Tra i (meritati) lazzi e sghignazzi degli avversari politici e i sentimenti di profonda delusione e frustrazione di chi ci aveva creduto, si è conclusa – per ora – la vicenda del Terzo Polo: è fallita l’annunciata unificazione in una nuova formazione politica che sarebbe dovuta nascere dalla confluenza in un nuovo contenitore politico di Italia Viva di Renzi e Azione di Carlo Calenda.
A questo rave party son tanti i partecipanti, attratti dalla voglia di farsi beffe delle personalità ingombranti, esasperatamente narcisistiche, dei due protagonisti della vicenda che non si sono risparmiati inutili roboanti parole d’ordine.
Si dimentica che Unificazione non funziona come Falqui, che il solo pronunciare la parola garantisce il risultato.
Lo sanno bene nel centrodestra dove in poco più di tre anni si consumò la parabola del Popolo della libertà che era nato nel 2008 dalla confluenza di Forza Italia e Alleanza Nazionale con altre formazioni minori: una unificazione che fallì presto, con la clamorosa uscita prima di Fini, seguito poi da quella di Giorgia Meloni e Ignazio La Russa (che si erano separati da Fini, nel frattempo) ed infine di Alfano nel 2013 quando si ricostituì Forza Italia.
“La scissione? Una sciagura. Però c’è di peggio: la fusione. Proprio così. La storia politica italiana è piena di paradossi ma ce n’è uno che …. andrebbe tenuto a mente a eterna consolazione sia dei fuoriusciti che di chi resta: quando ci si divide tanti inconsolabilmente piangono; quando ci si fonde, inevitabilmente qualcuno (politicamente s’intende) muore.
E’ una vicenda che, come popolo votante, ci appartiene, e nessuno può farci niente. Ragion per cui quelli che si stracciano le vesti, a volte con toni che ricordano i lamenti delle prefiche, possono mettersi l’animo in pace: c’è vita oltre la scissione. E a volte neppure così grama. Mentre il contrario in tanti casi diventa il buco nero delle ambizioni mai realizzate” (Carlo Fusi, Il Dubbio, 22 febbraio 2017).
Dirà qualcuno: ma questo giudizio appartiene all’epoca della seconda repubblica, sicuramente non alla stagione dei grandi parti di massa, delle appartenenze ideologiche e non delle ammucchiate indifferenziate per governare.
La storia sta lì, implacabile, a dimostrare che anche questo è un giudizio sbagliato, che fattori personali ed ambizioni più o meno legittime si intrecciarono a diversità di linee politiche (a volte solo una copertura) ed intervennero a provocare il fallimento del più importante esperimento di costruzione di un Terzo Polo in Italia, quella unificazione dei due partiti di matrice socialista che, decisa nel 1966, tracollò definitivamente nel 1969. E allora un piccolo ripasso di storia che non guasta mai.
Dopo la scissione che nel 1947 aveva portato Saragat, favorevole all’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, ad uscire dal PSI la cui maggioranza era invece contraria, anche in virtù del patto di unità di azione che unica quel partito ai comunisti italiani ancora soggetti all’influenza dell’Unione Sovietica di Stalin, i rapporti tra i due partiti erano stati conflittuali, legati anche alle diverse correnti interne, anche se permanevano aspirazioni unitarie.
A dare indirettamente impulso e concretezza a queste aspirazioni fu il rapporto segreto di Krusciov (febbraio 1956), contenente la denuncia delle degenerazioni staliniane in URSS e i successivi tragici fatti d’Ungheria (ottobre-novembre 1956) che videro il PCI schierarsi a sostegno dell’intervento sovietico e della brutale repressione della rivolta ungherese. Entrò in crisi l’intesa PSI-PCI ed il PSI riconquistò la sua piena autonomia nella affermazione dell’inscindibile nesso tra socialismo e democrazia.
Il risultato di questo nuovo clima fu certamente l’incontro di Pralognan dell’agosto 1956 voluto e patrocinato dall’Internazionale Socialista, fra Nenni e Saragat, i due leader storici che delle due anime del socialismo italiano: a questa prospettiva di ricomposizione della frattura si opponevano la sinistra socialista, ancora legata ad una politica unitaria col PCI, e la destra socialdemocratica, atlantica e governativa.
Con la formazione nel 1962 del primo governo di centrosinistra nel quale PSI e PSDI si trovarono fianco a fianco, le spinte verso l’unità si rafforzarono, anche per l’uscita della componente filocomunista del PSI che andò a costituire il PSIUP e per l’elezione del primo socialista alla presidenza della repubblica, Giuseppe Saragat.
Ma contro la volontà dei due leader storici remavano le correnti e le ambizioni personali dei loro leader, in primis un tiepido Francesco De Martino tanto che Nenni fu costretto ad intervenire direttamente nel dibattito congressuale del 1965 con la sua famosa lettera ai compagni.
Dai congressi del PSI e PSDI di quell’anno venne comunque approvata la prospettiva dell’unificazione e venne costituito un “Comitato paritetico per l’unificazione“, con 12 rappresentanti del PSI (2) e 12 del PSDI presieduto da Nenni.
Il partito sarebbe stato “bicefalo“(fino alle politiche del 1968) in tutto, perfino nel nome PSI-PSDI Unificati – la stampa lo chiamerà Partito Socialista Unificato PSU – il simbolo era quello dei due partiti racchiusi in un cerchio, ribattezzato la bicicletta (modello al quale incautamente si sono richiamati Renzi e Calenda per le elezioni politiche del settembre 2022 e delle successive tornate elettorali regionali).
A tutti i livelli organizzativi ci sarebbero stati organi composti dalla somma (paritetica) degli organi dei due partiti.
Nell’ottobre del 1966 i congressi dei due partiti, con l’opposizione solo di una piccola parte della minoranza della sinistra socialista, ratificarono l’unificazione andando alla Costituente Socialista tenutasi a Roma il 30 ottobre 1966: parteciparono 1800 delegati dei due partiti, in rappresentanza di circa 700.000 iscritti a PSI e PSDI, presieduta da Sandro Pertini,
La Costituente proclamò, nell’entusiasmo generale, il sorgere del nuovo partito unificato: Pietro Nenni fu acclamato presidente, i segretari erano Francesco De Martino (ex PSI) e Mario Tanassi (ex PSDI) e vicesegretari Giacomo Brodolini (ex PSI) e Antonio Cariglia (ex PSDI).
Tutti gli altri organi, a partire dalla Direzione, furono formati in pari numero dagli ex socialisti e dagli ex socialdemocratici e così ad ogni livello territoriale.
Sembrava chiuso il ventennio che aveva visto profonde lacerazioni fra i due partiti socialisti ma il susseguirsi degli eventi imponeva scelte rispetto alle quali pesavano diverse visioni e indirizzi maturati nel ventennio precedente: questo valeva sia per l’affievolirsi della azione riformatrice del centro sinistra che per lo scenario internazionale, dalla guerra dei sei giorni al Vietnam.
Ma a dare il colpo di grazia all’appena avvenuta unificazione furono i risultati elettorali delle politiche del 1968 nelle quali dal 19, 9% del 1963 dei due partiti separati il PSU era sceso al 14, 5% con un calo del 5,4%: un risultato non catastrofico considerata la scissione del PSIUP che aveva ottenuto il 4,5%.
Chi aveva subito l’unificazione pur non avendo il coraggio di opporvisi apertamente ora trovò la motivazione necessaria per avanzare le sue critiche sulle insufficienze culturali ed organizzative su come si era realizzata.
Nenni fu messo in minoranza, De Martino e Tanassi si fecero le proprie correnti e uscirono dal governo nell’attesa del congresso che era previsto nell’ottobre nel 1968, in un paese scosso dai movimenti studenteschi e dalle lotte operaie di quegli anni, verso le quali la componente ex PSDI aveva un atteggiamento ispirato a law & order mentre i socialisti flirtavano con i movimenti extraparlamentari.
Nel congresso con 950 delegati in rappresentanza di 900.000 iscritti si fronteggiarono cinque correnti tra le quali risultò maggioritaria (35,5%) quella autonomista, detta anche Mancini-Ferri-Preti, scontenti del disimpegno dal governo. A Rinnovamento Socialista, formata interamente da ex socialdemocratici capeggiati da Tanassi andò il 17,4 % mentre Riscossa Socialista di De Martino ottenne il 32,2%. Sulla sinistra, Antonio Giolitti con Impegno Socialista arrivò al 5,8 % mentre la Sinistra Socialista di Riccardo Lombardi, che proponeva la fine del centro-sinistra e la politica dell’Alternativa di sinistra, raccolse il 9,4 %.
Pietro Nenni fu riconfermato alla presidenza del partito mentre segretario fu eletto Mauro Ferri, con vicesegretario Antonio Cariglia ma risultava più difficile conciliare linee politiche, organigrammi, aspirazioni di correnti e gruppi vari. Nel maggio 1969 ci fu un rovesciamento di maggioranza a seguito del quale si arrivò, nel luglio dello stesso anno, alla fuoriuscita dal partito di un gruppo di dirigenti di diversa provenienza messi in minoranza su una mozione di Nenni che ribadiva l’importanza dell’unità del partito e che dettero vita al Partito Socialista Unitario, con segretario Mauro Ferri e vicesegretario Antonio Cariglia.
Tutto questo per dire che nemmeno eminenti padri della repubblica riuscirono a tenere insieme una formazione politica ispirata al riformismo socialista e tra ambizioni personali, ripicche, differenti linee politiche in poco più di tre anni portarono all’epilogo di questo esperimento, la cui riuscita forse avrebbe dato un maggior respiro alla politica del nostro paese, pur nei vincoli stretti delle alleanze della guerra fredda.
E se non riuscì ai padri della prima repubblica, anche il Popolo della Libertà finì schiantato nell’insanabile conflitto tra Berlusconi e Fini, protagonisti assoluti del centro destra della seconda repubblica.
Allora servono giudizi meno precipitosi verso la caduta dell’illusione rappresentata dal Terzo Polo: a tavolino, tutto sembra facile ma non lo è.
E’ importante dedicarsi alle soluzioni ingegneristiche per la costruzione di un contenitore politico, ma è più importante elaborare contenuti d’impianto riformista attorno ai quali conquistare il consenso di una parte, che sarà comunque sempre minoritaria, dei cittadini perché un sacco vuoto non sta in piedi.
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