Il 24 febbraio 2022 la Russia invadeva l’Ucraina, puntando direttamente su Kiev, da sempre considerata la culla della civiltà russa. Negli stessi giorni Putin aveva già riconosciuto le repubbliche separatiste del Donbass (Donetsk e Lugansk) situate sul territorio ucraino e otto anni prima (2014) si era annesso la penisola di Crimea, nel silenzio (o peggio disinteresse) del mondo occidentale. A distanza di due anni da quel fatidico giorno, ci troviamo ancora disorientati da questa guerra che ancora non comprendiamo e ora anche distratti da un conflitto, come quello israeliano, che per ragioni storiche e culturali avvertiamo più insidioso.
Questa rubrica ha sempre cercato di tenersi al di fuori dai giudizi di merito, (e continuerà a farlo) ma ha sempre indagato le conseguenze economiche che prima il conflitto ucraino e poi quello israeliano hanno determinato a livello mondiale.
Il conflitto ucraino è stato infatti il detonatore per una spirale inflattiva mondiale da cui, solo oggi, riusciamo faticosamente ad imboccare la via d’uscita e il continente europeo è stato il più colpito, pagando il fio di essersi legato “mani e piedi” all’ex alleato russo.
Ma se le fonti energetiche sono state faticosamente e costosamente sostituite, a distanza di due anni appare chiaro il mezzo fallimento di tutte l’insieme di sanzioni economiche che sono state applicate e che, almeno negli intenti, avrebbero dovuto fiaccare prima e poi piegare l’economia della Russia e spingerla a una completa revisione nella politica militare.
Più volte ho parlato degli effetti delle sanzioni in questa rubrica (ricordo “Guerra e Pace” del 5 marzo 2022 e “Il folle costo della guerra” del 20 marzo 2022), ma riassumo anche oggi i principali: l’esclusione dal circuito Swift degli istituti di credito russi, il congelamento di beni e proprietà di alcuni oligarchi e delle riserve in valuta estera dello Stato e un massiccio ridimensionamento del traffico commerciale da e per verso la Russia.
A giudicare però dai dati appena pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale, queste sanzioni non hanno funzionato: il PIL russo è atteso in crescita del 2,6% nel 2024 (una crescita tripla rispetto all’Europa al +0,9% e superiore agli USA al +2,1%). Il dato russo per il 2024 confermerebbe anche l’ottimo risultato già raggiunto nel 2023 (+ 3,0%).
Le ragioni di questo exploit potrebbero essere due: da una parte il forte intervento pubblico di stimolo in quella che è diventata, a tutti gli effetti, una economia di guerra, dall’altra parte la buona tenuta dell’export russo (soprattutto energia, metalli e fertilizzanti).
Ma se la spesa pubblica potrebbe non sostenere nel lungo termine l’economia russa, la tenuta dell’export è un effetto dell’insuccesso delle sanzioni applicate.
Sono infatti tre (a mio avviso) le ragioni di questo fallimento occidentale.
La prima, come detto, è legata appunto alla tenuta dell’export russo. Molti Paesi energivori hanno fiutato la opportunità di potersi sostituire alle potenze europee nell’accaparramento del gas, contrattando con la Russia un prezzo di “favore”. È il caso di India, Cina e Turchia, che hanno potuto così favorire le loro industrie e hanno salvato la bilancia commerciale russa. Ma è anche il caso del Sudamerica per i fertilizzanti, o l’Africa per le armi. Non solo, molti Paesi occidentali hanno continuato a comprare risorse energetiche dal Cremlino, triangolando tali acquisti con Paesi terzi.
Anche il rublo inizialmente sotto pressione ha largamente recuperato terreno. L’inflazione dovrebbe scendere al 4,5%, dopo che la Banca centrale ha alzato i tassi d’interesse fino al picco del 15%.
La seconda ragione è di carattere politico: fin dalle prime votazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite era palese che non tutti volessero tenere atteggiamenti di rigidità con la Russia, astenendosi nelle votazioni e rimanendo neutrali. Molti Paesi (soprattutto quelli più poveri e dipendenti dal gas russo) non volevano compromettere i rapporti con lo Zar e vedevano nel conflitto ucraino un mero problema europeo.
La terza ragione è riferibile alla peculiarità della società e dell’economia russa, da sempre piuttosto “chiusa”. L’enorme sforzo finanziario per sostenere la guerra è stato sostenuto a discapito delle pensioni, degli stipendi dei dipendenti pubblici, della manutenzione delle infrastrutture e dell’edilizia, ma il tasso di disoccupazione è rimasto basso (grazie alla leva obbligatoria e ai tanti dissidenti che hanno lasciato il Paese). In un Paese in cui non esiste né libertà di parola, né di stampa e vige una esasperata propaganda politica, tutte le possibili rivolte sono state soffocate sul nascere, cristallizzando il sistema di governo in essere. E qui si spiega il grande errore del “fronte occidentale”, che ha ciecamente creduto che l’applicazione di sanzioni economiche e qualche fornitura militare a Kiev, bastassero per sgretolare il fronte di consenso interno verso lo Zar.
Inoltre, il crollo del regime russo dato più volte per imminente non si è mai realizzato, indebolendo anche l’alleanza atlantica con gli USA, che nel caso di vittoria di Trump, avranno buon gioco a defilarsi da una guerra lontana, costosa e non di certo strategica come quella in Medio Oriente.
Insomma, sul piano militare la guerra è in stallo, le sanzioni economiche sono state un flop e l’alleanza atlantica si è indebolita e l’avvicinamento dei Paesi scandinavi alla NATO è solo un parziale successo. Converrà allora lavorare tutti per una pace veloce e giusta, anche se dovesse passare per privazioni territoriali importanti per l’Ucraina. Bisogna farlo prima che l’immagine della Unione Europea possa uscirne del tutto compromessa, risvegliando a livello nazionale pericolosi focolai populisti: la storia recente ci dovrebbe aver insegnato che è una strada pericolosa, quanto masochista.
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