Progresso tecnologico, innovazione e lavoro: quanti lavoratori rischiano di perdere il posto di lavoro in Italia? Se ci può fornire un inquadramento generale del tema
Il tema è importante per varie ragioni: innanzitutto perché è legato alla grande questione della crescente diseguaglianza, secondo me. Si discute tantissimo, in questi anni, del fatto che gli indicatori di diseguaglianza del reddito e della ricchezza siano cresciuti in gran parte dei paesi avanzati, e questo tema, secondo me, è legato in maniera rilevante al cambiamento tecnologico , di questo se ne parla un po’ meno ma è un nodo cruciale. Cioè, quello che osserviamo è che il cambiamento tecnologico legato alle tecnologie digitali – in senso lato, quindi dentro ci metto i computer, l’intelligenza artificiale, i big data e così via, grappolo di innovazioni digitali.
Questo cambiamento tecnologico, a differenza di cambiamenti tecnologici precedenti, ha la caratteristica che, da una parte, premia le persone con le giuste competenze – e tendenzialmente sono persone a maggior capitale umano – quindi esiste una fascia del mercato del lavoro che trae beneficio da questo cambiamento tecnologico in termini di maggiore opportunità di lavoro e di retribuzioni. La cosa interessante è che paradossalmente esiste quella che viene chiamata polarizzazione, cioè, da una parte ci sono queste persone che traggono beneficio in termini di remunerazione e di opportunità di lavoro, ma esiste anche una parte di persone, di lavoratori a minor “skill” che sono, anche loro, in parte protetti dal cambiamento tecnologico, penso a tutta una serie di lavori, diciamo a minor remunerazione, che però al momento non sono sostituibili da parte delle macchine. E quello che sta avvenendo, sostanzialmente, è che si stanno distruggendo tantissimi posti di lavoro per gli “skill” intermedi, con qualificazioni intermedie. Per questo si parla di “polarizzazione”. Cioè, da una parte abbiamo, i vincitori che sono quelli, come ho detto, a maggior istruzione, maggiori competenze. dall’altra parte una quota di lavoratori a minore qualificazione mentre la fascia più colpita è la fascia intermedia che sono le persone a media qualificazione che fanno una serie di lavori che via via vengono rimpiazzati dalle macchine.Per fare degli esempi: da una parte abbiamo gli ingegneri, gli informatici e le persone a maggior istruzione; dall’altra abbiamo, che ne so, chi lavora nei fast food, chi lavora come delivery e tutta una serie di altri lavori a bassa qualificazione. Chi è più colpito sono le qualificazioni intermedie. Questo implica che, di fatto, si ha una maggiore ineguaglianza nelle remunerazioni e questo ha un impatto complessivo sul grado diseguaglianza che c’è nei sistemi.
Perché spesso si sente parlare della “globalizzazione”, la globalizzazione è uno dei fenomeni che aumenta la diseguaglianza ma, a mio avviso, il cambiamento tecnologico è più importante, è il vero fattore che sta creando una forte polarizzazione e una forte diseguaglianza nelle remunerazioni, nelle opportunità di lavoro, nelle opportunità di carriera e così via.
In cosa si differenzia l’attuale fase di innovazione tecnologica dalle precedenti che hanno investito l’economia, la produzione ed il lavoro ?
Le precedenti ondate di cambiamento tecnologico in realtà premiavano le persone a minore qualificazione. Penso a tutto il periodo degli anni ’50, ’60 e ’70 nel quale le nuove tecnologie di fatto scomponevano le mansioni umane e rendevano possibile un’opportunità di lavoro per persone che di fatto avevano una bassa o bassissima qualificazione.
Quindi non è sempre stato così, non sempre il cambiamento tecnologico premia le persone a maggiore qualificazione: per fare un esempio famoso, storico: Ludd – i luddisti, no, vi ricordate? – ecco, Ludd era un operaio superqualificato. E lui si lamentava del fatto che l’introduzione delle macchine dopo la Rivoluzione industriale premiava le persone a minore qualificazione. Quindi lui era arrabbiato in quanto lui era un operaio qualificato e vedeva ridursi le sue opportunità. Quindi il Luddismo era fatto dalla aristocrazia operaia, dalle persone a maggiore qualificazione,
Il processo attuale è messo in atto da nuove tecnologie che hanno la caratteristica di richiedere, tendenzialmente, persone a maggiore qualificazione, cioè le macchine sono complementari, diciamo, a competenze medio-alte. Però per una serie di mansioni, è quello che stavo dicendo prima, si creano anche opportunità di lavoro nella fascia bassissima del mercato del lavoro. C’è questo processo in atto. E in generale c’è una questione di rischio di disoccupazione tecnologica.
Ma si riesce a stimare il rischio di disoccupazione tecnologica?
Il termine viene introdotto da Keynes in un famoso saggio sulle prospettive economiche dei nostri nipoti, e Keynes dice che c’è un nuovo fenomeno che è quello legato al fatto che l’avvento delle macchine sostanzialmente spiazza il lavoro umano per cui ci sarà una quota rilevante di persone che rischiano di perdere il lavoro. Keynes però aveva una visione abbastanza ottimistica, nel complesso, perché dice “bisogna tenere conto del fatto che il cambiamento tecnologico accresce la torta economica”. Quindi l’aumento della produttività consente di far crescere il PIL, il prodotto interno, e quindi risolviamo il problema economico perché avremo a disposizione maggiori risorse. Però poi non si occupa di come verrà redistribuito questo surplus generato dal cambiamento tecnologico. Io penso che sia una questione molto importante e, allora, quello che abbiamo cercato di fare è stimare qual è il rischio potenziale di disoccupazione.
E qui voglio mettere le mani avanti. Cioè sono stime teoriche potenziali, cioè ci si basa su una serie di studi che cercano di dire quali sono le funzioni, che finora erano umane e che possono essere svolte dalle macchine; e quindi quali sono o le occupazioni o le attività umane che sono a maggior rischio di sostituzione. Questo è un calcolo teorico, cioè: potenzialmente le macchine fanno una serie di attività, queste attività potrebbero essere destinate unicamente alle macchine. Ci sono due approcci per questa stima: uno che viene chiamato Occupation based, cioè ci si concentra sulle professioni e quindi di cerca di calcolare in quale misura certe professioni potrebbero essere sostituite dalle macchine. Questo approccio però ha un limite nel senso che non è necessariamente detto che una professione non comprenda attività automatizzabili: prendiamo l’avvocato che, linea teorica, secondo questo approccio, fa una professione che non potrebbe essere rimpiazzata dalle macchine. Ma nella sua professione, nella sua attività, l’avvocato fa una serie di mansioni, di task, che in realtà sono automatizzabili.
Il secondo approccio invece dice: non dobbiamo guardare alla categoria “occupazioni, professioni” ma ci dobbiamo concentrare sui task, cioè sulle mansioni che ciascuna persona, durante la propria giornata di lavoro, svolge. E quindi cercare di capire in che misura sono i task che vengono rimpiazzati, non necessariamente le professioni.
Questo secondo approccio, che è l’altro che abbiamo utilizzato, consente di fare altre stime. Nel lavoro che noi abbiamo pubblicato arriviamo a una forchetta di valori, circa 7 milioni di persone – se usiamo il metodo dell’occupazione – e invece circa 4 milioni di persone se usiamo questo approccio Task based. Queste sono stime teoriche. Cioè, non è detto che effettivamente verranno rimpiazzate 7 o 4 milioni. Perché? Perché ci sono tutta una serie di fattori – istituzionali, culturali, di costo, di caratteristiche della struttura produttiva italiana – che di fatto ritarderanno/ostacoleranno l’introduzione massiccia di queste macchine. Faccio un esempio: si tratta, a volte, di macchinari costosi – i robot e così via – e il sistema produttivo italiano è fatto di piccole imprese. Questo costo può essere, in alcuni casi, non sostenibile. Seconda considerazione: c’è una questione di tipo settoriale, cioè molte imprese italiane sono in settori apparentemente meno propensi a utilizzare queste macchine. E poi fattori di tipo culturale e così via. Quindi la stima teorica ci dice che utilizzando le metodologie usate negli Stati Uniti e in altri paesi, Occupation based e Task based, si potrebbe arrivare a una forchetta di valori di questo tipo, per i prossimi 10-15 anni.
Mi sembra di capire che, se si adotta un Task based approach il numero stimato teoricamente è più contenuto rispetto invece all’altro approccio però da questo punto di vista è più trasversale, quindi evidentemente riguarda più occupazione? E questo è un aspetto importante. La seconda domanda che le volevo fare è questa, come spunto di riflessione: noi parliamo di innovazione tecnologica, in generale. Però l’innovazione tecnologica ha diversi aspetti. Quindi da questo punto di vista sono innovazioni di diverso tipo – automazione di mansioni, per esempio, oppure applicazioni più complesse riferite per esempio all’Intelligenza artificiale (anche lì, deboli o forti, io ricordo che c’era anche questa distinzione: IA che mima il comportamento umano in ambiti ristretti di attività, e dall’altro invece un’IA che si espande cercando di imparare ad imparare da se stessa in qualche modo). Ecco, le proverei a chiedere, questi diversi gradi di innovazione, in che senso possono incidere in una realtà come quella italiana rispetto ad altre realtà nazionali come quelle dei paesi anglosassoni.
Intanto mi permetto di dire che, se confrontiamo questi risultati rispetto a quelli di altri paesi la cosa che sorprende è che la quota di lavoratori a rischio di automazione è più alta in Italia rispetto a questi altri paesi. Come si spiega? Questo si spiega con il fatto che noi siamo più indietro nell’adozione di queste tecnologie. Quindi l’onda d’urto, negli Stati Uniti e in altri paesi avanzati, è già arrivata, è stata già digerita, e quindi la quota residua di persone che sono a rischio di disoccupazione è più piccola perché loro hanno iniziato prima. Noi stiamo iniziando ora, c’è una diversità dovuta al grado di sviluppo: noi siamo più indietro quindi potenzialmente da noi l’onda d’urto deve ancora arrivare.
Su questa questione, la riflessione che andrebbe fatta è che, a fronte della distruzione dei posti di lavoro, gli economisti dicono, bisogna considerare anche il fatto che c’è una parte di creazione, cioè ci sono nuovi posti di lavoro. Cioè gli ottimisti, gli economisti neoclassici ottimisti, dicono “questo problema non si pone perché è vero che da una parte vengono distrutti posti di lavoro, ma dall’altra ci saranno nuove occupazioni” – pensiamo al passaggio dall’agricoltura all’industria, vengono distrutti posti di lavoro nell’agricoltura ma nasce l’industria e si creano nuovi posti di lavoro nell’industria. Ecco la questione anche qui è molto complessa. Ovviamente quella che mi fa preoccupare è che i nuovi prodotti e i nuovi servizi connessi con questo nuovo paradigma tecnologico sono in realtà ad alta automazione. E quindi i posti di lavoro che vengono creati per la produzione del tablet, dell’i.pod o di tutti i servizi con le piattaforme sono prodotti o servizi che richiedono pochissimo lavoro umano. Se noi prendiamo, che ne so, l’AT&T, la grande impresa delle comunicazioni americana, al culmine del suo sviluppo, aveva 800mila dipendenti, negli Stati Uniti; oppure, prendiamo la General Motors, la Toyota, la Fiat: se noi prendiamo i colossi, oggi, del paradigma digitale – tipo Google, Facebook, Apple, Amazon eccetera – hanno un numero di occupati che è molto più piccolo. Parliamo di 100mila occupati per Facebook; addirittura Whatsapp viene gestita da 50 persone, Twitter è gestita da 100 persone. Cioè, molte delle imprese che capitalizzano cifre enormi legate alle nuove tecnologie creano pochissimi posti di lavoro, e questo è uno dei dati preoccupanti. Ossia questi nuovi servizi e nuovi prodotti sono ad altissima automazione essi stessi, richiedono molte macchine. La preoccupazione mia è derivata dal fatto che è vero che c’è un processo di distruzione e di creazione, ma la parte di creazione mi sembra molto più piccola rispetto al passato. Questa è la prima considerazione da fare.
Seconda considerazione: il tipo di posti di lavoro che vengono creati, come dicevo prima, sono per lo più posti di lavoro ad altissima specializzazione e ad altissima qualificazione. certo, Amazon crea anche posti per i magazzinieri e per gli spedizionieri. Però gran parte di questi nuovi posti sono riservati alle elite del mercato del lavoro, a persone ad alta qualificazione.
In termini generali l’approccio che viene utilizzato è quello di dire: le attività umane che possono essere rimpiazzate sono le attività routinarie, quelle più ripetitive. E quindi queste attività vengono decodificate, tradotte in prescrizioni, in algoritmi, e il computer, la macchina, svolge quelle funzioni. Prendiamo il bancomat. Prendi le banconote, lui digita un numero e distribuisci le banconote. Questo è il metodo che gli economisti hanno usato per dire “questo task è automatizzabile, quest’altro no”. Quanto più il task è ripetitivo e routinario tanto più è a rischio di sostituzione. Quanto più un task comporta capacità di problem solving, intelligenza relazionale, quindi necessità di parlare con le altre persone, creatività, utilizzo di considerazioni di tipo estetico o di gusto – prendiamo il cuoco, il cuoco è una persona che deve avere la capacità di capire se un alimento è gradevole al palato umano, le macchine ancora non lo sanno fare. Questa distinzione ci consente di dire che certe attività sono a maggior rischio e certe meno.
Questo ragionamento però, negli anni recenti, mi sembra un po’ vecchio. In che senso? Nel senso che l’IA ci fa vedere che queste macchine “intelligenti” non necessariamente copiano il comportamento degli uomini ma seguono delle logiche completamente diverse dalla logica del cervello umano. Faccio alcuni esempi. L’Università di Stanford ha messo a punto, di recente, un sistema per la diagnostica del tumore alla pelle. Sostanzialmente queste macchine sono perfettamente in grado di stabilire se un neo è cancerogeno o no. Come fa? Fanno riferimento ai mega archivi di foto in cui ci sono centinaia di migliaia di foto di nei di persone e, nel giro di pochi secondi confronta la foto del neo in questione con questo mega archivio di foto. E questo metodo pare abbia una affidabilità del 94%. Nessun dermatologo fa una cosa del genere. Nessun dermatologo sarebbe in grado di confrontare un neo specifico con 700mila foto di nei, lui si baserà su intuizione, esperienza, molto più limitata e personale. Questo metodo di sviluppo dell’intelligenza artificiale si applica a tantissimi settori e si basa sulla capacità di processare informazione e su big data, che sono oggi disponibili. Questo processo a me personalmente preoccupa perché “moltissime delle attività e delle funzioni che noi oggi pensiamo siano esclusivo dominio degli uomini stanno diventando attività che possono essere rimpiazzate da macchine intelligenti”. Quindi la distinzione tra routine e non routine è vecchia. Non è più così che funziona.
È estremamente interessante quello che dice. Mi chiedevo: in lavori o professioni come quelli del sociale, quindi il servizio alla persona, i cosidetti “beni relazionali” cosa succede?
Quello è intelligenza relazionale, è la capacità di empatia, di relazione con le persone quindi io stesso, in quel lavoro, dico che in quei settori ci sarà creazione di posti di lavoro anche perché c’è l’invecchiamento della popolazione, serviranno sempre più infermieri, badanti, psicologi e così via. Prendiamo il Giappone. Il Giappone è un paese che non consente l’immigrazione, per varie ragioni – anche perché pare che i giapponesi non sopportino gli stranieri – eppure è uno dei paesi a maggiore invecchiamento della popolazione. E infatti il Giappone sta sperimentando ormai da vari anni robot che si prendono cura degli anziani. Il Giappone è il paese più avanzato in questo e ci sono tantissimi esperimenti di robot con aspetto, diciamo umano, che si prendono cura come i badanti degli anziani. Cioè, siamo sicuri che l’intelligenza relazionale non possa essere un giorno trasferita alle macchine?
Ecco, la questione un po’ è questa. L’approccio fino a qualche anno fa era di utilizzare questa distinzione: tutti i task che non erano di tipo routinario erano protetti rispetto al rischio di automazione. Ma l’IA, come ha detto lei, e il Machine learning, la capacità della macchina di apprendere, ci stanno facendo imboccare una strada nella quale le macchine sanno fare cose ma partendo da un metodo diverso da quello umano. Quindi non è più routine o non routine ma è questa capacità incredibile delle macchine di utilizzare dati e capacità processuale.
Insomma, da una parte le nostre stime sono un primo tentativo di capire in Italia quale potrebbe essere il rischio – e, dico, è soltanto potenziale, non è detto che avvenga così. Seconda considerazione: a fronte di questi posti distrutti ci saranno posti creati. Però l’impressione che abbiamo in questo momento è che i prodotti e i servizi legati al digitale creano pochi posti di lavoro – certo, uno potrebbe dire, serviranno tutta una serie di professioni, di servizi soprattutto alla persona – l’insegnamento, l’accudimento degli anziani, l’accudimento dei bambini , potrebbe esserci uno sviluppo dei servizi di pulizia delle case, delle cose e così via. Questo è uin sintesi lo scenario.
Ora, che cosa accadrà è difficile da dirsi. C’è un famoso premio Nobel di Economia, Leontief, che tempo fa fece l’esempio dei cavalli: per secoli abbiamo utilizzato i cavalli e fino all’inizio del ‘900 c’erano milioni di cavalli che venivano utilizzati per il trasporto, nell’agricoltura e così via. Poi c’è l’avvento delle automobili , dei treni eccetera e nel giro di pochissimi anni i cavalli spariscono dall’utilizzo. E, essendoci questa enorme massa di cavalli, uno può immaginare che il costo di utilizzo dei cavalli fosse crollato. Quindi, se volessimo usare un termine… diciamo, il “salario” del cavallo era crollato. Eppure, se ci pensiamo, non sono mai più stati utilizzati, i cavalli. Anche se il costo di utilizzo è sceso a livelli bassissimi, non sono mai ridiventati utili o convenienti.
Allora mettiamola così: la preoccupazione è: potrebbe l’uomo fare la fine dei cavalli? Cioè potremmo arrivare a una società nella quale le macchine saranno in grado di svolgere tutte le funzioni e non tornerà mai più conveniente utilizzare il lavoro umano? -Certo, sto parlando di grandi numeri, di lavoro per migliaia e milioni di persone. Ci saranno sempre, forse, ingegneri eccetera – anche se, pure lì, in linea astratta ci potrebbe essere il momento nel quale le macchine intelligenti saranno in grado di progettare altre macchine. Quindi, in linea astratta, si potrebbe arrivare a uno scenario nel quale il lavoro umano non c’è più.
Come si fa fronte a tutto questo? La ricetta tradizionale era: si crea disoccupazione tecnologica lì dove c’è un problema di istruzione. Questo era un modo di porre la questione. Quindi si ha disoccupazione tecnologica se c’è un disallineamento tra il sistema formativo e il paradigma tecnologico diffuso. Quindi la ricetta è: studiate, studiate, studiate, oltre che formare, riqualificate. Quello che ho detto ora, però, ci fa pensare che non necessariamente oggi la strada sia quella. Cioè, paradossalmente in questo momento ci sono lavori, come ho detto all’inizio che sono a bassa qualificazione ma che non vengono svolti dalle macchine – pensiamo, che ne so, al cameriere, al barbiere, al cuoco, all’idraulico e così via – e ci sono invece già macchine che fanno diagnosi mediche. Negli Stati Uniti ci sono programmi che scrivono contratti al posto degli avvocati o che fanno documenti di tipo burocratico e così via. Quindi, la cosa è molto preoccupante, perché la ricetta non necessariamente è soltanto quella di dire “studiate, studiate, studiate” perché in prospettiva ci sono anche attività ad alta qualificazione che potrebbero essere rimpiazzate dalle macchine. Detto tutto questo, è importante che ci si rifletta. Ci si rifletta in termini di sistema formativo, sicuramente, cercando di capire se è vero che servono competenze relazionali, competenze di creatività, competenze di problem solving e anche competenze tecniche, sarebbe importante che i sistemi formativi cercassero di fornire ai ragazzi, agli studenti questo tipo di competenze. Che sono quelle che al momento sono tipicamente umane, o sono maggiormente umane.
C’è un problema poi di riqualificazione perché nel processo di distruzione e di creazione ci saranno delle persone in specifico che vengono colpite e bisogna ragionare sulla possibilità di reimpiego di queste persone. Anche qui gli economisti la fanno facile – io pure sono economista, eh! – e dicono “vabbè, si spostano le persone da un settore a un altro”. Giavazzi è uno che dice così, dice “Ma che problema c’è? Si distrugge da una parte e si creano posti dall’altra”. La questione da capire è se le specifiche persone che vengono espulse dal settore manifatturiero, poi possano essere reimpiegate magari nei servizi in un altro settore. Prima considerazione. Seconda: non è detto che i nuovi posti di lavoro vengano creati in maniera uniforme sul territorio. Quello che si riscontra è che ci sono fenomeni di agglomerazione. Ci sono aree dove si creano questi nuovi posti e aree dove questi nuovi posti non ci sono. Quindi, diciamo, non è banale la transizione da un modello all’altro. Come facciamo? Come si gestisce tutto questo? Forse c’è anche un problema di orari, di orari di lavoro. Cioè, se effettivamente c’è un rischio crescente di disoccupazione tecnologica bisognerebbe ragionare anche su ripartire l’orario in una maniera diversa.
Posso fare due domande dirette? Lei preconizza, o paventa, l’ipotesi di una fine del lavoro? C’è chi sostiene che siamo ormai in un’epoca in cui il lavoro è destinato a sparire o comunque sostituito, integrato, supportato dalle nuove tecnologie. Questa è una prima questione, ripeto, o preconizza o paventa come questione empirica. La seconda domanda è questa: quali ricadute dal punto di vistadel welfare stateo comunque di tutta una serie di servizi che vengono pensati a sostegno delle persone in difficoltà? C’è una battuta attribuita a Bill Gates, “Bisognerebbe tassare i robot”. E dall’altra: come allora riscrivere il patto sociale che, in qualche modo, è pensato a sostegno delle persone in difficoltà.
Ovviamente, stiamo ragionando sul lungo termine. Forse nella nostra vita noi non lo vedremo, questo futuro, stiamo parlando del lungo termine. Nel lungo termine molti parlano del fatto che Age of labour, l’Età del lavoro, sia destinata a finire. Però diciamo, non sempre gli uomini hanno lavorato, lo sappiamo bene. Nei primi millenni l’Homo sapiens non faceva un lavoro, era raccoglitore-cacciatore ma non c’era il concetto di lavoro, il concetto di lavoro viene a un certo punto e qualcuno dice “è destinato a finire”. E quindi ci saranno solo le macchine che lavoreranno. Che succederà a quel punto? È abbastanza complicato da immaginare perché – qua mi ricollego anche alla seconda questione – il lavoro non è soltanto reddito. Il lavoro conferisce una funzione sociale, un riconoscimento sociale, e questo è molto importante, è importante almeno quanto il reddito. Quindi, le persone, negli ultimi almeno 300 anni, sono abituate ad avere una loro funzione, una loro utilità sociale, a essere inseriti in un sistema in cui si contribuisce a far crescere la torta. Privare le persone di lavoro, come sappiamo bene, significa privarle di uno status, di una funzione, di un riconoscimento. Questo è un aspetto sul quale bisogna ragionare. Perché uno potrebbe dire, ritornando a Keynes, le nuove tecnologie fanno crescere la produttività, le macchine consentiranno di far crescere il prodotto, e quindi basterà a un certo punto redistribuire questo prodotto. Come si fa? Con un reddito di cittadinanza generale. Però, dico, le persone che fanno? Cioè, senza tirar fuori Carlo Marx, però il lavoro ha una funzione sociale importante, di riconoscimento. E noi che facciamo? Non ho la risposta.
Riportando un attimo sulla dimensione economica, non è che l’Italia finisce in una sorta di – la chiamo così – di trappola del sottosviluppo tecnologico, subisce un impatto più consistente oggi, ma ha meno capacità di introdurre innovazione perché la struttura produttiva del Paese è fatta di piccole e piccolissime imprese, in determinati settori, e questo fa sì che si innesti un meccanismo che genera una crescita economica inferiore, e quindi, in un meccanismo cumulativo, il nostro Paese tende a veder ridurre la sua base produttiva, la sua ricchezza. Su questo le chiedo una valutazione. Il secondo punto è se in questo scenario la dinamica demografica che io considero negativa nelle valutazionidi primo impatto, in uno scenario di questo genere, di contrazione delle occupazioni possibili, non può essere, una sorta di medicina che ristabilisce un suo equilibrio in tempi più o meno lunghi tra domanda e offerta di lavoro, in uno scenario che non so se ci porterà alla piena presa di controllo da parte delle macchine… Che per altro il cinema ha anticipato: in “Odissea nello spazio” è Hal che prende il comando…
Sulla prima questione diciamo che è un tema molto dibattuto. Molti indicatori segnalano il fatto che l’Italia ha difficoltà sia nella generazione di nuova conoscenza tecnologica – penso agli investimenti in ricerca e sviluppo, ai brevetti e così via – sia nell’utilizzo di questa tecnologia. L’abbiamo detto prima. Quindi, siamo un Paese nel quale si produce meno innovazione e si ha anche difficoltà ad adottarla. Un indicatore preoccupante di questo è quella che gli economisti chiamano la Produttività totale dei fattori. La Produttività totale dei fattori è quell’indicatore che misura la capacità di generare nuova conoscenza e innovazione.
Ecco, negli ultimi anni addirittura quest’indicatore ha avuto un andamento negativo che è un evento rarissimo nella storia del paese. Di solito la produttività totale dei fattori na un andamento negativo nei periodi di guerra, durante i conflitti. In Italia, negli ultimi venti anni, ci sono stati vari momenti nei quali questa total factor productivity aveva un tasso di crescita negativo. Sembra quasi che avessimo disimparato ad utilizzare e a produrre tecnologia. C’è un problema di capacità del sistema di generare e di approfittarsi di queste tecnologie. Devo dire, però, che se noi prendiamo l’Europa nel suo complesso e prendiamo ad esempio la Germania, anche la Germania, sulle tecnologie digitali non mi pare sia leader. Se noi ragioniamo su nuovi prodotti, nuovi servizi legati a questa evoluzione tecnologica neanche i tedeschi ci sono. I tedeschi sono bravissimi nelle altre tecnologie più tradizionali, dall’automobile alla chimica, farmaceutica e così via, ma sono messi molto male su tutte le tecnologie digitali. E’ indicativo il fatto che parliamo di auto elettriche e non abbiamo le batterie per produrre queste auto elettriche, non ce le hanno neanche i tedeschi. I tedeschi adesso si svegliano e dicono … non c’è uno stabilimento in Europa che produca le batterie per le auto elettriche. Sono tutti in Cina, in Corea e Taiwan.
Apro una parentesi. Trovo che sia una follia che la Ue e molti paesi europei stiano incentivando e puntando sull’auto elettrica che è una tecnologia sul quale l’Europa è indietro. Adesso sì tutte le considerazioni sulla sostenibilità, sulle quali io ho opinioni anche controcorrente, perché se andiamo a misurare il ciclo di vita di queste auto elettrice forse scopriremo che sono più inquinanti delle auto a benzina. La follia che noi stiamo incentivando l’acquisto da parte dei consumatori di una tecnologia sulla quale noi non abbiamo il comando. E’ una tecnologia di cui il valore aggiunto è rappresentato per lo più dalla batteria e le batterie le fanno per l’85% in Cina, in Corea ed a Taiwan e noi stiamo smantellando le auto a combustione nelle quali abbiamo un discreto vantaggio. “Noi” intendo Europa, Italia, Germania e così via. Su questa questione dell’Italia sì, noi siamo messi male però complessivamente c’è un problema europeo secondo me. Non c’è una piattaforma di quelle globali che sia stata concepita e costruita in Europa, non c’è un solo prodotto di quelli nuovi che è stato costruito e concepito in Europa. Non ce ne è uno. Noi siamo ancora con le automobili, le motociclette, le biciclette, i vestiti e quello che volete voi, ma nella rivoluzione digitale l’Europa non tocca palla, quindi non siamo solo noi.
Seconda questione: invecchiamento. Sì, effettivamente uno potrebbe dire che l’invecchiamento della popolazione paradossalmente crea meno ansia perché, se ci sono meno posti di lavoro, il fatto che ci sia un invecchiamento lavorativo potrebbe rassicurarci. Il problema è che quello crea tutta una serie di altre questioni, cioè questioni di finanza pubblica, sanità ma anche di innovazione, diciamo la verità. Un paese di anziani tendenzialmente non innova. Uno potrebbe immaginare che l’Europa diventi una specie di grande Florida, un posto in cui si va a fare le vacanze, ci sono tutti gli anziani, parchi giochi e di divertimento e rinunciamo a competere con i grandi: cinesi, giapponesi e americani sul fronte della produzione tecnologica. Che tipo di lavori, che tipo di funzioni si creano in questo ecosistema? Torno alla polarizzazione del mercato del lavoro. Esiste una categoria di persone che sono avvantaggiate, persone ad alta qualificazione, persone che sono, come dire, “complementari” alle tecnologie. Quindi, insieme alle tecnologie, ottengono salari più alti e occasioni di lavoro. Dall’altro lato si creano tanti posti di lavoro per, scusatemi il termine, “servitori” di questa classe. Penso ai giovani che con il motorino ti portano a casa da mangiare, ai camerieri… Il paradosso è che si rischia è di una polarizzazione tra una ristretta fascia di persone ad altissima opportunità e tutta una serie di persone che lavorano in servizi di cura di queste persone ricche. Dove per “cura” noi potremmo scoprire che torneranno in campo istruttori a domicilio, le baby sitter, le badanti e così via. Questo è un altro elemento da tener presente. L’evoluzione sembra indicarci cose di questo genere. Non è una legge di natura, non detto che le cose andranno così. Magari sarò smentito e nei prossimi anni usciranno fuori dei nuovi prodotti che genereranno nuovi posti di lavoro, nuovi investimenti.
Qui entra in gioco la globalizzazione. Prodotti che non si faranno probabilmente in Italia o in Europa, ma nel mondo..
Giorgio Ruffolo, che sicuramente conoscete, scrisse tanti anni fa un libro che si intitolava “La qualità sociale”. Giorgio Ruffolo già preconizzava questo tipo di cose e diceva che servirebbe puntare sulla qualità sociale dello sviluppo e quindi su tutta una serie di attività come la cura dell’ambiente, la cura delle persone, la formazione, la sanità etc che il mercato fornisce forse in maniera non sufficiente e che potrebbero generare occasioni di lavoro. Sicuramente ci sarebbe spazio per politiche di ripensamento per welfare, delle politiche sociali e dell’ambiente che potrebbero dar luogo a posti di lavoro che, al momento, vengono svolti dagli esseri umani.
Lei ad un certo punto parlava di reddito di cittadinanza in qualche modo riferito al problema del lavoro come attività che dà identità sociale, identità personale e che in questo momento è soggetto a trasformazione e quindi il tema della distribuzione della ricchezza dovuta soprattutto alle macchine. Le volevo chiedere: è quello un tipo di soluzione oppure no? E’ una riflessione piuttosto teorica perché poi bisogna vedere come si evolvono le cose, ma andiamo incontro al diritto al reddito? Uso questa ipotesi che lei delinea, tipica per esempio di Grillo a suo tempo, oppure dobbiamo pensare ancora al lavoro come il modo principale di inclusione nei circuiti della cittadinanza? e che tipo di lavoro quindi?
Sempre parlando su lungo termine, queste innovazioni tecnologiche ci fanno immaginare che forse già oggi la questione economica, intesa come scarsità del prodotto, sia risolto. Cioè saremo in grado di avere già oggi un prodotto che è sufficiente per tutti, se venisse distribuito nella maniera giusta. E’ immaginabile uno scenario nel quale la questione della scarsità si è risolta, ma c’è la questione di che cosa faranno le persone e come le persone ottengono una fetta di questa torta. Finora, negli ultimi 300 anni il metodo attraverso il quale noi distribuivamo le fette di torta del prodotto era il lavoro. Il lavoro è un metodo con cui noi ridistribuiamo tra le persone, una quota più o meno grande di questa torta.
Se si va verso uno scenario in cui le macchine faranno tutto loro, il lavoro, appunto, the age of labor, è finita.
La strada allora è quella, che alcuni immaginano, un po’ alla Bill Gates. Cioè pensiamo ai robot, a grandi imprese che si avvantaggiano di queste nuove tecnologie. Alcuni arrivano addirittura che potremmo redistribuire una quota abbondante dei profitti dei grandi colossi del web e così via. Quindi, da punto di vista economico, questo immaginario è anche immaginabile, ma ritorniamo alla questione di prima, cioè il lavoro è davvero solo il reddito o è anche altro? E quindi che cosa dovremmo fare? Non so rispondere. E’ una grande rivoluzione che mi crea difficoltà ad immaginare. Non so se avete presente quel cartone animato della Disney, mi pare si intitolasse “WALL-E”, non so se lo avete visto. Io l’ho visto perché ho i bambini piccoli, dove praticamente c’è un futuro in cui la terra è stata inquinata e distrutta dagli umani, quindi gli uomini si sono trasferiti su delle navicelle. Girano per l’universo e questi uomini sono diventati tutti obesi, stanno sui divan, guardano tutto il tempo la televisione e ci sono le macchine che fanno tutto il resto. E’ un futuro spettrale, Uno si immagina che gli uomini non lavorino più e quindi passeranno il tempo a guardare la televisione, Netflix e così via. Io lo trovo preoccupante. Sarebbe interessante ragionare su cosa significa il post lavoro. Che cosa si potrebbe fare, no? Certo, stiamo parlando di un futuro forse remoto, non troppo. Pensate alle automobili, se voi leggeste i lavori degli economisti 7,8 o dieci anni fa, gli autisti erano considerati una professione non automatizzabile. Oggi si para delle macchine self drive. L’intelligenza artificiale consente cose che fino a ieri erano inimmaginabili.
Sandro Trento, professore ordinario di economia presso l’Università di Trento, dove dirige la School of Innovation. In precedenza, è stato direttore del Centro Studi Confindustria; ed economista presso il Servizio Studi della Banca d’Italia. E’ autore di varie pubblicazioni scientifiche, collabora con il Foglio.
Mauro
Molto bello. Lascia aperti le grandi tendenze del futuro. Non siamo abituati a parlare di una comunità che non lavora. Chissà come vivremo. È tutto aperto. In questo contesto non mi preoccupa particolarmente il fatto che solo pochi lavoratori staranno “ al top”. Nel calcio Messi e Ronaldo eccellono e guadagnano milioni. Lo stesso nel tennis con djokovic . È così via. Perché non dovrebbe accadere con il settore digitale e di alta tecnologia? L’importante, come nello sport, che sia il merito a selezionare i migliori.