Conosco da troppo tempo Alessandro Petretto, ho imparato da lui e ho condiviso con lui tante fruttuose ore di lavoro, di ricerca e di scrittura a quattro mani, per non intendere il senso delle sue critiche al mio ultimo libro (L’illusione liberista, Laterza 2021). Tuttavia, Petretto scrive che è difficile individuare il “bersaglio” della mia critica, “bersaglio ondivago e spesso non precisato rigorosamente”. Credo, in realtà, di aver chiarito piuttosto bene quale sia il bersaglio: l’ideologia di mercato – per la quale quel che fa il mercato è sempre ben fatto o, comunque fatto meglio che da qualsiasi combinazione di mercato, Stato, comunità – e tutte le relazioni sociali sono riconducibili a mercato, incentivi e denaro. Forse, il bersaglio è così complesso e articolato che possono sfuggirne i confini. Del resto nella Prefazione avverto di aver corso sia il rischio di spingermi “troppo oltre nei dettagli, annoiando e spazientendo il lettore non specialista o, all’opposto, di rimanere troppo in superficie e fare alzare il sopracciglio allo studioso”. E Petretto il sopracciglio lo ha alzato. Eccome se lo ha alzato! Qui di seguito non potrò rispondere a tutte le sue critiche, ma il lettore può star certo che le trovo tanto utili e stimolanti quanto dettate da un istinto difensivo della professione, comprensibile ma dal sapore un po’ “vetero”.
Petretto dice 1) che l’adesione al programma di ricerca dominante in Economia, non implica adesione al progetto liberista; 2) che un po’ di liberismo non fa poi troppo male, se contenuto in limiti accettabili. Non dissento dalla prima proposizione e nel libro lo scrivo chiaramente. Condivido Keynes, che nel 1934 dichiarava di schierarsi con gli “eretici”, perché “convinto che il loro istinto e il loro fiuto li conduca verso le conclusioni giuste”. E tuttavia aggiungeva: “mi sono formato nella cittadella [dell’ortodossia] e ne riconosco il potere e la forza. Non posso non accettare come sostanzialmente corretta una larga parte del corpo costituito della dottrina economica. Non ho dubbi su questo”. Non a caso, la prefazione del mio libro si apre così: “Le idee dell’economia, sviluppate nel corso di due secoli, sono state geneticamente selezionate e negli ultimi quarant’anni usate a sostegno culturale e ideologico di un progetto politico e culturale conosciuto in Italia come liberista…”. Più volte, nel libro, riconosco apertamente che i migliori economisti (Adam Smith, Alfred Marshall, Leon Walras, Ken Arrow, Frank Hahn, Amartya Sen per menzionarne solo alcuni e di epoche diverse) hanno usato la teoria “ortodossa” per mostrare quanto astratte fossero le condizioni, valendo le quali gli esiti del mercato sono efficienti e dunque si applica il “teorema della mano invisibile” e le questioni distributive (e del potere) possono essere separate da quelle di efficienza. Ma altri economisti, diciamo così fondamentalisti, sono stati assi meno prudenti di quei grandi e – anche ignorando che nessuno è riuscito mai a dimostrare come si possa effettivamente raggiungere l’equilibrio economico generale (nel gergo, la sua “stabilità”) – hanno ampiamente coltivato l’illusione liberista, creando così danni alla disciplina economica e, secondo me, all’umanità. Perché bisogna sempre ricordare le parole di Keynes secondo cui “le idee degli economisti e dei filosofi della politica, giuste o sbagliate che siano, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo ne è in gran parte governato. Gli uomini del fare, che si considerano esenti da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche defunto economista”.
Tra questi, i premi Nobel Friedrich von Hayek, Milton Friedman, George Stigler, Gary Becker, James Buchanan, Robert Lucas (ancora vivo) e una pletora di seguaci minori. Lo iato tra l’alta teoria dell’equilibrio economico generale e le applicazioni dei liberisti sono ben espresse da queste parole di Frank Hahn, con riferimento alla Nuova Macroeconomia Classica di Lucas & C.: “uno dei misteri che i futuri storici del pensiero certamente vorranno dipanare è come sia potuto accadere” che il modello di un mondo ideale “venisse preso per un modello descrittivo, ovvero di per sé sufficiente per lo studio e forse anche il controllo delle economie realmente esistenti” (guarda caso, il saggio da cui sono tratte queste parole lo tradussi io, per la pubblicazione in un libro del 1983 in onore del mio primo e indimenticabile maestro, Federico Caffè). Mistero che, secondo me, si spiega con il clima culturale degli anni ’70 e ’80, specie negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Non è certo casuale la coincidenza temporale con gli sviluppi della public choice (Buchanan) e con le serrate critiche alla regolamentazione e alle pratiche di tutela della concorrenza, nonché con la progressiva forza politica dei movimenti neo-conservatori che portarono alla vittoria di Reagan e della Signora Thatcher all’alba degli anni ’80, nonché a quelle di Bush jr nel 2000 e 2004.
Reagan, poi, sembra proprio essere stato l’incarnazione dell’illusione (e della contraddizione) liberista: mentre predicava il libero mercato e additava lo Stato (che pure presiedeva) come la “bestia” da affamare e ridurre in un angolo, faceva esplodere il deficit pubblico. Trovo invece stupefacente l’affermazione di Petretto che un po’ di liberismo abbia fatto bene nei paesi del Sud America. Vorrei ricordare che quel “po’ di liberismo”, in Cile, è stato “imposto” da uno spietato dittatore come Pinochet, al prezzo di svariate migliaia di morti e di una spettacolare crescita delle disuguaglianze e dei rischi sociali. Nel libro ricordo come perfino la Signora Thatcher (nel 1982) rispose freddamente e un po’ sdegnata a Hayek, che la sollecitava a seguire la via cilena al libero mercato. Ma i liberisti friedmaniani hanno fatto tanti danni anche nella Russia post-sovietica dove, pure grazie alle loro raccomandazioni, tutto il potere è stato lasciato in mano agli oligarchi, sono esplose le disuguaglianze, sono cresciuti l’alcolismo, i suicidi, la povertà. È il prezzo da pagare perché il mercato nasca e si consolidi? Credo proprio di no e non posso pensare lo creda uno come Alessandro Petretto.
Alle disuguaglianze dedico ben due capitoli del libro, in cui mostro non solo perché esse non favoriscano la crescita, ma anche perché affidarsi solo alla crescita per sconfiggere disuguaglianza e povertà sia molto rischioso. Riconosco sia gli effetti positivi che quelli negativi della globalizzazione e ragiono sulle possibilità di limitare quelli negativi ed esaltare quelli positivi grazie a una governance globale che affianchi e regoli il mercato globale (non sono un no-global di strada, né un sovranista di sinistra!). E, d’altra parte, dedico un bel po’ di spazio a smontare le ragioni addotte dai liberisti e dai moderni adoratori della “meritocrazia” per razionalizzare e giustificare l’esistenza e la crescita delle disuguaglianze. So bene che politiche redistributive malaccorte possano causare danni, non sono un ugualitarista assoluto e penso che il merito sia importante. Però non mi sfugge 1) che la meritocrazia “realizzata” (soprattutto negli USA) è in realtà il vestito nuovo dell’aristocrazia del censo; 2) che i danni economici, politici e morali delle disuguaglianze eccessive sono molto più grandi di qualsiasi danno possa provocare la redistribuzione delle opportunità, delle capacità e della ricchezza. So anche, come ricorda Petretto, che la redistribuzione è compatibile (fino a un certo punto, almeno) con un approccio liberale classico, ma non lo è con il liberismo teologico, per il quale le tasse devono sempre e solo diminuire (senza mai essere in grado di motivare scientificamente questa posizione, che perciò appare solo ideologica). Qui annoto, di passaggio, una certa incapacità di alcuni economisti liberali di percepirsi come tali e prendere le distanze dai liberisti teologici.
Petretto sa che sono, da sempre, un sostenitore delle virtù della concorrenza e, in effetti, al tema dedico parecchie pagine del libro. Stupisce che Petretto non si sia accorto delle mie critiche alle tesi di Friedman e Stigler che, in nome della libertà di intrapresa, sono disposti a chiudere un occhio sul potere monopolistico (capitolo 2), per non parlare degli effetti devastanti sulle disuguaglianze e sulla democrazia che tale potere ha avuto e sta avendo (capitolo 5). Per i liberisti la concorrenza (ma anche la democrazia) può essere sacrificata sull’altare del laissez faire, la cui fine era stata annunciata da Keynes già nel 1926. Sul ruolo positivo di liberalizzazioni “ben temperate” e di una regolazione incentivante mi soffermo nei capitoli 2 e 8, proprio con gli argomenti che avevamo sviluppato insieme con Petretto in anni lontani. Nessuna abiura. Ma anche riconoscimento che (in Italia e altrove) troppo spesso le cose non sono andate come dovevano andare e come noi volevamo che andassero e anche che c’è una bella differenza tra “mercati costruiti” e “mercati lasciati a se stessi”. Mi piace il mercato come strumento, non la sua stolta esaltazione. E su questo, con Petretto, siamo di sicuro d’accordo.
Un intero capitolo del libro (il sesto, ignorato da Petretto) è dedicato ai guasti dell’applicazione della logica mercatistica alla questione ambientale, fatta soprattutto (ma non solo) dagli economisti di fede liberista. Qui sta forse il danno maggiore fatto dal liberismo all’umanità e, in particolare alle generazioni future. E il danno viene proprio dall’applicazione (distorta) dell’individualismo metodologico. Si ipotizza che le preferenze della società debbano corrispondere esattamente a quelle dell’individuo (rappresentativo) appartenente alla generazione presente. Si usa, perciò, un tasso di sconto elevato (ricavato dai mercati finanziari!) dei benefici futuri delle politiche di contrasto dei cambiamenti climatici che rifletterebbe tali preferenze e se ne conclude che i costi (da sostenere oggi) superano largamente i benefici futuri (scontati) e che, quindi, conviene rimandare qualsiasi intervento. Molti economisti di fede liberista hanno influenzato, da oltre quattro decenni, con modelli così (mal) concepiti le politiche attendiste che hanno condotto fino all’attuale emergenza, con l’ingigantimento e la concentrazione temporale dei costi che dovremo sopportare per salvarci. Quei modelli, inoltre, erano basati su una assurda sottovalutazione dei rischi di catastrofe, che va contro i principi della buona teoria economica (anche qui, i liberisti hanno geneticamente selezionato il peggio dell’Economia). Ovvio che prima ce ne liberiamo e li sostituiamo con modelli più solidi teoricamente e meno influenzati da principi morali egoisti e meglio è.
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