Con l’elezione dei Consigli Regionali del 7 ed 8 giugno 1970 le Regioni entrarono nella storia istituzionale italiana. Sono passati 50 anni è tempo di bilanci. L’opinione di Ugo Finetti, giornalista, direttore di Critica Sociale, già Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia
Quali le motivazioni delle forze politiche che votarono a favore? Quali le preoccupazioni? Ricordo il giudizio di Ugo La Malfa “ «Abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina».
La Malfa era contrario perché temeva che le Regioni avrebbero visto protagonisti i tre “partiti di massa” mentre i minori, come il Pri, rischiavano di essere irrilevanti. In verità nell’Assemblea Costituente le Regioni vennero sostenute richiamandosi proprio a Mazzini, Gobetti e Rosselli come “trasferimento della sovranità”. Togliatti era contrario e puntò al ridimensionamento dei poteri nel testo finale.
Il centrismo non le attuò e quindi Nenni le inserì già nel primo programma di centro-sinistra in quanto il pluralismo dei centri di potere politico era per il Psi fondamento della libertà. Su questo vi fu la convinta convergenza della sinistra democristiana. Anche il Pci divenne favorevole in quanto prevedeva un’occasione di “contropotere” verso il governo delle regioni “rosse”.
Le Regioni hanno effettivamente creato quel positivo pluralismo dei centri di potere, ma mentre i socialisti puntavano sul loro ruolo di programmazione e legiferazione, Dc e Pci – che ne assunsero dal 1970 le presidenze – convergevano nel farne centri di potere soprattutto gestionale. Determinante fu la seconda legislatura, 75-80, quando il Pci era nella maggioranza di governo e nelle “larghe intese” a livello regionale: si fecero ingenti trasferimenti dallo Stato alle Regioni (con incrementi del 40-50 per cento all’anno) a fini gestionali annacquando il ruolo di programmazione e di assemblea legislativa.
La regionalizzazione della sanità ha portato potere e risorse grandi alle regioni (la spesa per la sanità è l’80% dei bilanci): l’esperienza ad oggi cosa ci dice? E’ stato un boccone avvelenato che ha accentuato le differenze nella tutela della salute a livello territoriale? Ha indebolito il principio di solidarietà tra regioni in situazioni di emergenza come quella del tutela virus? Bisogna cambiare, ma come?
La riforma del SSN ideata e realizzata per impulso socialista – con i ministri Luigi Mariotti e Aldo Aniasi – si è rivelata una grande conquista per la tutela della salute degli italiani. Poi ci sono divari che dipendono dalle capacità degli amministratori e dalla professionalità degli operatori. Si critica la sanità lombarda, ma il dato di fatto è che per cure e chirurgia vi convergono da tutta Italia. Così come l’apertura ai privati si è concretizzata in istituti scientifici di alto livello come SSN per tutti gli italiani. Anche per il virus si dimentica che nella Regione si concentrano sia la maggior presenza di comunità cinesi sia il maggior interscambio economico Italia-Cina. Detto questo sono emerse gravi carenze. Soprattutto due. La prima è che il “modello lombardo” è diventato sempre più ospedalocentrico con sottovalutazione dei presidi sul territorio, della prevenzione e della medicina di base. La seconda è che non si è adeguatamente respinta la pressione di certo mondo imprenditoriale che, soprattutto nelle province di Bergamo e Brescia, ha ritardato il blocco delle attività.
Certamente il fatto di andare in ordine sparso e soprattutto con governo nazionale e amministratori locali che fanno campagna elettorale sul virus (e con il capo della protezione civile che afferma che le mascherine sono inutili e che poi diventano obbligatorie) è allarmante. Una riflessione critica su meriti ed errori da entrambe le parti andrà fatta. Il rapporto governo-regioni non può essere una Babele.
Il divario nord–sud si è accresciuto in questi anni: crescita debole al sud, più alta disoccupazione precarietà, ripresa dei flussi migratori più accentuati tra i laureati, sempre più aree sono sotto il controllo della criminalità organizzata: c’è un filo di speranza per una inversione di tendenza? La società civile può imporre una correzione di rotta oppure è una partita persa?
La criminalità cresce nella confusione e nella destabilizzazione dello Stato. Occorre stabilità e professionalità da parte dello Stato a cominciare dal Parlamento. Credo poco alla contrapposizione società civile-classe politica. Vi era quando l’elettorato era ideologizzato e irreggimentato in partiti secolari. Ma oggi la “società civile” sono innanzitutto elettori e i politici sono i loro prescelti. Nelle elezioni politiche del 2018, la “società civile” si è divertita a consegnare la maggioranza relativa di Camera e Senato a sconosciuti che si sapeva perfettamente che erano sprovveduti. Nel 2004-2005 per la pandemia di Sars-aviaria il Ministro della Salute era un esperto di immunologia che concordò immediatamente a Bruxelles una linea comune nel controllo dei flussi dalle aree a rischio (Cina e estremo oriente). Il Coronavirus è di ben altra potenza, ma mettersi nelle mani di chi di fronte alle emergenze non sa da dove cominciare non è stata un’ottima idea e non mette certo in difficoltà la criminalità organizzata.
Oggi in Parlamento prevalgono, in maggioranza e all’opposizione, forze dichiaratamente ostili alla democrazia liberale. Proprio nel dopo-Coronavirus occorre cercare una strategia di lungo termine, una alleanza e una rappresentanza politica con una visione nazionale, esperta e costruttiva e non affidare le redini a chi fa politica in modo inconcludente mascherando l’incompetenza con l’aggressività.
Se a fine 2019 la discussione era centrata sul conflitto per la autonomia rafforzata si è passati oggi, in virtù del gravissimo impatto della pandemia, alla condanna senza appello delle regioni sic e simpliciter. le regioni possono ancora servire per rendere migliore l’Italia, per garantire il futuro dei suoi giovani? E se sì, quali nodi essenziali si devono affrontare?
La polemica contro il regionalismo è sbagliata e, soprattutto, accentrare il SSN è una brama di potere centrale non condivisibile. È invece vero che le Regioni – come nel recente referendum – continuano a chiedere competenze gestionali in modo esagerato. Devono invece tornare a essere organi di programmazione e di legiferazione. Molti consigli regionali – a cominciare dalla Lombardia – hanno ridotto ai minimi termini l’attività legislativa e anche la figura del presidente come “governatore” si è rivelata un’altra esagerazione.
Le Regioni possono invece svolgere un ruolo importante come “ponte” tra governo e amministrazioni locali e anche di raccordo tra i comuni. Si tratta in campo nazionale di dar vita a una politica di competitivo ammodernamento infrastrutturale che ha bisogno della Regione per promuovere accordi tra i vari livelli istituzionali individuando priorità secondo programmi e strumenti legislativi adeguati.
Un compito immediato è quello di intervenire sul grave vuoto creato dalla eliminazione delle Province in vista delle Città metropolitane che poi non sono state attuate. Le Province erano in grado di tutelare i comuni minori di fronte al capoluogo. Oggi assistiamo a una politica di accentramento a cominciare da urbanistica e trasporti che vede chi abita fuori dalla città come cittadino di “serie B”. C’è il rischio della rottura di quel “patto sociale” tra la città e i comuni minori che garantiva eguaglianza di opportunità e di accesso.
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