Alienazione parentale, il buco nero che fa evaporare l’identità dei figli e di cui non si deve parlare.
Sembra incredibile, ma parlare di alienazione parentale, in Italia, è ormai diventato un atto sacrilego, la profanazione vera e propria di un’immagine sacra, la mamma, l’angelo del focolare, vittima inerme a prescindere insieme ai figli del marito e del padre, ça va sans dire carnefice per definizione, che occorre sempre e comunque difendere, anche quando non c’è nessuna violenza verso nessuno e l’angelo, caduto dal paradiso, ha perso ogni sua virtù ed ha assunto vizi e difetti dei comuni mortali.
Inutile fare appello alla realtà dei fatti, alle statistiche, ai dati ISTAT su archiviazione e sentenze di assoluzione che puntualmente arrivano quando il danno è già fatto, alle evidenze scientifiche, al dibattito internazionale su questo tema, alle legislazioni di altri paesi, alle sentenze della CEDU, tutto inutile: nessuno parli di alienazione parentale, perché altrimenti cade il castello di cartapesta dietro il quale si nasconde il rifiuto di riformare una legge – quella sull’affidamento dei figli dopo la separazione dei genitori – che crea infinitamente più problemi di quelli che dovrebbe risolvere.
E allora giù di accuse di pedofilia a chi ne avanzò la prima formulazione trenta e passa anni e a chiunque altro osi farvi riferimento anche se è un eminente professore universitario, e vai con la tesi strampalata per cui l’accusa di comportamenti alienanti è solo un modo per vendicarsi, che è come dire che il lavoratore che chiede di essere pagato vuole espropriare il padrone del suo denaro.
Silenzio anche sulle tante donne, quasi un caso su quattro, che ne sono vittima secondo i dati, pur discutibili, della Commissione Femminicidio, la cui presidente ha fatto della negazione dell’alienazione parentale la battaglia della propria vita.
E quando mai tutto ciò non bastasse, ecco arrivare l’immancabile sigillo della Corte di Cassazione (Cass. 9691/2022) secondo cui, con non poco sprezzo del pericolo, non solo il genitore che non vede il figlio da nove anni a partire da quando ne aveva poco più di due, deve provare che ciò abbia leso i loro rapporti ma deve anche evitare di lamentarsi troppo ed evitare ogni riferimento al concetto di “alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario”, manco si trattasse di una parolaccia.
Come se il tempo, da solo, non fosse sufficiente non a far evaporare il padre come dice Claudio Risè, ma a far evaporare nel figlio l’idea stessa che abbia due genitori e non uno. Per la Corte di Cassazione ci vogliono le prove!
Peccato che la CEDU condanni sistematicamente l’Italia per la mancata garanzia del diritto dei figli di genitori separati a continuare ad averne due anche dopo la separazione, visto che i provvedimenti di affidamento presuppongono la collaborazione di chi ha tutto la volontà e l’interesse a non prestarla, e nessuno osa sfidare minimamente un genitore armato di telefonino pronto a riprendere la scena di un bambino che piange mentre viene portato via.
E figuriamoci se, una magistratura in crisi di credibilità come quella italiana, potrà far girare il Sole attorno alla Terra come si vorrebbe far credere attraverso il silenzio su questa triste realtà, quando nemmeno il Tribunale della Santa Inquisizione, che pure aveva ben altro autorità e potere, riuscì a fermare le idee di Copernico.
Una realtà fatta di una norma stereotipata che imprigiona i figli al conflitto d’interesse di retribuire chi li ospita sotto il tetto e non riceve alcuna sanzione quando non ne rispetta i diritti più elementari ma anzi ulteriori vantaggi.
Di percentuali fino a 10 volte superiori di gravidanze precoci delle ragazze e di delinquenza minorile nei ragazzi, di atti suicidari, di scarsa socializzazione dei figli che crescono senza uno dei due genitori se essi sono vivi, perché mentre il lutto per la perdita di un genitore è una ferita che, prima o poi, si cicatrizza, la mancanza di una madre o di un padre che si sa essere vivo è una ferita che continua a sanguinare sempre.
E delle mille e passa pagine che vi hanno dedicato sia l’American Barrister Association che l’American Psychological Association, o delle decine e decine di studi, ricerche, consensus conference con decine di esperti di tutto il mondo, pubblicati su riviste scientifiche ad alto fattore d’impatto che vanno dagli Stati Uniti alla Cina, dal Cile alla Svezia, da Malta al Regno Unito, dalla Serbia alla Croazia ad Israele che mettono in guardia dalle conseguenze negative e su come contrastare un fenomeno, non una teoria, descritto come relazione disfunzionale tra un bambino ed il suo caregiver dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD – QE52. 0).
Di questa realtà e dei suoi corollari non si deve parlare.
E non se ne deve parlare perché il dovere di attenersi “ai protocolli e alle metodologie riconosciuti dalla comunità scientifica” previsto dalle recenti modifiche al processo di famiglia vale solo per il consulente tecnico, non certo per la Santa Inquisizione che alberga dentro le aule del Palazzaccio e decide secondo il proprio vangelo e non secondo legge.
Questo è il buco nero che, prima di far evaporare il padre o la madre, fa evaporare la vita di tanti bambini che non vedono più uno dei due genitori dopo la loro separazione e ne mutila letteralmente ancor di più.
Perché ha voglia la Corte Costituzionale di predicare che il doppio cognome serve a tutelare la piena identità del figlio se poi quell’identità, fatta dell’unione di due storie familiari e non di una sola, viene sistematicamente dimezzata nelle aule di giustizia dove si continuano a prevedere tempi di frequentazione differenti tra i due genitori.
E se anche non c’è verso di farlo comprendere perché non c’è più sordo di chi non vuol sentire il grido di dolore che si leva da figli e genitori devastati da tanto oscurantismo, prima o poi, la luce della realtà chiuderà questa brutta pagina della politica italiana.
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