Faccio una premessa: parlerò qui della sinistra. Dovremmo dire centrosinistra. Ma in fondo non c’è bisogno della specificazione, se si pensa – come io penso – che la sinistra può essere solo centrosinistra, cioè può essere solo radicalmente riformista: una sinistra liberale, per dirla con Salvati. Cioè una sinistra di governo, non di denuncia e di protesta. E che non abbia niente da spartire con le misere imitazioni di una sinistra più di sinistra che oggi vanno per la maggiore in Italia e in Francia. A questo proposito devo dire che considero sbagliata la formula secondo cui il Pd nuova versione si sarebbe “spostato a sinistra”. Si è spostato verso un indistinto populismo e verso una cultura politica confusionaria che non è di sinistra – neanche massimalista: il massimalismo è scomparso da decenni. Semmai questa è una sinistra minimalista, fatta di piccoli pezzi senza una visione complessiva. L’alternativa di governo si costruisce certamente anche con altre forze, ma richiede una base, o un pilastro come direbbe qualcuno, che al momento non può essere altro che il Pd.
Qual è, o quale dovrebbe essere, la cultura politica di una forza di sinistra nel senso qui indicato? Anzitutto va detto, con Aldo Schiavone, che la sinistra non discute da decenni dei suoi principi, e questo l’ha messa in uno stato di confusione totale. Da decenni: dal 1989, ma in verità ancora da prima. Chi di noi è stato nel Pci sa di che cosa parlo. La sinistra ha bisogno di un nuovo pensiero, perché si trova di fronte un mondo nuovo: e proprio della sinistra è il compito di elaborare una cultura politica della trasformazione. Siamo invece di fronte ad una preoccupante rinuncia e all’adagiarsi nelle pieghe del presente, anche con la cancellazione totale dei tentativi di elaborazione proposti negli anni che ci sono alle spalle. Da Blair a Veltroni a Renzi, che, pur con tutti i loro limiti e i loro fallimenti, dovrebbero essere criticati e sviluppati e non cancellati.
Alcuni profili, nella nebbia attuale, appaiono tuttavia abbastanza chiari. E’ chiaro, anzitutto, qual è il cuore del confronto: da una parte l’idea di una sinistra progressista ma riformista, capace di elaborare un’offerta politica convincente per il paese, che disegni una prospettiva di sviluppo e di crescita economica e culturale, di opportunità per tutti – in altre parole, come dicevo prima, una sinistra di governo. Dall’altra parte una sinistra di denuncia e di protesta, che si illude di trasferire l’antico conflitto di classe in una confusa difesa dei più deboli. Difesa che va fatta, beninteso, ma all’interno di un progetto di crescita e insieme di trasformazione: trasformazione del lavoro, delle relazioni sociali, della vita di noi tutti. Perché queste trasformazioni non sono oggetto di scelta, ma sono in atto e andranno avanti. Oggetto di scelta è come porsi di fronte ad esse: subirle, demonizzarle, o provare a governarle. Dovrebbe essere questo il compito di una forza progressista. Il discrimine tra queste due idee di sinistra attraversa il Pd come tutti i partiti di centrosinistra. C’è una difficoltà a fare i conti con i mutamenti avvenuti negli ultimi decenni: la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica che è una nuova più sconvolgente rivoluzione industriale, la transizione ecologica con le sue contraddizioni, lo sconvolgimento degli equilibri geopolitici e il nuovo disordine mondiale, le grandi migrazioni, che non sono come ci viene detto un’emergenza ma un dato strutturale che va integrato nel quadro generale di ogni paese. La situazione è molto difficile per tutti, ma la difficoltà della sinistra è superiore a quella di altre culture politiche perché è questa la parte che si è identificata con il Welfare state e le grandi conquiste sociali del Novecento, fondate su rapporti di lavoro e una dimensione nazionale della democrazia che oggi non tengono più. Non è affatto un caso che invece la destra, prima più marginale, oggi si rafforzi in tutti i paesi democratici. Perché la destra, salvo casi eccezionali, non affronta i problemi con lo spirito della trasformazione ma con quello della conservazione. Legittimo, beninteso, e non a caso spesso vincente: ma il mestiere della sinistra è o dovrebbe essere un altro. La risposta a questa situazione non può essere quella di adagiarsi su vecchi miti e vecchie parole d’ordine. La sinistra tradizionale – sarebbe meglio dire populista – si illude della sua forza di opposizione ma in realtà lascia praterie alla destra, sull’immigrazione come sui diritti, sulle riforme istituzionali come sulle alleanze internazionali. Si può contrastare efficacemente la destra, e tornare a vincere, solo con una vera innovazione culturale. Ci sono temi che non possono essere trattati con superficialità o strumentalità. Il primo è il giudizio sulla globalizzazione e sulle politiche della sinistra nel XXI secolo. Si può davvero parlare di uno slittamento a destra, o in questi anni c’è stato un tentativo, in parte riuscito in parte fallito, di dare alla sinistra un pensiero nuovo, capace di uscire dalla denuncia e governare la complessità? E perché questo tentativo è in parte fallito? Ha ragione chi indica nel bisogno di protezione il problema principale dei paesi occidentali, che la globalizzazione ha spogliato del loro dominio sul mondo? Oppure ha ragione chi vede nella globalizzazione il trionfo di un capitalismo predatorio?
Di fronte a questi interrogativi, la risposta più semplice sembra quella di tornare alla protezione dello stato. C’è una piccola difficoltà: lo stato non è più in grado di dare protezione come un tempo. Lo stato non è più autosufficiente. Questo è vero perfino per Usa e Cina, figurarsi per noi europei. Le trasformazioni tecnologiche e le interconnessioni globali rendono del tutto obsoleto il vecchio schema dell’intervento statale risolutivo. Sento già l’accusa di neoliberismo: un concetto usato come uno slogan, dal significato per niente chiaro. Nessuno propone, è ovvio ma bisogna sempre ripeterlo, di abbandonare la dinamica della società al libero mercato, rinunciando alla responsabilità collettiva delle istituzioni. Il problema, evidente soprattutto in Italia, è quello di indirizzare l’intervento dello stato a sviluppare le capacità di produzione e di innovazione della società. L’intervento dello stato è necessario, soprattutto in situazioni di estrema crisi come quella che abbiamo vissuto col Covid, ma non può essere identificato con una logica assistenziale. Questo ha una immediata conseguenza nel modo di concepire la base sociale di riferimento di una forza politica. Anche in questo caso c’è bisogno di uno sguardo nuovo. Qualcuno crede che il problema della sinistra sia aver abbandonato la sua storica base sociale, per adagiarsi nella ZTL, negli strati sociali più colti e, se non ricchi, benestanti. Certamente le città, non solo in Italia, sono più a sinistra, perché sono più connesse con la dimensione globale dell’economia e del sapere. Più difficile è parlare alle periferie, urbane, economiche, culturali. Ma se è così, non serve cercare una vecchia base sociale che non c’è più, che è frammentata in mille schegge, in mille lavori diversi, che non possono più stare dentro un modello unitario come al tempo della fabbrica, o, al contrario, inseguire un consenso superficiale che non può non essere volatile. Le periferie non devono essere assistite (anche questo, certamente, quando è necessario): devono essere inserite nei circuiti globali. Certo non si può cercare la base sociale in un generico e moralistico riferimento ai poveri o ai più deboli. Una sinistra che si limiti a questo è inevitabilmente minoritaria se non residuale. I poveri devono essere salvaguardati, ma all’interno di un progetto forte che parli a ceti diversi e proponga un futuro a tutti. In altre parole: non c’è una base sociale predefinita. (In verità sia Lenin che Togliatti lo sapevano bene). Una base sociale si costruisce con le scelte politiche, non è qualcosa che sta lì e deve solo essere decrittata. Ma per fare questa cosa, per costruire una base sociale, bisogna avere un’idea di dove portare la società, come l’avevano i comunisti negli anni Venti o i socialisti negli anni Cinquanta. Una società liberale ma solidale; un’eguaglianza che offra diverse opportunità a persone diverse; pari dignità di uomini e donne; un mondo interdipendente ma capace di riconoscere il valore delle comunità nazionali, culturali, religiose; politiche dell’immigrazione che consentano una accoglienza ordinata e una integrazione efficace; e dunque uno stato che protegge i più deboli, ma senza mai rinunciare a puntare sulla capacità di innovazione e di crescita di persone e imprese. Non assistenza come scelta di sistema, ma lavoro e crescita, formazione e innovazione. Facile a dirsi, naturalmente. Per cominciare ad affrontare i problemi dobbiamo cominciare a dirci che la sinistra attuale non ha sviluppato una cultura politica, ma sbanda in direzioni diverse. Ritengo che questo sia il difetto genetico del Pd. Non il tanto evocato amalgama mal riuscito, ma la carenza di una cultura politica rinnovata sia negli ex-comunisti sia nel cattolicesimo democratico.
I temi sarebbero molti, ma ne scelgo uno: l’eguaglianza. Bobbio, com’è noto, in un testo che è tornato di moda in questi anni, ha identificato la sinistra con l’eguaglianza, la destra con la libertà. Questa idea, a me pare, è evidentemente legata alla struttura bipolare del mondo del Novecento: l’eguaglianza è vista come il principio ispiratore del sistema del socialismo reale, la libertà quello del mondo capitalista, che non a caso si chiamò “mondo libero”. Non credo che queste che sono le due idee fondamentali dell’esperienza politica della modernità possano essere viste in una tale contrapposizione. Se mai si potrebbe dire – si è detto a lungo – che la sinistra vuole l’eguaglianza delle condizioni reali e la destra si accontenta dell’eguaglianza formale, dei diritti. Ma è stata la storia a incaricarsi di falsificare questo schema: il fallimento dei regimi socialisti ha dimostrato che eguaglianza senza libertà non solo non è auspicabile, ma soprattutto non è possibile. Chi è della mia generazione ricorderà un libro dei primissimi anni Settanta (in realtà scritto nel 1957), del dissidente jugoslavo Milovan Gilas, che si in titolava La nuova classe, e mostrava che sotto l’apparenza dell’eguaglianza nei paesi del cosiddetto socialismo reale si era sviluppata una classe privilegiata di funzionari che avevano il monopolio del potere economico e politico.
E’ indubbio tuttavia che l’obiettivo principale della sinistra europea nel Novecento sia stata l’eguaglianza. Portandosi dietro un corteo di idee filosofiche derivanti dal cristianesimo (gli uomini sono tutti eguali perché figli di Dio), dal diritto naturale (gli uomini sono tutti eguali perché hanno la stessa natura razionale), dal pensiero kantiano (gli uomini sono tutti eguali perché hanno la stessa capacità morale), l’idea di eguaglianza ha attraversato l’epoca delle rivoluzioni ed è precipitata nella tragedia del comunismo, dove è servita a giustificare la soppressione della libertà individuale e i fallimenti di un sistema economico e sociale; ma nel corso dello stesso tempo storico, il compromesso socialdemocratico produceva il Welfare, la più grande e significativa costruzione del Novecento, più pervasiva e più durevole di qualunque rivoluzione, cambiando i termini della lotta di classe, e anche quelli di destra e sinistra. E’ stato un modo diverso (e, diciamolo, più efficace) di declinare l’eguaglianza. Quest’idea non può non essere al cuore di una politica di sinistra anche oggi: ma profondamente rinnovata.
Oggi si parla molto di diseguaglianza, anzi di diseguaglianze, e sembra che questa parola, diventata uno slogan, risponda a tutti i problemi di identità che sovrastano oggi, non solo in Italia, la sinistra. Superare le diseguaglianze. Ma quali diseguaglianze? Quelle di reddito, quelle di cultura, quelle di opportunità? E quali sono gli strumenti o le vie per superarle: la redistribuzione del reddito, l’istruzione eguale per tutti, un potente ritorno dello Stato nella vita sociale? Dobbiamo chiederci di che cosa parliamo quando parliamo di eguaglianza. Che cosa può essere oggi l’eguaglianza? Anzitutto avremmo l’obbligo di guardare oltre i confini ristretti del nostro paese e anche del nostro continente, e guardare al mondo. Vedremmo allora che nel mondo le diseguaglianze sono diminuite, e non cresciute. Come afferma Branko MIlanovic in Foreign Affairs del 14 giugno 2023, se guardiamo oltre gli stati al globo intero, la storia della diseguaglianza nel XXI secolo è l’opposto di quella che ci viene raccontata: il mondo è molto più eguale di quanto è stato negli ultimi cento anni. L’indice di Gini, che misura le ineguaglianze, era salito a 69.4 nel 1988; è sceso a un mai visto prima 60.1 nel 2018. Questa crescita è dovuta anzitutto alla crescita economica di un paese enorme come la Cina, ma anche, in misura minore, dell’India e dei paesi africani. Ciò non vuol dire che si tratti di un processo deterministico, che continuerà necessariamente a progredire. E’ possibile che ci siano avanzamenti ma anche ritorni indietro. Ciò che ci interessa, tuttavia, è che alla diminuzione della diseguaglianza su scala globale non corrisponde la stessa cosa all’interno dei singoli paesi. L’Occidente non domina più il mondo, e la prosperità dei suoi ceti medi è messa in pericolo proprio dall’aumento della ricchezza del resto del mondo. I paesi occidentali sono ancora nel loro insieme i più ricchi, ma al loro interno ci sono sempre più persone che nella distribuzione globale della ricchezza non stanno nei posti più alti. C’è quindi una polarizzazione interna che produce il senso di una crescente diseguaglianza. Ora, al di là della prospettiva globale di Milanovic, che cosa ci dice questa ricostruzione? Ci dice anzitutto che non si può affrontare il tema della diseguaglianza in un contesto soltanto nazionale. La tradizionale funzione redistributiva dello stato non può più essere svolta nello stesso modo nel quale veniva svolta nel secolo scorso, quando i paesi occidentali non avevano rivali consistenti nel mondo. Una potente iniezione di denaro pubblico, come stanno facendo gli Stati Uniti, non è una soluzione possibile per gli stati europei, non solo per i vincoli giuridici ma anche per la loro generale debolezza e dipendenza sulla scala globale. Resta comunque da vedere se la scelta degli Stati Uniti porterà a una diminuzione della diseguaglianza o solo a un miglioramento delle posizioni più alte.
Tutto ciò per dire che parlare di diseguaglianze facendone uno slogan è facile, ma più difficile è parlare di eguaglianza, e anche solo capire di che cosa stiamo parlando. Resta fondamentale la domanda di Amartya Sen: «Eguaglianza di che cosa?». Di diritti, di risorse, di opportunità, di capacità, di esperienze vitali (Sen 1994)? Sono accezioni che esprimono diversi approcci concettuali e determinano divergenti strategie politiche.
Penso che l’eguaglianza che ci interessa non è una questione di misure o di bilanciamenti, ma in primo luogo una questione di rispetto degli individui e di promozione della loro capacità di agire liberamente nel mondo. Questo naturalmente richiede anzitutto una redistribuzione delle risorse in termini di istruzione e di Welfare. Ma l’eguaglianza va vista non come appiattimento, ma come stimolo a quella che alcuni filosofi chiamano la fioritura individuale, che non può essere la stessa per tutti. Una eguaglianza che non è in contraddizione con la libertà: al contrario, è essenzialmente eguaglianza di libertà. In questo quadro la distribuzione delle risorse appare strumentale alla crescita di libertà individuale. Sul piano delle politiche, ciò significa abbandonare la fallimentare idea di stato dirigista – che assegna i valori economici, ma facilmente diventa uno stato etico, che assegna i valori morali – per puntare sull’iniziativa e la capacità di agire degli individui. I riferimenti sono ancora Sen e Martha Nussbaum. Non si tratta soltanto di eguaglianza di opportunità, o eguaglianza di punti di partenza, ovvero una strategia che si propone di garantire a tutti una eguale base di partenza, cioè eguali diritti e la dotazione materiale minima necessaria per esercitarli. Già questo è un obiettivo importante, perché supera l’egualitarismo della tradizione socialista e comunista; e sarebbe comunque un obiettivo ambizioso e difficile da realizzare, perché assicurare veramente condizioni di partenza eguali richiede un grande sforzo di politiche pubbliche. Tuttavia oggi le riflessioni sull’eguaglianza ci indicano anche qualcosa di più. Cioè una eguaglianza che si coniuga con la differenza, o con le varie differenze che sono proprie degli umani e che devono potersi esprimere in modo autonomo nelle loro scelte di vita. Una eguaglianza che punta sul dinamismo che deriva dalla libertà individuale e dagli incroci tra le differenze di interessi, ambizioni, preferenze, scelte di vita. Per fare un esempio banale: l’innovazione tecnologica, che ha peraltro evidenti implicazioni conoscitive e sociali, si giova certo del sostegno dello stato ma molto spesso nasce da avventure individuali. La Nasa e Steve Jobs, per intendersi. Quindi sì, sostenere l’istruzione pubblica, ma anche gli studi dei giovani di talento e le startup. Assicurare la protezione e insieme puntare sulla competizione, sull’inventiva, sulla solidarietà. Meriti e bisogni, si è detto già molto tempo fa. L’idea di eguaglianza non può prescindere dal riconoscimento che gli esseri umani sono diversi tra loro e hanno diverse aspirazioni, diversi obiettivi, oltre che diversi talenti. In questa prospettiva si riconcilia l’eguaglianza con la libertà, secondo la lezione di Rawls, che ha mostrato come eguaglianza e libertà non possono essere messe in contrapposizione tra loro ma devono essere legate insieme in uno schema di “eguale libertà”. Quello che si realizza, quando funzionano, nelle istituzioni democratiche.
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