Questa è la storia di una fotografia, o meglio, questa è la storia celata dietro la fotografia che abbiamo scelto come immagine di copertina per questo articolo.
Con ogni probabilità l’avrete vista decine di volte, sui libri di scuola o su qualche sito web di divulgazione dedicato alla fisica del Novecento.
In primo piano è immortalato Niels Bohr, riconoscibile per la statura da atleta e per le sue inconfondibili sopracciglia cespugliose, in secondo piano appare invece un signore stralunato che non ha certo bisogno di presentazioni – Albert Einstein – intento a guardare verso chissà quale altra dimensione.
I due amici spaparanzati su poltrone di cuoio davanti a un tavolino da un fumo appartengono all’Olimpo degli scienziati che più hanno rivoluzionato la fisica nel XX secolo e, nonostante l’impressione rilassata di questo scatto, c’è da scommettere che siano impegnati in qualche discussione d’importanza cruciale.
Anche il fotografo amatoriale che di soppiatto ha scattato il dagherrotipo in questione è però un fisico insigne, riconosciuto pioniere di svariati settori scientifici, ma a differenza degli altri due amici, preferiva stare dall’altra parte dell’obbiettivo, lontano dalle luci della ribalta.
Il suo nome è Paul Ehrenfest e l’occasione nitidamente impressa nel dagherrotipo – così si chiamavano le prime fotografie – è il “Quinto Congresso di Solvay”, tenutosi nel 1927, anno che coincise con il vertice della sua parabola umana e professionale. Riscrivendo la sua storia, ripercorrendola dall’inizio alla fine, faremo un breve viaggio nella rivoluzione avvenuta in ambito scientifico all’inizio del XX secolo.
Dobbiamo intanto fare un passo indietro per conoscere questo protagonista timido e discreto del mirabolante periodo che va sotto il nome di “anni d’oro della fisica”, che ha lavorato fianco a fianco con gli scienziati più importanti dell’epoca e contribuito in prima persona a rendere unico nella storia della scienza quel ventennio.
L’infanzia per lui cominciò in salita: figlio ultimogenito di una coppia di droghieri ebrei proprietari di una bottega nel centro di Vienna e che vennero entrambi a mancare nel giro di pochi anni, lasciando orfani i cinque figli, tutti maschi.
Fu proprio in questo periodo che Paul cominciò a sviluppare quell’intima malinconia che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, conducendolo a una tragica e prematura morte. I fratelli maggiori, intuendo le straordinarie potenzialità del fratellino e nell’intento di alleviare il dolore per i lutti familiari, lo iniziarono ai giochi logici e matematici, maturando anche la decisione di impegnare le proprie risorse per fargli continuare gli studi. Così il ragazzo prodigio, anche grazie a una borsa di studio per scolari meritevoli, poté approdare al vivace porto dell’università di Vienna. Qui seguì con straordinario profitto i corsi di meccanica teorica tenuti da quello che era considerato a quel tempo, il più brillante dei fisici austriaci, Ludwig Boltzmann, il cui approccio alla estrema matematizzazione nell’affrontare problemi di fisica, ha profondamente influenzato l’intera cultura scientifica del Novecento, non solo in ambito prettamente tecnico e scientifico ma anche filosofico. Il nome di Boltzmann è soprattutto legato alle sue ricerche in termodinamica e meccanica statistica: fondamentali sono stati i suoi contributi alla teoria cinetica dei gas e al secondo principio della termodinamica.
L’influenza di questo straordinario personaggio segnerà la prima vera svolta nella vita di Paul Ehrenfest che, proprio in quel periodo, decise di intraprendere con entusiasmo la strada della fisica teorica. Per inseguire questa vocazione, due anni più tardi si recò all’università di Gottinga dove studiò matematica sotto la supervisione di Felix Klein, di David Hilbert ed Ernst Zermelo e dove poté addirittura approfondire la conoscenza della fenomenologia con Edmund Husserl. Tre anni più tardi, tornato a Vienna, ottenne brillantemente il dottorato e subito decise di fare anche il grande passo: proprio a Gottinga infatti si era perdutamente innamorato di una bella matematica russa di grande valore, Tatiana. Sposarsi non fu affatto facile: Paul era ebreo mentre Tatiana, nativa di San Pietroburgo, cristiana ortodossa e nell’Impero asburgico la burocrazia era particolarmente severa quando si trattava di permettere nozze interreligiose. Per questo motivo entrambi, nonostante non fossero particolarmente praticanti, furono costretti a dichiararsi atei. Con il matrimonio cominciò anche la sinergia scientifica tra i due: Paul introduceva la sua chiave di lettura di fisico teorico mentre alla moglie spettava il compito di porre l’accento sui dettagli necessari a una corretta e completa trattazione matematica dei problemi affrontati. Il lavoro coniugale sarebbe stato particolarmente fruttuoso in particolare sulla interpretazione statistica della termodinamica -interesse mutuato ed ereditato dal “Gran Maestro Boltzmann” – vale a dire sul legame preciso tra il comportamento globale di un sistema macroscopico e il numero stratosferico di eventi elementari che concorrono alla sua costituzione.
Poco più che trentenne riuscì finalmente a ottenere la cattedra di Fisica teorica all’Università di Leida. Qui in poco tempo riuscì a creare un ambiente straordinariamente stimolante, al punto che le sue conferenze divennero occasione di incontro tra i più brillanti scienziati dell’epoca. Le sorprendenti doti di divulgatore dimostrate da questo genio schivo e introverso gli valsero niente meno che l’appellativo di “zio Socrate”.
Siamo esattamente sul crinale tra il XIX e il XX secolo, alla vigilia di scoperte che avrebbero “frastagliato”, per usare un termine caro a Thomas Mann, le conoscenze scientifiche classiche e incrinato irrimediabilmente la torre d’avorio in cui i fisici e i filosofi positivisti ritenevano di essere arroccati. Anche Ehrenfest rientrava nel novero di quanti credevano si fosse ormai riusciti a spiegare in modo esaustivo il comportamento di tutti i corpi, ma a livello microscopico i costituenti della materia mostravano di avere un comportamento completamente diverso da quello degli oggetti macroscopici.
Questo era chiaramente emerso da una serie di esperimenti di cui quelli sulla cosiddetta radiazione di “corpo nero” fu il primo, storico passo.
Per capire di cosa stiamo parlando vale la pena di fare qualche richiamo e un paio di esempi. Per prima tutto immaginiamo di stare trascorrendo le vacanze in una località di mare: sole, ombrelloni, sabbia, venditori di cocco e lunghe passeggiate serotine tra balconi carichi di gerani e finestre spalancate per combattere la canicola. Alzi la mano chi, nei giorni arroventati del solleone non si sia messo spontaneamente a riflettere sull’opulenza dei colori percepiti dai nostri occhi e sul perché li vediamo tali. Sappiamo naturalmente che tutti gli oggetti che vediamo assorbono una certa quantità di energia a una determinata lunghezza d’onda e ne emettono un’altra. A seconda della lunghezza d’onda, e di conseguenza della frequenza delle onde luminose, vediamo il colore degli oggetti. È una cosa di cui ci possiamo rendere conto ad esempio, quando al mare passeggiamo sul bagnasciuga e osserviamo le onde: l’acqua ci appare di un colore che varia dal verdolino tenue quasi trasparente fino al blu profondo, a seconda della profondità. Se poi, sempre durante la passeggiata, provassimo a sbirciare all’interno delle cucine da cui proviene l’acciottolio delle stoviglie, vedremo solo buio.
Questo avviene perché tutta la radiazione che entra attraverso la finestra rimane intrappolata, rimbalza sulle pareti interne e solo in minima parte riesce a “scappare”. Quella stanza si comporta come un corpo nero che può essere schematizzato in maniera molto semplice pensandolo come una cavità nella quale la radiazione è in equilibrio termico con le pareti, le quali cioè mediamente emettono tanta radiazione quanta ne assorbono. Negli esperimenti di laboratorio un corpo nero è costituito da una sorta di forno le cui pareti emettono e assorbono continuamente radiazioni su tutte le possibili lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico.
All’interno di questa cavità la radiazione termica è governata dalle leggi dell’elettromagnetismo. I fisici Rayleigh e Jeans modellizzarono il corpo nero come una cavità cubica con pareti conduttrici avente temperatura fissa. Si presentò subito un profondo disaccordo per quanto riguardava le curve che descrivevano la radiazione emessa da un corpo nero; queste discrepanze tra i dati ottenuti nei laboratori e le previsioni teoriche emergevano in modo drammatico in alcuni esperimenti di termodinamica.
Nel 1899 Max Planck riuscì a interpretare le curve sperimentali di radiazione del corpo nero, studiando in particolare gli studi sull’emissione della luce da parte di un corpo incandescente, e per superare le difficoltà d’interpretazione, postulò che la distribuzione dello spettro energetico del corpo nero non fosse continuo e riscrisse la formula di Raleigh-Jeans giungendo a ritenere che l’energia venisse assorbita e riflessa all’interno del corpo nero in modo discreto cioè a pacchetti o “quanti”.
Vennero gettate, con questo presupposto, le basi della fisica quantistica che, come vedremo, costituisce un valido modello interpretativo dei fenomeni su scala atomica e subatomica. L’ipotesi quantistica di Planck permise di interpretare fenomeni classicamente inspiegabili.
Poiché i problemi si presentavano per quelle radiazioni la cui lunghezza d’onda si trovava nella regione dell’ultravioletto, fu proprio Paul Ehrenfest, a coniare l’espressione “catastrofe ultravioletta” per definire il paradosso di fronte a cui si trovava la fisica classica. Questo fenomeno è stato il ponte che ha condotto alla revisione della fisica classica in favore di una nuova teoria vincente, la meccanica quantistica. Ciò significava però mettere in discussione parte di quell’impianto “perfetto” che era considerato la Fisica classica: era dunque necessario abbandonare il tempio di cui Galileo e Newton erano stati, per secoli, i sommi sacerdoti. Ma Ehrenfest, il protagonista della nostra storia, credeva che il mondo naturale fosse una sinfonia eseguita da un’orchestra in cui nessun musicista avesse incertezze, o almeno amava pensare di poter padroneggiare l’intero spartito senza steccare. Nei primi anni ’20, docente di spicco dell’università di Leida, cominciò a organizzare incontri con i migliori fisici di tutta Europa, e confrontandosi coi colleghi si convinse di aver ormai dato alla ricerca il meglio di sé, di essere vecchio e superato, di non poter comprendere alla radice la rivoluzione che stava investendo il mondo della scienza.
S’intratteneva in lunghe conversazioni con Einstein e Bohr, di cui era grande amico, ma non riusciva a percepirsi alla pari con loro e soprattutto si smarriva di fronte alle divergenze emerse tra i due a proposito del modo di avvicinarsi a questa bestia strana, la fisica quantistica, che rimetteva in gioco la concezione stessa di realtà. Infatti Einstein considerava la teoria quantistica un modello teorico straordinariamente efficace ma non riteneva che per una teoria fisica la praticità o efficacia fossero per così dire, elementi nobilitanti: della scienza aveva diciamo una concezione romantica, ideale, quasi svincolata dalle implicazioni pratiche. Credeva che il fondamentale compito del fisico fosse la difesa dell’idea di un mondo reale che esista indipendentemente da noi che lo osserviamo. Bohr invece, sacerdote del nuovo culto, considerava la realtà come frutto dell’interazione fra ciò che viene osservato e l’osservatore stesso o meglio, tra l’oggetto esaminato e l’apparato di misura. La realtà oggettiva delle cose non era forse così oggettiva, e presumibilmente non si potevano fare affermazioni drastiche sulla realtà. Quando, nel 1927, sette anni dopo il primo incontro tra i due contendenti, venne convocato il quinto congresso di Solvay, occasione in cui è stata scattata la foto di cui stiamo parlando, Ehrenfest non si sentiva più in grado di procedere a tentoni tra la boscaglia dei “quanti” e non si rassegnava all’idea di doversi decidere ad abbandonare il sentiero “classico”. Quasi di nascosto, nell’ombra, scattò la foto di una storica chiacchierata a cui non se la sentiva di prendere parte. Tutto gli sembra tragicamente vuoto e inutile: la ricerca stessa pareva essere divenuta un’attività insipida, confusa, priva del rigore eburneo a cui aveva ispirato tutta la propria attività di scienziato e divulgatore.
Trascorse gli ultimi anni, a cavallo tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30, macerato dai dubbi interiori e professionali, e schiacciato infine dalla notizia che uno dei suoi figli, l’adorato Wassik, soffriva di una imprecisata forma di ritardo mentale. E così al travaglio dello scienziato si sovrappose quello dell’uomo. Cinque anni dopo la Quinta Conferenza di Solvay, pochi mesi prima che l’avvento nazista precipitasse l’Europa nel buio, logorato nella mente e nell’animo, Paul Ehrenfest, l’uomo che si sentiva irrimediabilmente escluso dagli eventi, che temeva rivoluzioni e stravolgimenti, uccise il figlioletto e poi si tolse la vita.
Oreste
Grazie. Splendido articolo.