Quale significato può avere – quali linguaggi, quali contenuti, quali forme organizzative – una nuova cultura liberaldemocratica riformista e progressista, in Italia e in Europa? Quali possono esserne le basi sociali in un’epoca come la nostra, sempre più improntata alla soggettività e alla specificità dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni e sempre meno rappresentata dai modelli istituzionali e di partito tradizionali, tipici dei sistemi politici novecenteschi? Quali le sue condizioni di possibilità in un mondo sostanzialmente “resettato” prima dalla grande crisi finanziaria, economica e sociale del decennio scorso, ora dalle enormi consegue che, su tutti i piani della vita sociale, sta avendo la grave pandemia del Covid-19? Ne parliamo con Claudia Mancina, già docente di Etica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma, Vicepresidente dell’Istituto Gramsci, Membro del Comitato Nazionale di Bioetica e, dal 1992 al 2001, Parlamentare del PDS e dei DS. Una voce lucida e lungimirante, attenta alle trasformazioni profonde della società civile e alle istanze di movimenti politici e culturali innovativi come quelli oggi impegnati, con sensibilità diverse dal passato e in gran parte ancora da capire e scoprire, sule grandi questioni ecologiste, femminili e del riconoscimento dei diritti umani e dei diritti all’autonomia socialmente responsabile delle persone e dei loro gruppi di appartenenza.
Professoressa Mancina, da tempo la Sua riflessione politologica e filosofica si concentra sulle condizioni di possibilità e sulle prospettive – nel nostro paese ma non solo – di una cultura politica alla quale ci si riferisce spesso con l’espressione “di sinistra liberale”. Ora, se il secondo termine – pur oggetto di discussione spesso retorica (lo si confonde impropriamente spesso con una sua versione economica: il liberismo, neo- o meno) – ha una sua più delineata definizione, il primo, “sinistra”, appare più generico, forse al punto che si potrebbe contestare che si tratti piuttosto di “liberalismo di sinistra”. Eppure non penso sia questo a cui lei allude.
In effetti ci si può chiedere perché non usare l’espressione – storicamente affermata – di “socialismo liberale” o “liberalsocialismo”. Il mio punto di vista è che nella profonda crisi culturale della sinistra si debba in qualche modo ripartire da zero. Mi spiego. Non intendo certo dire che non ci siano più principi e valori a cui ispirarsi. Ma i diversi modi storici che hanno interpretato e dato forma a quei principi e valori mi sembrano oggi tutti logorati, cioè incapaci di dare risposte. In particolare, ritengo che anche il progetto socialdemocratico sia oggi in gran parte consumato. Certo, nessun confronto è possibile con il comunismo, che è totalmente fallito e non esiste più neanche nei paesi che si definiscono comunisti; anche se si trascina ancora stancamente un punto di vista genericamente anticapitalista, che oscilla tra nostalgia del passato e radicalismo utopico. Non c’è dubbio che la socialdemocrazia abbia raggiunto, attraverso il suo “compromesso” col capitalismo, traguardi straordinari di miglioramento della vita della popolazione e di superamento delle diseguaglianze. Tuttavia, oggi, quel progetto è compiuto e mostra, insieme ai suoi meriti (pensiamo alla superiorità del Welfare europeo rispetto a qualunque altro paese), l’esaurimento della sua spinta propulsiva, se così vogliamo dire, rispetto ai problemi attuali, che sono economici e sociali (a maggior ragione dopo la crisi Covid), ma anzitutto culturali. Le difficoltà incontrate dai partiti socialisti nei paesi che sono stati nel Novecento il loro ambiente tipico ci dicono che in qualche modo bisogna andare oltre. Anche l’attuale pervasività dei temi ecologisti (che assumono una funzione di supplenza della spinta antisistema, fino a versioni decisamente estreme) ci dice la stessa cosa. Per questo a me sembra che il termine “socialismo” sia consumato, anche per il cattivo uso che ne è stato fatto nei paesi da cui sino a pochi anni fa era bandito: Stati Uniti e Regno Unito. Né possiamo dimenticare che nella cultura di sinistra del secolo scorso il socialismo comprendeva il comunismo, col quale del resto aveva in comune la centralità della triade classe-partito-stato. Non escludo che il termine socialismo possa ritrovare una sua attualità, se riesce a ridefinirsi completamente. Intanto preferisco usare il termine “sinistra”, come un termine semplicemente descrittivo, che designa una posizione sulla mappa politica, ma non implica un determinato sistema di idee, che ritengo debba per l’appunto essere sviluppato. A partire dagli obiettivi di libertà individuale e giustizia sociale, che però oggi vanno visti su scala mondiale e quindi profondamente ripensati.
In un libro di qualche anno fa, Alain Touraine – da decenni impegnato in una riflessione di sinistra e liberale sui valori e sulle possibili nuove forme della democrazia occidentale di fronte alle grandi sfide del nostro tempo – ha parlato del XXI come di un “nuovo secolo politico”, partendo dal presupposto che la crisi attuale, di fronte ad esempio ai populismi e sovranismi autoritari, sia dovuta a due cose: una ormai più che sostanziale incomunicabilità fra società civile e sistema politico di rappresentanza e di decisione e il fatto che la prima è attraversata oggi da movimenti di natura soprattutto contro-culturale (dunque in difficoltà a darsi forme strutturate e organizzative efficaci), la seconda si è sempre più chiusa (causa ed effetto di quella separazione) in un isolamento autoreferenziale, fatto anche di logiche di selezione delle élite politiche dirigenti e di opposizione cooptative, poco democratiche e trasparenti, poco attente alla preparazione e al merito. Qual è la Sua idea in proposito?
Molti studiosi sostengono che sia in atto una seria crisi della democrazia e forse più in generale della cultura occidentale. Quella indicata da Touraine si può intendere per certi aspetti come un capitolo ulteriore, e forse estremo, della dinamica della società di massa, basata su un circuito popolo-élite che non funziona più. Questa dinamica, che nel Novecento è stata spesso conflittuale e talvolta tragica (pensiamo ai fascismi), ha però mantenuto complessivamente un equilibrio, dovuto nella prima parte del secolo alla forza delle tradizioni (pur diverse) inglese e francese, e dopo all’egemonia americana, risultante dalle due guerre mondiali e poi dalla guerra fredda. La mia opinione è che la crisi attuale sia dovuta anzitutto alla globalizzazione, che ha prodotto l’indebolimento delle capacità decisionali dei governi nazionali nella produzione e distribuzione delle risorse economiche, ma anche politiche e culturali, e ha eroso le basi della democrazia, che è per sua natura nazionale. Da qui anche la crisi dei partiti e delle forme di costituzione della rappresentanza. La reazione è stata la crescita di movimenti populisti e nazionalisti che attaccano al cuore la democrazia rappresentativa. Viviamo una fase di profonda trasformazione ed è difficile immaginare quali saranno gli sviluppi. Impossibile poi non vedere le conseguenze geopolitiche della globalizzazione: il progressivo ritiro degli americani dal loro ruolo internazionale, e simmetricamente la crescita sempre più evidente delle ambizioni egemoniche della Cina. È ovvio che la Cina non solo non è una democrazia, ma ha una cultura politica e sociale completamente diversa da quella sviluppatasi nella nostra parte di mondo. Per questo in gioco non è solo un sistema politico ma la stessa cultura occidentale. Quella che si svolge sotto i nostri occhi non è affatto solo una guerra commerciale, come Trump vuol far credere: è una strisciante guerra fredda culturale. Al momento sembra che la Cina abbia tutti i numeri per vincerla. Se mettiamo a confronto il discorso di Xi JinPing con quello di Trump all’assemblea dell’Onu, vediamo con chiarezza qual è lo spessore della sfida cinese. Ma dipenderà anche da noi, e soprattutto da noi europei, se sapremo combatterla: se non indeboliremo la nostra democrazia, se riusciremo a non lasciare campo libero ai cinesi, se saremo capaci di svolgere senza arroganza e senza troppi egoismi un ruolo civilizzatore e pacificatore. Altrimenti, è meglio che ci mettiamo a studiare Confucio.
Collegato a tutto questo, vi è la questione – dibattuta nel Partito Democratico ma si ha l’impressione più pourparler che con il reale intento di affrontare un problema tanto delicato per le sorti della democrazia italiana (il tema vale per tutte le forze politiche) – di quale forma organizzativa debba avere un partito liberal-democratico progressista, riformista, insomma: di sinistra liberale. Sono qui in gioco, ad esempio, il ruolo che possono svolgere – e a quali condizioni anche di governo del loro uso – le nuove tecnologie informatiche, ed il delicato rapporto fra democrazia rappresentativa, partecipativa, diretta.
Immaginare quale possa essere il modo di funzionare di un partito progressista oggi è molto difficile: non a caso sono decenni che si susseguono tentativi di riorganizzazione. Quanto a me, ritengo che nella costituzione del Partito democratico ci siano molte cose da rivedere. Le primarie, per esempio: credo che siano utili per identificare un leader riconosciuto, ma non sufficienti per garantire il confronto delle idee e quindi, alla lunga, la linea del partito, come si è drammaticamente visto nel caso dei due leader riformisti, Veltroni e poi Renzi. Vedo due questioni: dev’essere possibile discutere la strategia politica in modo distinto dalla scelta del segretario. Non si tratta di tornare al vecchio congresso, ma il modello britannico – una conferenza annuale che mette a punto la linea confermando il leader – mi sembrerebbe molto utile. Altrimenti ogni discussione si trasforma in un sistema di attacchi e/o di accordi tra gruppi dirigenti, sempre più chiusi in sé stessi. Ma sembra che il Partito democratico abbia paura della discussione politica. La seconda questione è quella della comunicazione, che non può essere ridotta a Twitter. È chiaro che bisogna stare sui social, ma anche saperli usare secondo un progetto. Nessun partito oggi può evitare di affrontare questo punto. E insieme alla comunicazione dovrebbe camminare il dialogo con gli aderenti, iscritti ed elettori. Non si può certo pensare che questo dialogo avvenga soltanto nelle sedi, sempre più residuali, dei cosiddetti circoli. In questo campo le tecnologie digitali potrebbero essere utili. Le primarie (che sono certamente un caso di democrazia diretta) consegnano elenchi di elettori che non vengono utilizzati in alcun modo. Perché non farlo? Perché non informare direttamente gli aderenti di ciò che il partito sta facendo o pensa di fare, magari chiedendo la loro opinione? E si può andare anche oltre. Faccio un esempio: perché il Partito democratico non fa una seria campagna (di massa, si sarebbe detto un tempo) per il 2permille? È già il partito che raccoglie di più, ma potrebbe raccogliere ancora molto se intendesse la campagna per il finanziamento (il 2per mille è finanziamento pubblico, non dimentichiamolo) come una campagna politica, di autopresentazione e autopromozione politica.
Se per certi aspetti la forma è sostanza, l’una e l’altra non sono la stessa cosa. La crisi del centrosinistra italiano – lei ha affermato – data, nella sua forma conclamata, sin dalla trasformazione del PCI in PDS e, col passare del tempo, nei DS e infine nel PD. Da una parte, il progetto, sin da subito sconfitto, di Achille Occhetto, che intendeva fare i conti con la cultura comunista novecentesca (in generale ma nello specifico italiana), riconoscendone l’importanza fondamentale ma nel contempo trasponendola in forme e contenuti… diciamo così… post-modernisti; dall’altra l’affacciarsi di bivi dirimenti – ad esempio, l’esperienza dell’Ulivo, poi dell’era, contrastata ma promettente, di Matteo Renzi, naufragata però sotto l’intenso fuoco amico quel 4 Dicembre 2016 – ai quali si è preso il sentiero rivelatosi poi sbagliato. Stando alla geografia politica attuale – un PD elettoralmente statico e asfittico in costruzione strategica di un’alleanza con M5S; un arcipelago liberal-democratico di piccole isole (Italia Viva, Azione, +Europa, Volt) fra loro in contrapposizione e a volte personalisticamente rancorose; una sinistra radicale divisa e di fatto ininfluente – Lei come pensa si possa perlomeno cominciare concretamente a superare questa impasse?
La situazione del sistema politico è complicata nel centrodestra, dove la leadership di Berlusconi non riesce a trovare un successore adeguato, e pressoché caotica nel centrosinistra. Credo che ci siano soltanto due strade per uscire dall’attuale impasse. Una è che le tre sigle che si sono costituite al centro rispetto al Partito democratico, ciascuna con l’ambizione di aggregare un mondo liberaldemocratico, si unifichino sul serio, in un progetto e in un soggetto, non solo in un esperimento elettorale come nelle ultime elezioni pugliesi: un esperimento prevedibilmente fallito. È molto probabile che un’offerta politica cosiffatta otterrebbe di più della semplice somma delle forze oggi divise, perché apparirebbe credibile e affidabile, come invece quelle forze, prese singolarmente, non possono essere. Sarebbe una vera speranza di novità, e potrebbe attirare adesioni non solo dal mitico centro, ma anche dal Partito democratico. Tuttavia sembra per ora molto difficile che quelle forze riescano a unirsi, impedite come sono da reciproci rancori e da eccessive ambizioni personali. Ma se è così, si deve concludere che nell’area riformista non c’è altro che il Partito democratico. In mancanza di una alternativa seria, è questo, con tutti i suoi enormi difetti, il luogo nel quale si costruisce una strategia di centrosinistra e una proposta di sviluppo del paese. Lasciarlo nelle mani di quelli che hanno meno fantasia e meno coraggio, di quelli che sono meno riformisti, è un grave errore. Ritengo che sia stata un errore l’uscita di Renzi e, prima ancora, la mancanza di un candidato renziano alle ultime primarie. Sarebbe stato opportuno anche per fare un bilancio di meriti ed errori della gestione di Renzi, che resta comunque la più avanzata in senso riformista: lasciare questo bilancio agli avversari è stato piuttosto autolesionista. Anche l’uscita di Calenda è stata, a mio parere, un errore: se era contrario all’alleanza con i 5stelle, perché non restare e mettersi a capo di tutti quelli che erano contrari, e non erano pochi? Il problema, anche in questo caso, sono i rancori personali. Ma condannare l’intera area di centrosinistra a una più che probabile sconfitta, o a una mezza vittoria, con conseguente debolezza del governo, paralisi decisionale eccetera, a causa dei rancori personali, è una colpa che la storia non perdonerà a tutti i protagonisti di questa desolante commedia. Credo che tocchi al gruppo dirigente del Partito democratico aprire a tutti quelli che vogliano partecipare alla costruzione di un vero partito di centrosinistra, capace di un ruolo nazionale prospettico, strategico, che non sia solo quello della stampella del governo. Compresi ovviamente gli ultimi resti della sinistra radicale, ma anche coloro che possono provenire dai 5stelle, purché nella chiarezza della scelta per l’Europa e per la crescita e modernizzazione del paese. Concretamente, penso che si dovrebbe pensare non ad un congresso, ma ad una conferenza politico-programmatica aperta, con una proposta chiara elaborata dal Partito democratico.
Mi rendo conto che faccio un discorso utopistico. Ma ditemi qual è l’alternativa… Molto di tutto ciò è legato al tema della legge elettorale. Tornare al proporzionale significa continuare nella tradizione della confusione e della debolezza, per non dire del trasformismo. Un sistema maggioritario equilibrato sarebbe molto più efficace per portare il paese in una fase nuova. Ma ormai non ci crede più nessuno, e dunque anche questo è un discorso utopistico.
Un’ultima domanda. La pandemia del Covid-19 ha forse rappresentato – nel suo sconvolgente significato di un vero e proprio passaggio d’epoca, non solo per i rischi sanitari ma soprattutto per le trasformazioni che sta imponendo su tutti i piani: economici, sociali, di riforma di welfare, di habitus e di probabili orientamenti culturali – il momento delle doglie per la nascita (o la morte di parto) di un nuovo modello di Unione Europea. A quali condizioni – non solo endogene, interne all’Unione stessa, ma nel quadro geopolitico più generale (prossime elezioni americane, rapporti USA/Cina, rapporti fra Nord e Sud del mondo) – un tale modello potrebbe venire alla luce invece di soccombere?
La questione geopolitica è la più difficile. Molto dipende dall’esito delle prossime elezioni americane. Una riconferma di Trump aumenterebbe il divario che si è andato stabilendo tra gli Stati Uniti e l’Europa. Un divario che è gravido di conseguenze per la stessa identità europea, costruitasi sulla base del sostegno (certo non disinteressato) economico, politico, militare e culturale dell’alleato americano. Non ci sarebbe l’Unione europea senza l’America: è un punto che gli europei tendono a rimuovere. Ne consegue che l’allontanamento progressivo dell’alleato ha precipitato l’Europa in una vera e propria crisi esistenziale. C’è la questione militare (la Nato; l’attività di singoli stati come la Francia in Africa e in Medio Oriente; l’incapacità dell’Europa unita di darsi non solo una difesa comune, ma anche obiettivi militari comuni; l’incapacità di impedire l’ingresso nel teatro mediterraneo della Russia e il ritorno aggressivo della Turchia; eccetera eccetera). C’è la questione di un maggiore coordinamento delle politiche, che appare sempre più necessario, anzitutto sul piano fiscale. La tremenda esperienza della pandemia sembra in effetti avere indicato la necessità di una “più stretta unione”, ma nello stesso tempo ha evidenziato come tutti gli stati si siano mossi a modo loro, senza coordinamento. Quando la sicurezza entra prepotentemente in campo, la funzione primaria dello stato si conferma. E si conferma che gli stati esistono ancora, che sono al momento gli unici possibili soggetti democratici, e che la costruzione di una Unione più stretta non può scavalcare gli stati, ma deve portarli a condividere politiche e progetti. Questo sembra oggi possibile, anche per la lungimiranza di leader come Merkel e Macon che riescono (quasi sempre) a mediare il loro interesse nazionale con l’interesse comune degli europei. Anche l’Italia, spinta dalla necessità, ha preso questa strada. Ci sono mille difficoltà e ostacoli, soprattutto da parte dei paesi sovranisti, ma questa è probabilmente l’occasione per l’Europa di fare un deciso passo avanti e di trovare finalmente il suo posto nel mondo. Se sarà il parto di una nuova Europa, è presto per dirlo.
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