La linea della più sconvolgente accoppiata in stridore che esiste al mondo, Venezia legata insieme a Mestre-Marghera (qual è il vivente, qual è il cadavere?), di colpo sfida a una sutura di recupero attraverso l’oscenità del reale e del presente; sfida […] a saltare più in là, verso il non ancora realizzato, verso un mai-visto in cui persino il male venga bloccato, svuotato del suo potere e riabilitato come segno, traccia, forma.
(A. Zanzotto, Venezia, forse)
Dopo l’ingresso della Fincantieri,
dove sbocca la statale su ruderi
di industrie siderurgiche
ridotte a squarci e filami di amianto,
c’è, tra le corsie, al centro, una vasta
depressione del manto, che evitano,
sfiorandoti, i Transit e i tir. Le piogge
e i freddi l’avranno scavata e ora è tutta
ricolma di acqua, stagno di unto iridato
a riflettere le gru e gli stralli, il cielo
dato in affitto verso i depositi
del Petrolchimico e i grigi sguanci
della torre Hammon (l’ex refrigeratore
della Montecatini):
a vederla, Marghera, capovolta,
ancor meno appartiene a questa terra.
Non ha conferme ma piace ripeterlo
l’etimo fantastico del suo nome
mar, ghe gera – il mare, c’era
tra darsene dove è stivato l’Adriatico
in vasche per le acque di raffreddamento,
mentre dietro ai cancelli svettano ai venti
le navi da crociera pronte alla fuga
sulle onde rimaste nei mari degli altri.
Sotto il sole dopo gli scrosci rancidi
gli operai cingalesi che sciamano
finito il turno dalle otto alle sedici
li incontra oggi soltanto, Fabio,
perché è uscito prima del tempo
dalla Acrobyte (consulenza informatica),
dov’è sistemista da ottobre:
mentre a piedi ci spostiamo in città
mi parla del posto che aveva perso
in un’azienda di calze a Vigonza
per un poco la cassintegrazione,
a dicembre i registri IVA dal giudice
e me lo dice incrociando manovali kosovari
che rotti vediamo negli occhi,
chiusi a noi, e duri, come i cartelli
vietato fare foto sui muri della Fincantieri,
coi cocci aguzzi di bottiglia sopra,
come usava a preservare orti e ville –
mentre il segreto che qui si protegge
è fatto di frese e putrelle.
Ormai alle spalle ci lasciamo il Vega,
il Parco Scientifico e Tecnologico
costruito per rilanciare
Porto Marghera 2.0: è lì che ha sede
la Acrobyte, tra edifici in vetro e loft riattati,
banche, start-up e studi di architetti,
mensa col ping-pong e infilata di stabili
tutti fedeli al tema astronomico
(dal Lybra, dall’Antares, dall’Auriga
ci si affaccia in giacca e cravatta,
casual, magari, il venerdì),
mentre sgusciano le auto di chi investe
in e-commerce e nanotecnologie,
ma queste strade di nomi pesanti
via delle industrie, dell’elettrotecnica
tradiscono il retaggio di ferro e argon
restando colme di un silenzio ambiguo,
tanto che disinveste la regione:
sui marciapiedi dissestati dove nessuno
mai cammina, lungo le vecchie rotaie
ridotte a parcheggi, tra gli hangar scheletrici
e gli sterpi che ramificano sulle banchine
a discarica, gli unici rumori sono
le ruspe che abbattono i capannoni
archeologici, perché il nuovo lavoro
sa procedere sottovoce, sinfonia di tasti
e connessioni veloci, ma anche, certo,
perché sfitta è rimasta buona parte
degli uffici. Questo, si ha:
dismissione nell’immobile Pleiadi
con veduta sulle rimesse ex Breda,
matrioske anemiche di luoghi vuoti,
e l’unico esercizio in zona è un bar
che chiude alle cinque, perché poi
tutti fuggono a casa, protetti dagli infissi
e dagli allarmi, o a farsi un Cynar in paese
assieme agli amici del basket,
mentre qua un happy hour suonerebbe
come perfida ironia. Ci abbiamo
pranzato, io e Fabio, prima: All’incrocio,
si chiama, il bar,
con un semaforo verde all’ingresso,
ma non è all’incrocio di niente –
chiude, prima di una sbarra, una via.
* * *
È nel sangue di Marghera, d’altronde,
l’ossimoro, la contraddizione,
lei che nacque come città-giardino
nel 1917,
Pietro Emilio Emmer l’ingegnere
urbanista, padre a pochi mesi di distanza
di un figlio e di una città: il primo
diventerà regista delle domeniche d’agosto
italiane, la seconda il setting calloso
del resto della settimana,
tutto piallato in bianco e nero sempre.
“Un polo portuale e industriale deve
averlo anche Venezia”, e accanto, separato
da un viale come retta di olmi e aiuole,
nasce sopra campi malarici il paese,
il Quartiere Urbano, verde e spazioso
da progetto come i nuovi sobborghi
di Londra, ideale per dare dimora
alla futura classe operaia – e accanto
Cita, Vetrocoke, Azotati, Metallotecnica,
Feltrificio, Save, già nel ’24
le prime denunce per le acri esalazioni
dei gas, ma è solida la litania d’acciaio
di quelle ragioni sociali,
sicché sempre chi verifica sceglie
di lasciare che si lavori.
Ancora lo si ammira dall’alto dei satelliti,
lo schema reticolare di rotonde
e raggiere, con case dell’ente, I.A.C.P.,
ogni abitazione il suo orto vicino,
cinematografo nel ’34, la chiesa dei frati
sei anni dopo. Ma presto il piano precipita:
a Marghera si stabiliscono capetti e bottegai,
e fuori, sparsa, si sfibra la manodopera,
in campagne divise dai fossati
che disperdono la sua dura carica,
mentre nascono a cintura villaggi
dove al bando il regime spedisce
i poveri della laguna, assieme
a sfollati e dissidenti politici
(che splenda, Venezia, nei suoi ori soltanto):
se si passa, oggi, per ciò che rimane
di Rana, Brentelle e Ca’ Emiliani,
si sente nell’aria l’eredità
delle baracche costruite con cascami
di pannocchie e calcestruzzo alleggerito
dalle scorie degli impianti: sono via
delle erbe, adesso, del maggiolino, che danno,
all’angolo, su piazza dello spazio,
dove ti aspetti che sopra astronavi
planino in incognito le sere,
le case basse voltate a sghimbescio
verso il cielo di ciminiere.
È sulla terra di nessuno
tra le fabbriche e il centro abitato,
dove cenano alcuni camionisti
all’ombra delle loro bisarche –
via Galvani, dell’azoto, dell’atomo
della pila, dell’elettricità
(spaccio, alla sera, puttane, eroina) –,
che ancora riemergono dietro garage,
sotto tetti di eternit e carriponte,
bunker e rifugi antiaerei dall’aspetto
di tombe etrusche o cisterne,
e sono, invece, i suoi mausolei,
le ferite della guerra a Marghera:
bombardata nel ’44 dagli alleati,
a blocchi, rinascerà, di condomìni
popolari, installati, come nel largo
del Mercato, al centro dei viali
a verzieri (Emmer, intanto, è fatto fuori:
accusa di concussione, infondata),
ed ecco che si erge la città brutalista
come Beograd, Bucarest o Mosca,
come bianche cittadine lettoni
col contatore Geiger in piazza,
e tra le vie di zinco si invischiano migranti
da ogni angolo del pianeta, profughi
dalmati, africani, asiatici, trasfertisti
all’Ilva dal sud, con il porto che sbarca
dai piroscafi lontane fisionomie,
che io e Fabio ora scrutiamo
nei vólti di figli e nipoti
penetrando piano in città:
tutti i quartieri sono periferie,
qua, nei parchi giochi dentro i rondeau
dove si affollano etnie a vertigine,
o nei bar cinesi sotto ai palazzi
coi pianerottoli aperti sui platani,
le baba sulle panchine, le giovani
slave di cui fantasticano gli anziani
ai tavoli in fòrmica – 1 su 5 ha
origini straniere, dei 30 mila residenti
a Marghera, tra gli under 20 quasi 1 su 3 –,
eppure senti vita vera nelle voci
in strada e sugli usci, nell’abbraccio
di caseggiati slovacchi davanti
al Cristo Lavoratore, nei visi appoggiati
a vetrine di assorte lavanderie a gettoni,
a osservare la sera sui pedoni
farsi notte,
dove scoda viale Beccaria.
Su questo varco finiva un tempo
l’autostrada, il benvenuto di Venezia
agli autisti: ora nulla invece vi ha termine,
tutto cambia soltanto, e così
il benzinaio al casello
è stato riconvertito negli anni
in un’impresa di onoranze funebri
(chiamata, è ovvio, San Marco), che vaglia
verso i palazzi della Cita
come un Caronte in cemento.
* * *
Coi 400.000 metri cubi
di beton del nuovo quartiere Cita
gli operai sono infine a Marghera,
anni settanta, compatti con un belvedere
sui binari della stazione di Mestre,
ma l’ala, ai giorni nostri, più rossa
del movimento sindacalista
sopravvive in isolate bandiere,
mentre cippi sparpagliati in città
ricordano ’80 e ’81, i fatti
che con il sangue compirono la guerra:
direttore e vice della Montedison
e il commissario che indagava
crivellati, fuori casa, dalle BR.
Tutto, qua, è spaccature e voragini,
e ora è difficile capire quale, ma il lavoro
a Marghera si dice tornerà: Fabio
sostiene, al bancone di un pub,
che all’Acrobyte si assuma in forze, e poi
c’è il rilancio del porto, il terminal di Fusina,
la chimica verde nel cuore residuo
che ancora batte nel Petrolchimico
(il cracking nella condotta aerea
che da Venezia sembra un ponte
magnifico): l’ecodistretto dell’energia
e del riciclo, potrebbe formarsi, con
bonifiche e riconversioni in bioraffineria –
spronano comitati ambientalisti, e spinge
la municipalità, che non resti tutto
simbolo, a Marghera,
del vuoto che non si colma mai.
Soldi, però, ci vogliono, gli schei,
e l’avallo di chi conta davvero,
in questa agra spianata che per molti
vale possibili Eldorado, eppure se solo,
guidando, ti spingessi
poco oltre via delle macchine, dov’è verde
tra porto ed Enel il canale Industriale
Ovest, sentiresti, tra gru e ponteggi,
condotti e serbatoi riflessi, bilici
schierati e ombre di silos su chiatte
e argani che prendono, immensi,
quasi per il collo le nuvole, sentiresti
la potenza che ha qui l’abbandono,
il suono calmo con cui richiama
ciascuno, le vite che a Marghera
hanno perso, e quindi anche la tua,
che adesso è come un confine,
scontornato ed eroso, sul marezzo
di quest’acqua fallita che un vecchio
con l’amo perlustra alla ricerca di cefali
e vongole: solo qui, lo senti?,
può succedere qualcosa che smentisca
la violenza di tutto, e che non sia frattura,
ferita ulteriore, anche se è questo,
in fondo, il modo
in cui si passa ad altri la vita.
* * *
Pescare molluschi alla diossina
non si potrebbe, ma ancora si fa,
e non si sa come resista la fauna
acquatica tra unità di evaporazione
per il caprolattame e vasche
di fosgene sfiorate dagli incendi;
ma resiste, e ora persino c’è un luogo,
a Porto Marghera, dove si mostra
in precisi compendi
la sua vocazione marittima: al Vega
da maggio c’è Aquae, il bianco padiglione
dell’Expo che Milano ha voluto
concedere alla città anadiomene.
Pochi lo sanno e ancor meno
ci vanno, dentro al palazzetto sorto
in fretta con vista sui relitti Pilkington:
ci entro, oltre la wasteland, da solo,
perché Fabio mi saluta al bar al Canton,
dove indica un cartello in 5 euro
la tariffa per un’informazione
su come si arrivi a Venezia – che è
prossima, oltre il ponte, laggiù,
ma che sembra, tra svincoli
e fucine, un miraggio davvero remoto,
com’era per Marco Polo da Ormuz.
Faccio da solo la fila e solo rimango
sempre, io diventando, poi, l’attrazione
(«ma allora un po’ di gente ci viene»:
due ragazze col pass, entrate gratis),
perché gli stand sono derelitti, disertati
i caffè, nessuno al planetario, le sedie
ovunque libere, solo un carabiniere
a corteggiare due signore
che promuovono su un biroccio
la lavanda di Venzone, mentre
il video 3D Viaggio negli abissi,
all’interno del tendone centrale,
è fermo, bloccato, sullo stesso frame
(nessun segnale),
perciò l’abisso si compie davvero:
non resta che scattare qualche foto
a memento di questa condanna
(la città-vuoto, che solo rinnega),
stigma che segna Marghera
in ogni sua singola piega.
Un progetto, in realtà, c’è anche qui,
battezzato con un anglismo Waterfront,
e alberghi, prevede, attività ricettive,
alloggi e logistica avanzata, proprio
dove glissa Porto Marghera sull’acqua
il cui prisma si sfa, con lentezza,
verso il vetro madreperlaceo di Venezia –
che ora, ecco, all’imbrunire si spalanca.
Trema il medesimo Mediterraneo
di Algeri e Marsiglia, Antalya e Beirut,
quello che bagna Gaza,
Durazzo, Tiro e Alessandria d’Egitto,
ma è basso, qua, e ha pali allacciati
che fanno dall’alto altre galassie
mentre balla la notte, in discesa,
sulle chiglie in costruzione. Almeno
una volta bisogna fermarsi, su un tratto
del ponte della Libertà, e lì farsi fare
da dondolo dai due orizzonti distanti,
le guglie di gru e pontili – i prospetti
dei campanili, Venezia a sinistra
e a destra le industrie, un ebbro mal
di mare, instabile mancamento, e poi tutto
di quest’acqua, i suoi secoli e i suoi
morti, e dentro allora, chiudendo gli occhi,
potremo noi cercare di cucire
l’aureo abbaglio e la sponda cinerea
– tutti, in fondo, li conteniamo –
e dare loro nuova febbre: il nome
Marghera è da maceria che deriva,
ed è, per ricostruire,
tutto quello che serve.
Francesco Targhetta
16-20 luglio 2015
il testo è già comparso su La Lettura #197 del Corriere della Sera, 6 settembre 2015.
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