Luci e ombre nella vita delle Regioni. Sul tappeto ancora tanti problemi irrisolti. L’opinione di Carlo Fusaro, docente a contratto dell’Università di Firenze, Dipartimento Scienze Giuridiche, già esponente politico del PRI.
Quali le motivazioni delle forze politiche che votarono a favore? Quali le preoccupazioni? Ricordo il giudizio di Ugo La Malfa: «Abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina»
Non so a quale legge questa citazione di La Malfa si riferisse. E’ certo che i repubblicani furono alla Costituente fra i maggiori fautori del decentramento regionale e che votarono le leggi istitutive delle regioni, in particolare la legge elettorale 108/1968, approvata dal centro-sinistra e dalle opposizioni di sinistra, contrastata solo da Pli, Msi e quel che rimaneva dei monarchici. Non sopravvaluterei battute di Ugo La Malfa, che specie nella parte finale della sua vita divenne molto tranchant e molto pessimista. Basti pensare che il giorno del rapimento di Aldo Moro egli evocò la pena di morte: ma non per questo sarebbe lecito dire che La Malfa e il PRI fossero per la pena di morte! Allo stesso modo sappiamo che La Malfa fu un alfiere della programmazione e soprattutto della politica dei redditi e un nemico degli sprechi: per questo divenne critico delle regioni come si andavano attuando. Ma lo statista palermitano morì nel 1979 quando certo nessun bilancio del regionalismo era effettivamente possibile. In conclusione, non lo arruolerei fra gli anti-regionalisti ante litteram.
La regionalizzazione della sanità ha portato potere e risorse grandi alle regioni (la spesa per la sanità è l’80% dei bilanci): l’esperienza ad oggi cosa ci dice? E’ stato un boccone avvelenato che ha accentuato le differenze nella tutela della salute a livello territoriale? Ha indebolito il principio di solidarietà tra regioni in situazioni di emergenza come quella della tutela dal virus? Bisogna cambiare, ma come?
Non mi pare che l’esperienza regionale in materia di sanità sia particolarmente negativa. Anzi: ha permesso la sperimentazione di modelli parzialmente diversi, il che è positivo. Purtroppo credo che diversa efficienza dei sistemi sanitari nelle regioni del Sud rispetto al Centro-Nord non abbia a che fare col regionalismo, ma con differenze strutturali e culturali molto più profonde: legate a quel divario che in 160 anni si è riuscito solo ad attenuare. Anche nel fronteggiare l’epidemia di covid-19 nel 2020 aver potuto applicare modelli diversi è stato utile e ci sono regioni che han fatto benissimo o bene (Veneto, Emilia, Toscana, la stessa Campania). Ha fatto meno bene la Lombardia ma processi anticipati a parte occorrerà studiare bene e a freddo se il modello sanitario ha inciso o no e in che misura sulla capacià di risposta a un’epidemia esplosa all’improvviso.
Il divario nord – sud si è accresciuto in questi anni: crescita debole al sud, più alta disoccupazione precarietà, ripresa dei flussi migratori più accentuati tra i laureati, sempre più aree sono sotto il controllo della criminalità organizzata: c’è un filo di speranza per una inversione di tendenza? La società civile può imporre una correzione di rotta oppure è una partita persa?
Non sarei tanto negativo. Vi sono aree del Sud decorosamente governate e in discreto sviluppo, insieme ad altre che faticano ad assecondare lo sviluppo. Non c’è dubbio che mediamente le aree del Sud sono governate peggio di quelle del Centro-Nord. Io non ho mai creduto però che il centralismo sia la necessaria soluzione per affrontare il divario Nord-Sud, penso anzi l’opposto. Del resto l’Italia è stata saldamente centralista dal 1861 al 1970 e oltre, 110 anni di centralismo contro 50 di regionalismo: e non mi pare che l’esito sia stato molto diverso o anzi migliore (in termini di riduzione del divario).
Se a fine 2019 la discussione era centrata sul conflitto per la autonomia rafforzata si è passati oggi, in virtù del gravissimo impatto della pandemia, alla condanna senza appello delle regioni sic e simpliciter. Le regioni possono ancora servire per rendere migliore l’Italia, per garantire il futuro dei suoi giovani? E se sì, quali nodi essenziali si devono affrontare?
Chi ha letto le mie risposte sa già che non condivido affatto la “condanna senza appello delle regioni” (tanto meno “sic et sempliciter). Se c’è un paese al mondo che deve essere governato con ampio decentramento politico-amministrativo questo è l’Italia. Che di correzioni ed adeguamenti ci sia bisogno è peraltro pacifico: v’era la soluzione delineata dalla riforma del 2016 che a me pareva abbastanza convincente; purtroppo è stata cestinata a furor di popolo e di populismi. Credo molto nell’autonomia differenziata; sono contrario a qualsiasi centralizzazione. In ogni caso credo che le riforme prima di essere cambiate vadano attuate. Noi abbiamo una deplorevole tendenza all’agitazione permanente ansiogena aggravata dai social media e dal modo di far politica e informazione di questi anni: quindi cambiamo, spesso, senza cognizione di causa perché non abbiamo mai davvero fatto quel che, in precedenza, avevamo annunciato di fare (e quindi nn l’abbiamo sperimentato); abbiamo anche la tendenza a fare le riforme in maniera omeopatica, a metà. Non sono un esperto di regionalismo: ma so una cosa, che federalismo regionalismo et simili significano strutturalmente differenziazione (se no a che servono?). Questo – culturalmente – la società italiana non l’ha ancora capito o l’ha capito in minima parte a 50 anni dalla nascita delle regioni.
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