno del MIBACT, definiva “conservatrice” anche la posizione di chi avrebbe voluto apportare una riforma nel settore usando però strumenti non adeguati al nuovo contesto e al nuovo tempo. Tra questi chi riteneva fossero sufficienti soltanto più finanziamenti e più personale (non perdere di vista il momento di forte crisi che da anni stava passando tutto il sistema di tutela e valorizzazione dei beni culturali prima della Riforma Franceschini). Se oggi ci limitassimo soltanto a sostenere queste stesse priorità cadremo anche noi in un atteggiamento difensivo di quello status quo che abbiamo già vissuto ma che sappiamo non essere più sufficiente per i tempi futuri. Non cambierebbe niente e le soluzioni sarebbero davvero mediocri anche perché non dimentichiamo che chiodo scaccia chiodo. Se andremo in questa direzione avremo vissuto questo tempo con terrore, quel terrore di chi ha paura ad andare verso l’altro e verso l’ignoto. Ma l’arte e gli artisti da sempre ci insegnano il contrario e i musei ne sono la palestra. L’avverbio “soltanto” è stato sottolineato per indicare l’eventuale non esclusività della soluzione consapevoli che gli straordinari finanziamenti sono urgentemente necessari in questo settore, come in molti altri, ma che dovrebbero servire ad attuare nuove politiche culturali che dovranno nascere da un pensiero olistico, in cui saranno da ripensare il campo dell’accoglienza, della divulgazione e della conservazione. Nonché quello dei rapporti pubblico privato. È necessario inventare una nuova funzione al museo contemporaneo che inclini ogni suo aspetto verso l’altro, come la mamma che si protende verso il bambino (si veda Adriana Cavarero). Non saranno sufficienti le linee guida per la regolazione degli ingressi, sarà necessario ripensare il ruolo del museo nella società e comunicarlo con tutti gli strumenti possibili compreso la modalità dell’online che in questo periodo di isolamento è stato fondamentale sperimentare. Senza credere che una sostituisca l’altra. Non dimenticando, però, che un museo sta ben radicato in una città e che tra loro ci deve essere un mutevole scambio perché, come scriveva a metà Quattrocento Leon Battista Alberti nel Re Aedificatoria: “Delo era frequentata non tanto a causa dell’oracolo di Apollo, quanto per la bellezza della città.” Città bella come organismo in cui opera e vive una collettività, una città che deve tornare a essere la nostra vera casa. E da cui col tempo della ricerca, della conoscenza e dell’attenzione deve essere cacciato l’inquilino fastidioso per tornare a ospitare l’altro.
Ornella Bettinelli
Osservazioni e analisi intelligenti. Cambierà l’approccio e il rapporto con l’arte. Avere ed affidarci a p ersone che sapranno portarci verso nuove visioni e nuove soluzioni sarà interessante. Tutto questo mi incuriosisce, perché diciamo la verità I meccanismi del mondo di prima era un po’ incancrenito.