«Come il “mondo vero” finì per diventare favola»
Nietzsche, Crepuscolo degli idoli
Mark Twain disse che la differenza tra i fatti e la finzione è che questa seconda appare più plausibile. Ma non è più così: meno una finzione è plausibile, più essa verrà scambiata per fatti. Nella democrazia del complottismo, più si è lontani dal verosimile, più si è creduti. Settant’anni fa, l’11 aprile del 1953, il cadavere di una romana di 21 anni, Wilma Montesi, fu trovato sulla spiaggia di Torvaianica, vicino Ostia. Wilma era figlia di un falegname di modeste condizioni, in procinto di sposarsi con un agente di polizia, e – particolare che divenne in seguito importante – all’autopsia risultò vergine. La polizia concluse che si trattava di una morte accidentale per annegamento.
Ben presto giornalisti di varie testate scandalistiche cominciarono a tessere una serie di insinuazioni e ipotesi, senza la minima prova, e l’inchiesta fu riaperta. Ne scaturì un uragano sessuo-politico che scosse l’Italia per più di un anno. All’epoca del “caso Montesi” ero bambino, e ricordo che gli adulti non parlavano d’altro. Molti anni dopo il ricordo di questo caso era molto vivo soprattutto tra chi si occupava di politica. Alla fine degli anni sessanta la versione consolidata di quegli eventi visti da sinistra era la seguente:
Wilma Montesi era una ragazza che bazzicava alcune persone altolocate in una villa a Capocotta, parte di Torvaianica, in particolare il musicista Piero Piccioni, allora trentaduenne. Qui si svolgevano festini e orge, con uso di stupefacenti e alcool, nelle quali Wilma sarebbe stata coinvolta. Un giorno morì per un malore, dovuto forse a droghe, e i libertini affidarono il suo corpo alle onde del mare.
Piccioni era figlio dell’allora vicepresidente del Consiglio Attilio Piccioni, molto vicino ad Alcide De Gasperi, primo ministro. Ribaltando la norma biblica – ovvero, i peccati dei padri ricadono sui figli – Piccioni padre dovette dimettersi e terminò così la propria carriera politica. Amintore Fanfani colse l’occasione per disfarsi del suo rivale e prendere la leadership nella Democrazia cristiana. De Gasperi sarebbe morto nell’agosto del 1954.
Personalità politiche e altri VIP – persino un nipote di papa Pacelli, Pio XII – si davano a baccanali con ragazze in quella villa. Piccioni figlio e altri due sospetti, Polito e Montagna, vennero arrestati. L’opposizione di sinistra si scatenò contro il mondo corrotto del potere clericale. L’avvocato Giuseppe Sotgiu, uomo politico di spicco del partito comunista e difensore del giornalista che aveva lanciato la pista dei “capocottari” (i VIP libertini), scintillava come il Grande Inquisitore d’Italia. Denunciava con passione i costumi immorali del regime democristiano. La polizia venne accusata di aver voluto coprire la responsabilità di questi potenti, il prefetto di Roma venne incriminato e arrestato per aver cercato di insabbiare il caso per compiacere il prefetto e il ministro Piccioni.
Purtroppo però, per puro caso alcuni giornalisti scoprirono che Sotgiu aveva accompagnato la moglie in un bordello di via Corridoni a Roma, dove, pare, lei aveva rapporti sessuali con giovani uomini, e al marito piaceva guardare… Questo fece crollare la credibilità di Sotgiu come moralizzatore. Poi tutto si diradò… Ancor oggi le cause della morte di Montesi non sono state chiarite.
Anni dopo, mosso da curiosità, mi sono preso la briga di andare a controllare i fatti, e mi resi conto che la versione suddetta, come tutta la vicenda, era frutto di un delirio collettivo. Avremmo visto casi simili in seguito. Il tema di fondo di tutti questi scandali è: «Loro [chi ha potere] hanno una vita segreta in cui si danno a orge e a varie perversioni sessuali». Più che di complottismo parlerei in questo caso di dissolutismo.
L’insinuazione che la morte di Montesi fosse correlata in qualche modo alla villa di Capocotta venne da alcuni giornaletti in cerca di scoop, i quali incredibilmente vennero presi sul serio. Nulla dimostra che la povera Wilma, che dalle foto appare una brava ragazza del tutto morigerata, avesse minimamente a che fare con quella villa; del resto era vergine. Alcune “testimonianze” raccolte poi sono chiaramente prodotti di mitomani millantatori che nessun gip sobrio prenderebbe sul serio. Del resto, poco a poco, il caso si sgonfiò completamente. Nel 1957 Piccioni e i due altri accusati furono assolti con formula piena, mentre il giornalista all’origine di tutto il bailamme fu condannato per calunnia. Piccioni ha proseguito una brillante carriera di musicista. Nel 2015 il criminologo e giornalista Pasquale Ragone (La verginità e il potere. Il caso Montesi e le nuove indagini, Sovera 2015) raccolse tutti i documenti dimostrando che la morte di Wilma non aveva nulla a che fare con il mondo dei potentati democristiani. La verità è che sotto la coltre dell’Italietta pudibonda e codina permeata dalla DC, covava una lava di fantasie sessuali inconfessabili.
La logica di costruzione dei cosiddetti “fattoidi” può essere illustrata con questo esempio: «Un abitante di Roccasecca commette un delitto a Roma. Si viene a sapere che il padre dell’assassino era amico, da giovane, dell’attuale sindaco di Roccasecca. Dunque: il sindaco di Roccasecca è coinvolto nel delitto a Roma». Argomento a cui tenderanno a ricorrere i nemici giurati del sindaco di Roccasecca, ovviamente. Questa logica perversa è molto più comune di quanto non si pensi, direi anzi che impregna la maggior parte dei nostri “ragionamenti” politici, anche su temi ben più seri. E impregna anche persone il cui livello culturale dovrebbe preservarli da tali argomentazioni. Troviamo sempre i “fatti” che confermano quel che desideriamo che sia. In ogni caso, un alone di dissolutezza ha continuato a circondare Capocotta: da decenni è la parte nudista della lunga spiaggia di Torvaianica ed è stata zona preferita dai gay.
Per tutti gli anni cinquanta ogni tanto i media insinuavano che certe persone importanti avessero partecipato a “balletti rosa” (orge eterosessuali) o a “balletti verdi” (orge omosessuali con ragazzi maschi). In seguito altri scandali sessuo-politici avrebbero appassionato le masse dell’intero pianeta. Il più famoso coinvolse nei primi anni 1960 John Profumo, ministro della guerra del governo conservatore britannico presieduto da Harold Macmillan. Questo nobiluomo aveva avuto nel 1961 una breve relazione con una avventuriera di 19 anni, Christine Keeler, bella e stupida, che passava da un letto all’altro dell’alta società. Il punto è che Christine ebbe una relazione anche con il capitano Yevgeni Ivanov, attaché navale sovietico in Inghilterra, sorvegliato dall’Intelligence britannica. Si ipotizzò subito il rischio per la sicurezza del paese – anche se trovo alquanto improbabile che Profumo rivelasse, a una ragazza incolta, dei segreti militari che poi questa sarebbe andata a spiattellare al capitano sovietico! La base fattuale comunque, benché molto esile, c’era, a differenza del caso Montesi, parto della fantasia più sfrenata.
Ci fu un’inchiesta nel 1963, da cui emersero costumi e licenze del mondo patrizio e politico inglese. Stephen Ward, un osteopata che aveva messo in relazione Christine con i suoi amanti, si suicidò. Non solo Profumo dovette dimettersi da ministro, ma l’intero governo conservatore di Macmillan si dimise nel 1963. L’anno successivo il Labour Party vinse le elezioni. Il caso affascinò il mondo. La saggista Barbara Ward ricorda che nel 1963 suo marito fece un lungo giro, per conto dell’Onu, in paesi dell’Asia e dell’Africa. Al suo ritorno, lei gli chiese: «Di che cosa parla la gente in quei paesi duramente impegnati sulla via dello sviluppo?». Risposta del marito: «Di Christine Keeler». Ridotta alle sue dimensioni reali, si tratta di una storia alquanto banale: una fraschetta ha vari amanti, tra i quali un ministro e un attaché straniero. Ma anche qui i fatti vengono pompati da una straordinaria forza mitopoietica. Un moscerino fattuale viene ingrandito a elefante mediatico. Quel che gonfia il moscerino è l’alone sessuale trasgressivo del fattoide.
Potrei continuare con una lunga serie di eventi che Bruno Latour chiama faitiches – fatticci, condensazione di “fatti” e “feticci”. Basti qui ricordare il clamore, nel 1998, del caso di Monica Lewinsky, che portò quasi all’impeachment del presidente Clinton. Nell’autunno del 1998 ero negli Stati Uniti: quasi tutti i canali televisivi parlavano, incessantemente, del “caso”. È come se tutta l’America fosse entrata in un pallone voyeuristico. Anche io all’epoca ebbi un’esperienza simile a quella del marito di Ward. Andai dopo in Messico, dove frequentai alcune persone molto umili: anche loro non mi parlavano altro che della “lingua di Monica”. Abbiamo poi il bunga-bunga attribuito a Berlusconi. Nessuno ha mai saputo che cosa volesse dire bunga-bunga, e qui si constata la potenza del significante: in quel contenitore enigmatico ognuno poteva infilarci le proprie fantasie sessuali più sbrigliate.
Torniamo agli anni cinquanta. Fellini, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli si resero conto della forza mitopoietica del caso Montesi, così trasferirono il delirio in La dolce vita (1960). Nella parte finale del film assistiamo a un’orgia che Fellini voleva filmare appunto in una villa di Torvaianica, ma fu girata in una di Fregene. È come se gli autori dicessero al pubblico: «Da anni fantasticate di orge dell’alta società. E allora ve ne facciamo vedere una!». Il protagonista del film, Marcello, è un giornalistucolo di periodici scandalistici del tipo di quelli che crearono il caso Montesi. Negli anni ’60 avrei poi assistito a delle “orge”: erano più o meno delle imitazioni di quella di La dolce vita, dato che, come tutti sanno, la vita imita l’arte. “Fare un’orgia”, “l’ammucchiata”, divenne alla fine degli anni sessanta un tratto della cultura giovanile allora alternativa. Insomma, nella parte finale del film non si ricostruisce un’orgia come si praticava all’epoca, si inventa un’orgia in modo che la si potesse finalmente immaginare, ed eventualmente imitare.
Eppure nella festa di La dolce vita non avviene nulla di straordinario. Una ragazza fa uno strip tease, ma non lo completa. Si intravede un giovane che danza nudo, e poi alcool musica e ballo. All’epoca non circolava droga. Una festa del genere apparirebbe oggi sobria anche rispetto a una festa di fine anno scolastico di studenti cattolici. Si tratta piuttosto di un progetto di orgia che non prende veramente materia. Ma quel che affascinò all’epoca fu appunto il timbro orgiastico del tutto. E dove è il cuore dell’orgia, ciò che davvero non si può mostrare? Alla fine del film i viveurs, all’alba, come attratti da una forza magnetica, camminano verso la spiaggia. Qui vedono arenato un mostro marino, una manta del Mediterraneo, che sembra guardare i giovani. Qualcuno vi ha visto un’allusione al corpo di Wilma trovato sul bagnasciuga di Torvaianica… Ma perché la scena ci colpisce, come se avesse un profondo significato?
Probabilmente gli autori del film si sono ispirati alla parte finale dello storico film di Buñuel e Dalí L’âge d’or (1930). Qui vediamo uscire da un castello uno a uno i nobili libertini del romanzo di Sade Le 120 giornate di Sodoma, dopo aver consumato presumibilmente una lunga serie di orge sadiche. L’ultimo è il duca de Blangis che assomiglia a Gesù Cristo, e che risulta essere un serial killer di donne: nella scena finale i loro scalpi adornano una croce. Anche qui troviamo, alla fine, un femminicidio diremmo oggi, proprio come nella story di Montesi. Analogamente, nella festa de La dolce vita una donna ubriaca viene a lungo brutalizzata dal protagonista.
Nelle orge che milioni di italiani avevano immaginato, a cui il fatticcio Montesi aveva dato una consistenza allucinatoria, deve avvenire qualcosa di innominabile, ma in fondo anche di inimmaginabile. Si pensa che Loro si permettano godimenti non solo proibiti ma… indescrivibili. Divini… Da qui l’allusione a qualcosa di sacro, il buco nero invisibile attorno a cui l’orgia stessa ruota. In effetti, si alimentava la fantasia che alle orge di Torvaianica partecipasse un nipote del papa… metonimia del papa stesso, il quale a sua volta… è significante vicario di Dio. Come nel film di Buñuel, il capo non è Satana ma… Gesù Cristo. Le orge sacre delle Baccanti si reincarnano allora nel gossip massmediatico, nelle quali alla fine una donna muore. Persino in un film laico come La dolce vita, la parte finale del dopo-orgia sparge un odore equivoco di godimento mistico… il mostro marino, e la scena finale della ragazza pura (Valeria Ciangottini) che, come un angelo senza voce, cerca invano di chiamare Marcello verso qualcosa che non sapremo mai… Come non sapremo mai che cosa fosse il bunga bunga, significante vuoto, enigmatico, che riassume in sé tutto il mistero del potere. Il mistero di una libertà sconfinata, di un godimento sfrenato, di una complicità impenetrabile, che comunque lascia come resto un corpo morto femminile, scalpo di privilegi immani.
(articolo ripreso con il permesso dell’autore e del blog, da FataMoragana Web)
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