Greta Thunberg da oggi non è più solo la ragazzina svedese con la sindrome di Asperger, che è riuscita a mobilitare migliaia di giovani in nome dell’ambiente e della lotta ai cambiamenti climatici.
Per la verità, il sospetto che attorno a lei e alla sua immagine si fosse costituito un vero e proprio comitato d’affari, capace di attivare un notevole business, era nato già quando i media si erano improvvisamente concentrati su di lei e l’avevano portata alla ribalta internazionale.
Lo sappiamo bene: non è che le televisioni e le grandi testate giornalistiche si muovano all’unisono, se dietro non c’è quantomeno una serisssima agenzia di pubbliche relazioni che li indirizza verso un certo obiettivo. Qui – sia chiaro – non stiamo parlando di un complotto delle lobbies della green economy o dell’alta finanza europea; ma certamente di una regia sapiente, composta da professionisti della comunicazione e del marketing.
Perché, se così non fosse, immaginate una normale ragazzina italiana che si mette in piazza della Signoria a Firenze con un cartello su cui ha scritto “Stop Coronavirus”: dopo una settimana, anziché i giornalisti e le telecamere, arrivano i servizi sociali che la prelevano e la riportano a scuola, visto che da noi esiste l’obbligo scolastico fino a sedici anni; e poi un magistrato del Tribunale dei minori potrebbe giustamente prendersela con i suoi genitori che non fanno il loro mestiere.
Quando poi abbiamo visto Greta attraversare l’Atlantico sullo yacht del principe di Monaco (per evitare di inquinare i cieli con un volgare aereo di linea), abbiamo dedotto che la fanciulla, anche se se la prende con i potenti della Terra – in primis Donald Trump -, deve avere le spalle coperte da altri potenti, magari di orientamento diverso da quello del cattivissimo presidente degli USA.
Uno di questi potenti che manovrano i fili sarebbe, secondo William Engdhal, analista geopolitico americano e autore di best seller sulle guerre del petrolio, l’ex vicepresidente Al Gore, vice di Bill Clinton, da sempre ambientalista e oggi ricco presidente del gruppo Generation Investment, che si occupa di investimenti a lungo termine sulla sostenibilità ambientale.
Ma torniamo al discorso iniziale, e cioè che ora abbiamo, in un certo senso, la certezza che quello di Greta Thunberg non è soltanto un movimento d’opinione che lotta per una causa nobile come la salvaguardia del nostro pianeta. Infatti, l’autorevolissimo settimanale tedesco Die Zeit ha dato per primo la notizia sul suo sito online che Greta ha ufficialmente chiesto all’Unione europea di registrare i marchi della sua “ditta”: Fridays for Future e Skolstrejk for klimatet (Sciopero per il clima).
Di solito sono le aziende e le imprese commerciali a registrare i propri marchi, in quanto segni di riconoscimento, per tutelarsi da possibili imitatori e competitors poco corretti. La registrazione ( in Italia esiste un ufficio apposito che si chiama U.I.M.B.) serve unicamente a garantire lo sfruttamento del marchio a chi lo deposita; se ci sono degli interessi economici in ballo, ovviamente, se c’è un business da difendere.
Di certo Ghandi o Martin Luther King, in passato, non vennero mai sfiorati dall’idea di registrare i rispettivi movimenti presso l’Ufficio marchi e brevetti. Se lo avessero fatto, probabilmente, oggi avremmo un’opinione diversa su di loro e due figure ideali in meno da celebrare.
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