Fisiatra, docente universitario alla Sapienza e primario ospedaliero, segretario nazionale dell’ Associazione Medici Cattolici Italiani, il prof. Saraceni vanta anche una diretta esperienza nel campo della politica essendo stato consigliere regionale e assessore alla sanità nella Regione Lazio.
Con l’elezione dei Consigli Regionali che si tenne il 7 ed 8 giugno 1970 le Regioni entrarono nelle storia istituzionale italiana, provvedendo subito alla propria fase costituente con l’approvazione degli Statuti. Sono passati 50 anni: tempi di bilanci:
Quali le motivazioni delle forze politiche che votarono a favore? Quali le preoccupazioni? Ricordo il giudizio di Ugo La Malfa “ «Abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina»
Premetto che il dibattito sul regionalismo si è aperto in Italia subito dopo l’Unificazione ed è stato caratterizzato, da subito, da un duplice contrapposto punto di vista.
Da un lato vi erano gli assertori di un assetto federale dello Stato (tra essi si ricordano Gioberti e Cattaneo)- nel rispetto ritenuto indispensabile delle peculiarità culturali, economiche, sociali ed istituzionali presenti nel paese ed ereditate dai numerosi Stati preunitari – allo scopo di coinvolgere il più intensamente possibile la grande maggioranza delle popolazioni italiche notoriamente del tutto estranee al processo risorgimentale che sboccò nell’unificazione del paese, appannaggio dell’aristocrazia e, soprattutto, della borghesia nonché dei ceti intellettuali.
Dall’altro lato, si collocavano i sostenitori dello Stato centralista i quali reputavano essenziale la conferma dell’accentramento dei poteri di governo in quanto lo consideravano l’unico sistema istituzionale atto a garantire il rafforzamento dell’ancora fragile realtà istituzionale unitaria sottoposta agli attacchi dovuti ai sotterranei maneggi di alcune Potenze europee (Austria-Ungheria e Francia) nonché alla profonda contestazione di fette consistenti della popolazione che nel Sud assumevano i caratteri della lotta armata generata dal fenomeno del brigantaggio. Ebbene proprio in riferimento all’esigenza di fornire una efficace risposta all’anzidetto problema del brigantaggio prevalse la linea di pensiero favorevole a confermare e garantire una struttura amministrativa e di governo centralistica, sul modello francese.
Si soggiunge che il favore accordato dalla classe dirigente politica e/o socio-culturale al centralismo dipendeva anche dalla circostanza che, attraverso lo Stato centralista e dirigista, pareva agli alti ceti sociali imporre una strutturazione sociale e condizioni produttive ispirate ai principi della Rivoluzione francese, principi innovativi sul piano delle libertà individuali ma funzionali ad un assetto produttivo riflettente gli equilibri del nascente capitalismo.
Per contro, le peculiarità autonomiste venivano sovente identificate con una configurazione istituzionale propria di uno Stato policentrico secondo i principi monarchici dell’Antico Regime soprattutto in riferimento al sistema doganale e dei dazi nonché alla sopravvivenza dei potentati gentilizi che più facilmente potevano utilizzare l’influenza goduta per imporre la propria volontà egemone sulle amministrazioni locali.
Detto questo, occorre sottolineare che le forze rappresentative del cattolicesimo politicamente militante, sempre collocate su posizioni moderate e di centro (prima Partito Popolare, poi Democrazia Cristiana) si sono sempre schierate in favore dell’autonomismo in generale e del regionalismo in particolare mentre socialisti e comunisti –partiti che in Italia erano concordi su di una linea politica massimalista di contestazione radicale del sistema socioeconomico –auspicavano il mantenimento dello Stato centralista risorgimentale proprio perché quest’ultimo era giudicato più idoneo a favorire la trasformazione sociale in senso rivoluzionario del paese.
La Costituzione repubblicana finì per accogliere il regionalismo sia per garantire la presenza di una amministrazione più vicina ai cittadini introducendo il principio di sussidiarietà che persegue l’obiettivo della maggiore democratizzazione del potere sia per rendere, attraverso la moltiplicazione dei livelli di governo, più difficoltosa ed improbabile, tenuto conto di quanto accaduto nella storia del secolo scorso, l’avvento di un governo totalitario e/o dittatoriale.
Teoricamente, il modello regionalista appare più adeguato per favorire l’auspicato processo di democratizzazione dell’amministrazione perché rende molto più incisivo il controllo degli elettori sugli eletti e sui governanti in quanto la loro azione politica va ad incidere su circoscrizioni molto meno estese dell’intero territorio nazionale e tale da essere più agevolmente conosciuta e valutata dal corpo elettorale cosicché si supponeva probabile, nel medio periodo, un miglioramento generale dei servizi erogati dall’amministrazione.
Sul piano pratico, però, il difetto maggiore della corrente regionalista consiste nel non aver tenuto conto della cultura politica dominante in Italia, cultura assai guastata dall’opportunismo dilagante.
In quest’ottica l’adesione al modello federalista od a quello centralista era ed è condizionato dagli esiti elettorali e dai calcoli dei partiti circa la possibilità di conquistare o meno una larga porzione di governi locali. Fu così che la DC regionalista ritardò fino a che gli fu possibile l’istituzione delle Regioni previste dalla Carta costituzionale soprattutto per suo merito, mentre il PCI, arroccato nell’Assemblea costituente su posizioni centraliste, si tramutò in convinto sostenitore del regionalismo che gli garantiva l’accesso al governo ed alla produzione normativa “dalle porte di Milano alle porte di Roma”, come asserito dal Segretario del PLI, rigoroso oppositore del regionalismo.
La regionalizzazione della sanità ha portato potere e risorse grandi alle regioni (la spesa per la sanità è l’80% dei bilanci): l’esperienza ad oggi cosa ci dice? E’ stato un boccone avvelenato che ha accentuato le differenze nella tutela della salute a livello territoriale? Ha indebolito il principio di solidarietà tra regioni in situazioni di emergenza come quella del tutela virus? Bisogna cambiare, ma come?
La regionalizzazione pressoché integrale della sanità pubblica appare, alla luce dei tragici eventi dovuti alla pandemia del corona virus, del tutto inadeguata a fronteggiare un’emergenza di dimensioni mondiali e di incidenza catastrofica ove si pensi, per esempio, che Milano ha avuto in tre settimane di corona virus un maggior numero di decessi rispetto a quelli registrati in cinque anni di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Si è soprattutto constatata la deficienza nel coordinamento delle iniziative regionali rispetto agli interventi dello Stato, una mancata armonizzazione delle misure operative e di quelle normative intraprese tanto dalle Regioni quanto dallo Stato nonché la grave difficoltà di approvvigionamento degli strumenti sanitari necessari per fronteggiare la terribile epidemia. Si soggiunge che l’ordine sparso con cui le Regioni hanno affrontato il problema del reperimento delle attrezzature indispensabili per erogare la terapia e, nel contempo, assicurare la salute del personale e dei pazienti ha determinato tanto criticità nella disponibilità dei mezzi quanto prezzi meno vantaggiosi per questi strumenti. Ulteriore aggravamento della situazione è dato dalla disarmonia degli interventi posti in essere tra le stesse Regioni, poco propense ad instaurare un costruttivo dialogo tra di loro, con ulteriore difficoltà ad assumere, da parte dello Stato, tutte le iniziative utili in quanto per molti settori la competenza è demandata in via esclusiva alle Regioni. Tra l’altro, a parte la drammatica vicenda della pandemia, questa vicenda ha evidenziato la fondata sussistenza di timori in ordine alla grave carenza degli eventuali interventi posti in essere dalle Regioni e dagli Enti locali sul piano sanitario nonché, sotto il profilo della salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza, la deficienza dei supporti adottabili dalle Regioni e dagli Enti locali, atteso che il personale competente ad assicurare il rispetto di tali essenziali beni (Forze dell’ordine, Vigili del fuoco e militari) è nella esclusiva disponibilità dello Stato. In conseguenza di ciò occorrerà radicalmente rivedere le normative e gli assetti deputati all’erogazione di siffatti basilari servizi prevedendo la competenza dello Stato ed un suo ruolo di coordinatore e garante di qualsivoglia iniziativa.
Il divario nord – sud si è accresciuto in questi anni: crescita debole al sud, più alta disoccupazione precarietà, ripresa dei flussi migratori più accentuati tra i laureati, sempre più aree sono sotto il controllo della criminalità organizzata: c’è un filo di speranza per una inversione di tendenza? La società civile può imporre una correzione di rotta oppure è una partita persa?
Come già accennato il divario tra Nord e Sud del paese si è accentuato. Ciò è dovuto, in larga misura, a causa di tre fattori.
Il primo è dato dalla formazione, in gran parte umanistica e classicheggiante, delle classi dirigenti meridionali e dalla conseguente scarsezza delle risorse imprenditoriali rispetto al notevole patrimonio umano offerto dal Sud ma indirizzato in prevalenza ad abbracciare le professioni liberali ovvero ad inserirsi nella pubblica amministrazione privilegiando, per ciò stesso, un’ottica di conservazione e di staticità nella quale si alimenta la diffidenza per l’innovazione.
Il secondo fattore risulta scaturito dalle radici culturali del Meridione in larga misura sagomate sulla base dell’esperienza storica vissuta da quelle terre con una articolazione della società costituita dalla sussistenza di una classe aristocratica latifondista, da un fragile substrato di borghesia peraltro indirizzata, più che in attività mercantili, imprenditoriali o bancarie, verso sbocchi professionali e compiti burocratici e da un vasto ceto popolare costituito in prevalenza da contadini. Questa articolazione sociale ha provocato, altresì, la quasi totale assenza dell’esperienza storica libero-comunale, propria del centronord dell’Italia, e la tenace sussistenza di rapporti sociali modulati sulle clientele, secondo una impalcatura della società fortemente repressiva ed autoritaria oltre che acutamente sperequativa sul piano delle condizioni di vita. A fronte di tali fenomeni si è andata via via accrescendo la soffocante ipoteca rappresentata dalla delinquenza organizzata.
Rispetto a questa realtà problematica il Sud potrà emanciparsi solo quando riuscirà ad esprimere una classe dirigente affrancata dai condizionamenti storici e coadiuvata dall’incisiva iniziativa dello Stato e dei suoi apparati. Da ciò si deduce come sia essenziale stabilire, per il Mezzogiorno, una scala di priorità che veda concentrati la maggior parte degli sforzi di supporto posti in essere dal Governo centrale a beneficio del Sud verso la questione educativo-formativa senza limitarsi, in tal modo, all’erogazione di risorse economiche pure importanti ma non esclusive. Appare, pertanto, poco contestabile che, allo stato delle cose, il regionalismo risulti essere non già il veicolo per il rafforzamento e consolidamento del processo di democratizzazione del potere ma bensì lo strumento funzionale alla implementazione degli effetti distorsivi del clientelismo che ha di recente inquinato, con il suo malaffare, anche parte delle amministrazioni territoriali del Centro.Nord con ripercussioni sulla economia italiana rispetto ai sistemi produttivi stranieri proprio per la presenza di siffatte ipoteche.
Se a fine 2019 la discussione era centrata sul conflitto per la autonomia rafforzata si è passati oggi, in virtù del gravissimo impatto della pandemia, alla condanna senza appello delle regioni sic e simpliciter. le regioni possono ancora servire per rendere migliore l’Italia, per garantire il futuro dei suoi giovani? E se sì, quali nodi essenziali si devono affrontare?
Occorre, purtroppo, registrare come il dibattito sul regionalismo risulti fortemente inadeguato a causa soprattutto del carente operato delle forze politiche tendenti ad assumere atteggiamenti differenti e talora palesemente contraddittori a seconda delle contingenti situazioni determinatesi nel paese e ad intraprendere soluzioni con frettolosità allarmante e del tutto controproducente. Questo è il quadro attuale originato dalla sciagurata riforma del Titolo Quinto della Costituzione, intervenuta nel 2001 ad opera del centrosinistra, con la quale si è stabilita l’aberrante equiordinazione delle Regioni, delle Province e dei Comuni con lo Stato configurato, al pari degli altri enti territoriali, quale mera componente della Repubblica anziché come entità coincidente con la medesima e, quindi, sovraordinata rispetto al sistema delle autonomie.
Per la verità non possono sussistere preclusioni pregiudiziali rispetto all’introduzione del regionalismo che permane nell’orientamento politico dei cattolici purché si rispettino alcune condizioni.
La prima consiste nel procedere ad una coordinata revisione degli ambiti territoriali ed, eventualmente, del numero delle autonomie sulla base di una dimensione ottimale, rendendo queste ultime, così, in grado di offrire un servizio adeguato ai cittadini in riferimento alle rispettive competenze. Si tratta di una condizione delicata ed onerosa ove si pensi che il territorio regionale risulta definito secondo quegli stessi ambiti territoriali, a suo tempo individuati dopo l’unificazione italiana ai meri fini statistici e senza nessun approfondimento circa l’omogeneità economica, culturale ed orografica degli ambiti territoriali regionali. Analogamente per le Province, come, ad esempio, quella di Monza e della Brianza la quale paradossalmente insiste con una parte del suo territorio nella conurbazione milanese.
La seconda condizione è costituita dal ripristino dei controlli di legittimità nei confronti degli atti emanati dalle autonomie tanto per assicurare una più corretta gestione delle funzioni di governo quanto per evitare l’abnorme accrescimento delle controversie proposte ai tribunali amministrativi regionali nonché la impropria proliferazione delle inchieste e dei processi penali che attualmente costituiscono l’unico strumento di contestazione e di controllo delle minoranze rispetto all’operato della maggioranza.
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