Nate per ridurre le differenze fra le varie parti d’Italia le Regioni sembrano aver fallito il loro scopo. L’opinione di Nicola Cariglia, giornalista, direttore di PensaLibero.it, presidente della Fondazione Turati, già direttore Rai e vicesindaco di Firenze.
Quali le motivazioni delle forze politiche che votarono a favore? Quali le preoccupazioni? Ricordo il giudizio di Ugo La Malfa “ «Abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina»
Ero all’epoca delle prime elezioni per le Regioni a statuto ordinario, abbastanza giovane, ma credo di ricordare piuttosto bene che l’“anelito” al decentramento regionale era, tutto sommato, circoscritto al circuito autoreferenziale della classe politica. Ma nemmeno gli iscritti: piuttosto la nomenclatura. E a livello politico, indubbiamente, i protagonisti del dibattito furono i due partiti maggiori. Il PCI percepito come fattore di spinta del processo di regionalizzazione; la DC come fattore frenante. E’ vero che dentro e tra i partiti si parlava di decentramento. Ma il dibattito nemmeno riusciva a penetrare per quella che doveva essere la domanda più importante: decentramento solo amministrativo o decentramento legislativo? Scarso fu il contributo dei partiti intermedi, di centrosinistra o di centrodestra. I quali, però esercitarono un grande peso nella fase cosiddetta costituente: quella che condusse agli Statuti ed al braccio di ferro con lo Stato per il trasferimento delle funzioni e dei poteri. Il presidente delle Toscana, Lelio Lagorio, indubbiamente esercitò un ruolo a livello nazionale che andò ben oltre alla forza del suo partito, il PSI.
La regionalizzazione della sanità ha portato potere e risorse grandi alle regioni (la spesa per la sanità è l’80% dei bilanci): l’esperienza ad oggi cosa ci dice? E’ stato un boccone avvelenato che ha accentuato le differenze nella tutela della salute a livello territoriale? Ha indebolito il principio di solidarietà tra regioni in situazioni di emergenza come quella della tutela dal virus? Bisogna cambiare, ma come?
Credo che proprio questo sia il nodo centrale della questione. La sanità pesa come un macigno sulle Regioni. Assorbe non solo l’80% delle spese ma anche la maggior parte delle energie. Si può dire che le Regioni sono avvertite nei territori più per la rete dei presidi sanitari che per la rete stradale e per le iniziative in campo economico. Sembrerebbe opportuno alleggerire il peso. La pandemia che stiamo attraversando ci fa sentire che la sanità ha molto più bisogno di efficienza che di democrazia. Ma ci dice anche che gli ospedali, anche se efficienti, non sono sufficienti. Gli esperti ci dicono oggi che il Covid19 ha mietuto tante vittime perché i pazienti non hanno avuto assistenza e filtro nella fase della medicina di territorio. E dunque la soluzione potrebbe essere una redistribuzione delle funzioni. Tipo quella indicata dal prof. Petretto in un articolo pubblicato su SoloRiformisti: “ripensare il modello di organizzazione del Servizio sanitario nazionale prevedendo la centralizzazione della competenza, con un sistema di strutture periferiche non elettive, tipo le District Health authorities britanniche, per garantire la diffusione dei servizi sul territorio e attribuire, sfruttando le procedure di regionalismo asimmetrico, la competenza regionale solo per alcune macro-Regioni che ne facessero argomentata richiesta”.
Il divario nord – sud si è accresciuto in questi anni: crescita debole al sud, più alta disoccupazione precarietà, ripresa dei flussi migratori più accentuati tra i laureati, sempre più aree sono sotto il controllo della criminalità organizzata: c’è un filo di speranza per una inversione di tendenza? La società civile può imporre una correzione di rotta oppure è una partita persa?
La questione del sud non sarà mai risolta fino a quando non ci si renderà conto che non esiste. Perché la divisione in due aree tanto differenti dell’Italia è la prima e la maggiore questione nazionale. Dunque, la questione del sud è la Questione Italia. Una ben studiata autonomia differenziata può forse aiutare a stimolare energie “endogene” nelle regioni del sud che, peraltro, hanno già tratti di grande diversità fra loro. Ma la condizione è che prima ancora sia lo Stato a riformarsi, diventando interlocutore autorevole e riconosciutamente primario di tutte le Regioni.
Se a fine 2019 la discussione era centrata sul conflitto per la autonomia rafforzata si è passati oggi, in virtù del gravissimo impatto della pandemia, alla condanna senza appello delle regioni sic e simpliciter. le regioni possono ancora servire per rendere migliore l’Italia, per garantire il futuro dei suoi giovani? E se sì, quali nodi essenziali si devono affrontare?
Nonostante tutto, si. Correggendo vecchi errori e facendo finalmente ciò di cui si parla dall’inizio della nostra repubblica e che mai è stato fatto. Prima ancora di dare vita alle Regioni, era necessario portare a compimento una vera e profonda riforma della pubblica amministrazione. Invece si pensò, dopo moltissimi anni, a quella orribile riforma del titolo V della Costituzione che ha solo prodotto confusione e conflitti. Sarei terrorizzato se, per curare sprechi e inefficienze delle Regioni, si decidesse di restituirne allo Stato le competenze. Quando mai abbiamo avuto uno Stato centrale modello di efficienza e sintonia con i cittadini? C’è bisogno di ridisegnare organicamente e compiutamente tutto lo Stato italiano, nelle articolazioni centrali e territoriali. Lo potrebbe fare solo una bella Assemblea Costituente, eletta con voto proporzionale, che potrebbe lavorare parallelamente alle attuali Camere.
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