Tutti quelli che reagiscono nervosamente quando, seppure con discrezione, si propone non dico di abolire, ma quantomeno di rivedere o di ridiscutere le categorie politiche di sinistra e destra risalenti al lontano 1700, chissà cosa pensano allora della recente uscita della capa di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni; che, anch’essa rivedendo le due succitate categorie, propone da ora, non solo per sé, le categorie di Conservatori e Progressisti come identificazione dei due fronti politici in un sistema bipolare. Offrendo la sua proposta a tutta la platea politica, compresi quelli che considera avversari naturali. In questo sistema binario, neppure a dirlo, lei e il suo partito si collocano nei conservatori. Anzi Meloni si candida ad essere capa unica del fronte conservatore.
A voler fare un processo alle intenzioni è possibile che questo sia un espediente, improntato alla moderazione che i due termini portano con sé, per stemperare agli occhi dei potenziali elettori da conquistare, anche all’interno della sua stessa alleanza, la matrice di destra destra che la sua formazione si porta addosso. Ma forse è anche un segno di maturazione reale, non fosse per la semplificazione di questa partizione binaria e di tutte le contraddizioni che suscita da quando è stata posta, perché Meloni con questi due termini riprende una storia antica anche se ancora in voga in alcuni stati, in Gran Bretagna per esempio.
La partizione che lei propone, ben inteso, ha una sua ragione d’essere, ma anch’essa si presenta come un’attualizzazione di categorie appropriate, e bisogna vedere quanto, non oggi, ma due secoli fa, quando lo spartiacque era prevalentemente posto da una sola specificazione implicita dei due sostantivi plurali, quella sociale. La conservazione la si intendeva allora con chiarezza solamente sul piano sociale e relativa al mantenimento dei privilegi economici di classe o di casta; soprattutto con una gerarchia che, come per tutta la storia precedente si può dire dalle sue origini, non poteva e non doveva essere messa in discussione: i signori son signori, e il popolo straccione resti il popolo straccione di sempre e, se possibile, devoto ai signori, anche se tra i signori non ci sono solo i nobili ma anche i nuovi grandi borghesi, dei neo-signori. Punto. Questo significava conservazione, più chiaro di così?
Ma tanto per cominciare a mettere dei granelli a inceppare la solo apparente linearità del ragionamento, già alla fine dell’‘800 i potenziali conservatori sociali, i succitati ‘signori’, sul versante dei capitani d’industria che si andavano affermando, non lo erano affatto sul piano dell’economia e della tecnologia, sentendosi dei veri e propri paladini della modernità
in questi campi. Nei quali si definivano, o lo erano senza definirsi e, come si dice, a loro insaputa, apertamente molto ma molto progressisti, lasciando agli imprenditori agrari la conservazione a tutto tondo, anche sul piano dell’evoluzione delle moderne tecnologie; e neppure a tutti, di sicuro non agli agrari più accorti e lungimiranti.
Questo per ciò che riguarda il versante della conservazione. Invece il progresso sociale era visto, da chi se ne faceva portabandiera, come l’esatto e speculare contrario alla conservazione sociale e l’essere progressisti socialmente significava essere egualitari e a favore di una giustizia sociale senza classi, questa invece una cosa mai vista nella storia. Una parte allora rilevante dei progressisti sociali, quelli, di scuola marxista, lo erano poi di fatto anche sul piano del progresso economico tecnologico, non visto in contraddizione, anzi. Marx stesso stimava molto la moderna economia classica ed era abbastanza sgamato per capire che lo Stato Comunista che lui prefigurava avrebbe semplicemente rilevato tutto ciò che era stato attuato dal capitale sul piano del progresso tecnologico. E’ una teoria ben nota. Il marxismo era un estimatore dichiarato non solo di questa, ma di tutte le forme di modernità della storia. Semmai, e questa è un’altra bella contraddizione ancora non sanata, la scuola marxista non si sarebbe mai definita progressista socialmente perché sul piano sociale si sentiva rivoluzionaria. E la rivoluzione è la negazione della linearità progressista improntata invece ad una gradualità riformista, che il marxismo considerava un ingenuo velleitarismo degno di essere perfino sbeffeggiato. Secondo la partizione di Meloni, i marxisti ottocenteschi ne erano estranei, non giocavano la partita. E tuttavia anche nel fronte rivoluzionario, quantomeno agli esordi, non erano mancati filoni nettamente conservatori che, a differenza di Marx, vedevano nel progresso tecnologico e nelle ‘macchine’ un nemico del popolo, fino a vagheggiarne la distruzione, e penso al movimento luddista che intendeva così opporsi nientemeno che alla rivoluzione industriale per intero. Poteva sembrare un rigurgito iniziale destinato all’oblio, il luddismo, e invece no, e lo vedremo, la talpa di questo filone ha scavato fino ai nostri giorni.
Ed oggi? Ognuno valuti – e la domanda non vuole essere retorica – se ha senso questa partizione, di stampo moderato nel linguaggio, tra conservatori e progressisti, quando persino più di un secolo fa era già gravida di malintesi e palesi contraddizioni.
Per l’oggi penso soprattutto alla conservazione sociale. Se le si fa la domanda a muso duro, Meloni è sufficientemente accorta (e forse lo pensa veramente) per dire che no, anzi, lei è per la giustizia sociale, quando mai? Anzi il suo partito, e ciò che gli sta attorno anche agli estremi, spesso si fa paladino proprio degli strati sociali subalterni e, come forma di ribellione urlata, è un partito votato molto alle elezioni anche dagli strati subalterni che si annidano nelle cosiddette periferie, in quello che un tempo veniva chiamato il sottoproletariato. Difficile pensare, per quanto in politica molto sia strumentale, che Meloni non abbia in testa, per quanto a modo suo, qualcosa che assomigli alla giustizia sociale.
La Meloni conservatrice sarebbe quindi una progressista camuffata, andando così contro sé medesima? E quindi, nel momento stesso che definisce il campo conservatore non si accorge neppure che la conservazione sociale non le compete?
Certo lei è però molto abile a spostare l’asse del discorso sul concetto di conservazione in quanto conservazione dei valori, e qui è più a suo agio e in coerenza con la sua partizione. Sul piano dei diritti si allinea ai conservatori di sempre, facendo aperto riferimento alla religione cattolica, ai suoi riti, ai simboli culturali e alla stessa idiosincrasia di certa Chiesa per le liberalità eccessive. Le va però male con Francesco I/Bergoglio che lentamente sottotraccia, oltre che sul piano sociale in cui è apertamente supeprogressista quasi rivoluzionario, sta facendo passetti graduali in avanti anche sul piano dei diritti e del ridimensionamento dei simboli culturali cattolici; facendo apertamente capire che per i Cristiani i simboli culturali possono venire ben dopo la radicalità cristiana verso gli ultimi. Tuttavia, è pur vero che certa curia e certa Chiesa è con lei, nostalgica non tanto di Ratzinger quanto piuttosto di Ruini, un cardinale conservatore reazionario dichiarato. Inoltre tutta la partita contro l’emigrazione, caposaldo di coloro che si dicono conservatori, si gioca molto sul piano dello scontro di civiltà; dove per civiltà da difendere dalle altre culture estranee non s’intende l’occidente laico e secolarizzato, ma quello della tradizione cristiana, anzi cattolica. E non sono la stessa cosa.
(il resto dell’articolo è possibile leggerlo su www.luminosigiorni.it)
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