Tranne quei pochi ancora viventi che, da giovani o da bambini, conobbero la seconda guerra mondiale, tutti noi siamo nati e vissuti in anni di pace e di continuo benessere. Le guerre che ci sono state in giro per il mondo negli ultimi settant’anni hanno soltanto sfiorato l’Italia e l’Europa; e le crisi economiche che si sono succedute a partire dal 1973 fino a quella del 2008 ci hanno colpiti anche duramente, ma non ci hanno mai ridotti alla fame.
I più anziani hanno visto o subito nel corso di questi anni l’inondazione di Firenze, devastanti terremoti, alluvioni, frane, stragi terroristiche. Ma, dopo questi tragici avvenimenti, la consapevolezza che si trattasse comunque di espisodi limitati nel tempo e circoscritti nello spazio, ci ha sempre permesso di superarli e di guardare fiduciosamente al domani.
Anche i lutti familiari, che prima o poi tutti incontriamo, possono essere accettati: vuoi con rassegnazione cristiana, vuoi con laico stoicismo. Le malattie, come pure la vecchiaia, fanno parte della vita stessa; e quindi, anche se ci fanno soffrire, alla fine siamo costretti a sopportarle e a farcene una ragione.
Ma una pandemia come questa dei nostri giorni, proprio in quanto “pan” (in greco, tutta) e “demos” (in greco, popolazione), ha dei caratteri di universalità e globalità per cui trascende le frontiere, i limiti geografici, le difese militari e sanitarie; e colpisce tutto il genere umano, l’esistenza degli uomini nella loro vita quotidiana, le relazioni sociali, affettive ed economiche.
Paradossalmente, se si ragiona solo in termini spaziali e non in base al numero delle vittime, è più mondiale il Covid-19 della seconda guerra mondiale, che comunque lasciò l’intero continente americano intoccato.
E la grande scienza moderna, che pur si sta mobilitando in tutti i Paesi avanzati con i suoi migliori cervelli, si rivela uno strumento ancora inadeguato, al punto che sostanzialmente ci stiamo proteggendo con gli stessi rimedi dei secoli scorsi: distanziamento sociale e quarantena.
Non c’è dubbio che, oggi più che mai, abbiamo davanti il quadro, nitido, della nostra precarietà.
Allora non possiamo fare a meno di rileggere l’ultima (o penultima) possente lirica di Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto; scritta quando il poeta fuggì da Napoli, durante un’epidemia di colera, e si rifugiò con l’amico Ranieri nella villa Ferrigni, a Torre del Greco, sulle pendici del Vesuvio.
A Leopardi siamo soliti attribuire le etichette, imparate da ragazzi sui manuali scolastici, del “pessimismo storico” e del “pessimismo cosmico”. Ma per liberarci e liberare il poeta dai luoghi comuni, bisogna passare attraverso l’interpretazione che ne ha dato Giovanni Gentile, il massimo filosofo italiano del Novecento: “Il Leopardi preso per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani e vigorosi ottimisti, che ci possano apprendere il segreto della vita operosa e feconda” (Leopardi e Manzoni,Opere,XXIV).
Gentile rivela che, oltre alla visione materialistica e negativa dello Zibaldone, nelle altre sue opere è presente una filosofia superiore (“ultrafilosofia”) anche se elaborata in forme poetiche; come avviene nei Canti che, per Gentile, sono un “piccolo libro, in cui un gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce…in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e della non meno innegabile azione dello spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di vivere”.
L’immagine solare della “odorata” ginestra che, nel finale della lirica, è destinata a soccombere sotto l’inevitabile eruzione del vulcano (“sotterraneo foco”), non rappresenta, dunque, la disfatta del genere umano, vittima della stessa Natura che l’ha generato. E’, invece, espressione dell’uomo che non si illude più sulla sua presunta illimitata potenza, e coraggiosamente può aprirsi: sia alla solidarietà (“tutti fra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor”); sia alla coscienza filosofica e religiosa della precarietà dell’esistenza (“ma più saggia, ma tanto / meno inferma dell’uom, quanto le frali/ tue stirpi non credesti/ o dal fato o da te fatte immortali”).
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