Che il M5S stia praticamente implodendo è un dato di fatto ed è un bene per il Paese; visto che si trattava dell’organizzazione politica più qualunquista e populista che si sia avuta dai tempi del Fronte dell’Uomo Qualunque fondato da Guglielmo Giannini nel 1944 e scomparso subito dopo le elezioni del ’48. E se la carriera futura del neo-atlantista e neo-europeista Luigi Di Maio (sì proprio lui, quello del reddito di cittadinanza e dell’appoggio ai “gilet jaunes”, lo stesso che voleva far fare a Mattarella la fine di Richard Nixon o forse di Luigi XVI) suscita qualche interrogativo e perplessità nelle persone raziocinanti, la vicenda di Giuseppe Conte sembra ormai avviarsi alla conclusione; e, come dice giustamente quel volpone di Matteo Renzi, per bene che gli vada se la caverà con un seggio in parlamento come indipendente.
Non ci resta allora che aspettare, stando tranquillamente seduti sulla riva del fiume – magari all’ombra di un albero frondoso -, e presto vedremo passare il cadavere (metaforico) del M5S, ridotto a brandelli e divorato dai pesci. Non è un’immagine macabra, anzi bisogna solo gioirne: per il bene dell’Italia tutta.
Ma, a parte questo motivo di soddisfazione, c’è ben poco per cui stare allegri; soprattutto per quelli che idealmente si collocano nell’area liberal-democratica e continuano a fantasticare su una possibile forza – la vogliamo chiamare di centro? – che la rappresenti autorevolmente e concretamente.
In questo caso dobbiamo essere onesti e dire come stanno le cose: al centro c’è il caos e non si intravede la luce in fondo al tunnel. Al punto che Pietro Ichino, una delle teste pensanti più lucide di quell’area, ha scritto che per ora la miglior cosa da farsi è che i lib-dem restino ai loro posti e cerchino di rafforzare le posizioni anti-populiste e riformiste sia nel centrosinistra che nel centrodestra.
E’ una prospettiva non particolarmente entusiasmante, ma è realistica. Proviamo ad aggiungere un po’ di analisi e a capire perché le cose stanno così.
Nella storia italiana del Novecento l’area liberale è stata rappresentata dal PlI che si è collocato sempre su posizioni conservatrici, tranne che in alcuni momenti, come nel caso di Renato Altissimo che fu ministro dell’Industria con Craxi e ministro della Sanità con Cossiga. In seguito, a parte la lista Bonino che ebbe un ottimo successo alle europeee del 1999 ma poi subì un tonfo nelle regionali del 2000, l’unico vero tentativo di dare voce e corpo ai liberali riformisti è avvenuto con Scelta Civica di Mario Monti; ma anche in questo caso, dopo un discreto successo alle politiche del 2013 (8,3% dei voti) arriva la sconfitta alle europee l’anno successivo. Ritiratosi dalla politica attiva l’ex premier Monti, Scelta Civica diventò un partitino senza leadership e senza futuro.
Se ne potrebbe concludere che nel panorama italiano i partiti liberali-riformisti o sono come pesci fuor d’acqua o faticano a diventare partiti di lunga durata. Quello che intendo dire con “partito di lunga durata” è una struttura politica che non sia legata esclusivamente al suo fondatore. In questo senso di partiti veri e propri oggi ci sono solo il Pd, la Lega e Fratelli d’Italia.
Nel centro magmatico, invece, si continuano a generare formazioni politiche ma non partitiche che si identificano di volta in volta con questo o quel leader: Carlo Calenda, Matteo Renzi, Giovanni Toti eccetera: ottimi personaggi con un autentico pedigree liberaldemocratico e riformista. Non si tratta di partiti “padronali” come nel caso di Forza Italia, il cui leader è un vero e proprio dominus che si circonda solo di fedelissimi, e può decidere il bello e il cattivo tempo nel suo ambiente. Ma in ogni caso Italia Viva, Azione, Italia al Centro cesserebbero di esistere senza i loro fondatori: perché sono pseudo-partiti a impronta fortemente personale.
Come se ne esce? L’unica proposta seria e alternativa a quella fatta da Ichino proviene dal deputato renziano Luigi Marattin che in un’intervista a Repubblica ha detto: “Scegliamo il leader liberaldemocratico con le primarie”. Perché no? Gli uomini e le donne che potrebbero aspirare alla leadership di quest’area ci sono: Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Giovanni Toti, Giorgio Gori, Beppe Sala e ovviamente Matteo Renzi e Carlo Calenda.
Se non si riesce a mettere insieme l’area lib-dem e a presentarla alla prossime politiche, il rischio sarà quello indicato da Marattin: che gli italiani potrebbero trovarsi a scegliere solo tra un centrodestra a guida Giorgia Meloni e un centrosinistra ispirato all’ideologia di Maurizio Landini. Che sarebbe una tragedia.
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