“Faccio parte di quella che avrebbe dovuto essere la terza generazione tessile della famiglia Nesi e mi era stato promesso il mondo.” Ma il destino dispone diversamente, e sotto i colpi selvaggi della globalizzazione del terzo millennio anche il lanificio Nesi chiude i battenti, sconfitto dall’invasione dei cinesi come il resto della piccola industria tessile pratese.
Storia della mia gente racconta dell’illusione perduta del benessere diffuso in Italia e di come l’impensabile sia potuto accadere, mentre una schiera di economisti arroganti e politici tremebondi lasciava sfiorire il capitale umano e produttivo del nostro Paese.
Erano i giorni in cui ero ancora arrabbiato, quelli a cavallo del nuovo millennio quando il fatturato della ditta si riduceva anno dopo anno, mese dopo mese, e tornavo a casa pieno di rabbia per le aste che i clienti ormai ci costringevano a fare per gli ordini più grossi, senza più dare importanza alla qualità del tessuto, all’affidabilità del servizio, alla puntualità delle consegne, al nome dell’azienda e alla sua storia. Sembravano diventati tutti sordi, i clienti. Anche i tedeschi.
Contava solo il prezzo e sul prezzo perdevamo sempre, perché c’era sempre qualcuno più disperato di noi – a Prato, sia chiaro, non a Wenzhou -, che evidentemente si era fatto imbibire delle entusiastiche, perniciose teorie per cui è sempre e solo l libero mercato a decidere qual è il prezzo giusto di qualsiasi bene, e così, poiché l’ordine non si può perdere, continuava a ribassare il prezzo dei propri tessuti riducendo l’utile fino a farlo scomparire. A quel punto noi ci ritiravamo, perdenti ma ancora e sempre convinti della bontà del principio antico che, dove non c’è guadagno, c’è perdita sicura.
L’asta però proseguiva senza di noi, stupida e cattiva, e veniva il momento in cui l’imprenditore disperato doveva sistemarsi il ciuffo e salire sulla sua Mercedes ML o sulla sua Audi (si comprano sempre quelle dannate, muscolari, macchine tedesche) e andare a strozzare i piccoli artigiani ancora più disperati di noi, quelli che dovevano filare e tessere, per offrire al cliente un prezzo ancora più basso, in una spirale perversa che mostrava la faccia sporca dell’idea del libero mercato e sembrava voler follemente provare a realizzare a Prato il risparmio di costi che garantiva la delocalizzazione delle lavorazioni – come se Prato, con la sua storia centenaria di produzione di tessuti, potesse di colpo diventare un pezzo di Transilvania – per cui gli artigiani si ritrovavano costretti a dover lavorare alle tariffe degli anni ’80, in un rincorsa insensata a offrire il prezzo più basso – il prezzo romeno – pur di ottenere l’ordine, vittime di una follia che sembrava contagiare tutta la città e ci metteva fuori gioco, noi del Lanificio T.O. Nesi & Figli S.p.A., ci rendeva marginali e antiquati.
Così, autoalimentata, si diffondeva inarrestabile la certezza che, non guadagnando più nessuno, il tessile non aveva futuro, e gli imprenditori finivano per abdicare dal loro ruolo creativo – perché, credetemi, se c’è un lavoro creativo e romantico è di certo quello dell’imprenditore – e diventare un branco di cacadubbi impauriti, prigionieri di una mentalità da ragionieri che avevano sempre sdegnato. Finivano per mettere da parte quella libertà di pensiero che li aveva aiutati a costruire dal nulla le loro aziende selvatiche e pagane, per dimenticare l’intuito miracoloso che faceva intravedere loro l’affare dove questo non sembrava esserci, la chiaroveggenza ferina che li pungolava fino a non lasciarli dormire la notte, la convinzione che il futuro bisogna costruirselo con le proprie manie a propria misura, oppure si subisce quello degli altri.
Cazzottati da un declino cattivo e veloce come il morso di una vipera, ossessionati dall’incubo che la loro azienda che aveva sempre guadagnato fosse diventata in pochi anni una maledetta macchina mangiasoldi, nei loro terribili dormiveglia gli imprenditori erano tormentati dal costo dei dipendenti come Amleto dai fantasmi, perché se erano diventati pesantissimi gli stipendi da pagare ogni mese insieme a tutti quei dannati contributi, un vero e proprio incubo parevano le liquidazioni, e così cominciavano a dirsi che forse non avevano davvero bisogno di tutta la gente che ogni mattina si trovavano tra i piedi, e avviavano a licenziare, spesso a caso pur di vedere ridotti i costi, tra i quali il boia maggiore era lo spettro delle spese generali: quelle di struttura, fisse e immutabili ed eterne, che aumentano ogni giorno e vanno pagate comunque, come gli interessi passivi, l’affitto del capannone, la luce e il riscaldamento e tutte le tasse, compresa quella davvero punitiva creata dal primo governo Prodi sotto gli auspici dell’allora ministro delle Finanze, l’ineffabile Vincenzo Visco, che porta il nome di IRAP e a Prato è stata ribattezzata IRAQ per la similare devastazione creata – un’invenzione infernale che ti costringe a pagare non in base all’eventuale utile conseguito, ma in base al fatturato che realizzi e al numero dei dipendenti che hai e agli interessi che paghi alle banche e persino alle perdite sui crediti che ti tocca pagare, che ti tocca sopportare; una tassa vecchia nata con il giusto intento di colpire i guadagni degli evasori e che oggi massacra le aziende in difficoltà e viene sentita come l’ingiustizia suprema perché si è obbligati a a pagare le tasse anche quando si perde davvero.
E così, mentre maledivano se stessi e i clienti e i dipendenti e la crisi e la globalizzazione e tutti i Giavazzi del mondo che invece di aiutarli li prendevano per il culo coi loro consigli di licenziare gli operai per assumere giovani matematici, gli imprenditori arrivano ormai a sdegnare di passare il tempo in quella stessa fabbrica dove solo pochi prima andavano magari anche di sabato e di domenica a non fare nulla, contenti di passare un pomeriggio di quiete circondati dalle proprie cose e rassicurati dal proprio ruolo, e si davano a salire e scendere frenetici dagli aerei per cercare ordini in ogni parte del mondo, e quando arrivavano agli antipodi di Prato e scoprivano che non c’era verso d’allontanarsi di più dal destino loro e della loro azienda, allora telefonavano a me, ubriachi e stremati dal fuso orario, e mi raccontavano di notti in cui non riuscivano a prendere sonno per via del caldo o del freddo o della solitudine, o anche solo per le cateratte di pensieri che li assillavano, e mi dicevano che aveva fatto bene a vendere l’azienda, e che s’erano portati in viaggio il mio libro e stavano leggendo una cosa fantastica del Barrocciai e per questo m’avevano telefonato, per dirmi quanto gli era piaciuto e poi, sempre, tutti, facevano una pausa perché anche da ubriachi s’erano accorti d’aver detto troppo, e con qualche saluto affrettato riattaccavano, pentiti d’avermi chiamato.
Correvano a tuffarsi in tutte le maledette aste senza badare al prezzo a cui se le aggiudicavano, senza accorgersi che a quel punto erano bell’e pronti per consegnarsi alle grandi aziende dell’abbigliamento mondiale così adorate dai giornalisti economici, quei titanici gruppi stranieri che vendono in tutto il mondo i loro cenci senz’anima e senza fantasia, e sono i veri beneficiari della globalizzazione; ai padroni del nostro spaurito mondo globale, quelli che credono fermamente giusto che il prezzo ideale di un prodotto lo decida il mercato e solo il mercato, perché il mercato sono loro; quelli che promettono l’illusione della moda al prezzo più basso, Giorgio Armani al costo dell’UPIM, che affidano la loro immagine a paginate di giornali e riviste popolate da ragazzini sorridenti e multietnici sprizzanti allegria e giovinezza e colore, i super gruppi di dimensione planetaria che sembrano onorare i nostri piccoli imprenditori coi loro grandi ordini e invece li sfruttano strozzandoli a morte sul prezzo; quelle titaniche aziende globali che si acquattano nei loro quartier generali nuovi e splendenti creati dai loro servi più fedeli, gli architetti di grido: monumenti diacci e sterili fatti d’acciaio e cemento e vetro che riflettono il cielo e le nuvole dove lavorano solo dirigenti e impiegati perché la produzione dei capi avviene in un’altra parte del mondo, in fabbriche del tutto diverse – credetemi le ho viste – e da persone del tutto diverse, che non solo non arrivano mai a comparire sulle pagine di pubblicità, ma non hanno nemmeno i soldi per comprarsi una copia delle riviste su cui compaiono le réclame dei loro generosi datori di lavoro; quei giganti dell’abbigliamento, insomma, che sono quotati in tutte le Borse del pianeta e sono gestiti da mani ferme (e crudeli, quanto mi piacerebbe poter scrivere che hanno mani crudeli),che guadagnano centinaia di milioni di euro ogni anno mentre i loro fornitori italiani, cioè le aziende che producono i tessuti più belli del mondo, devono licenziare la gente e scrivere il falso per poter chiudere il bilancio in pareggio o le anche gli si getteranno addosso come iene.
E nessuno, nessuno, nessuno che spenda una parola per dire quanto sia sbagliato e falso e stupido che il tessuto – la componente di gran lunga più importante di ogni capo di abbigliamento, la sua sostanza ed essenza, la sua materialità e la sua prima immagine, ciò che per primo si vede e si tocca, la ragione principe per cui si decide se comprare o no – sia così svilito da rappresentare solo una minima parte del costo del capo, mentre la parte di gran lunga preponderante è rappresentata dall’utile del confezionista dalle mani crudeli e dai costi della pubblicità dei ragazzini sorridenti!
E’ così che si entra nella fase terminale della storia della piccola imprenditoria tessile italiana, quando alla fisiologica concorrenza, alla sana lotta per il guadagno si sostituisce una furibonda battaglia per assicurarsi niente più che una sopravvivenza tiepida e sempre più stenta; quando gli imprenditori si sentono consolati dal solo fatto di poter continuare ogni giorno ad andare in fabbrica a fare il loro lavoro, di poter continuare a dirsi e a farsi chiamare industriali quando invece non fanno altro che scimmiottare il loro recente passato, senza accorgersi di avviare a somigliare agli zombi di Romero, quelli che da morti continuavano ad andare al supermercato perché si ricordavano di aver fatto solo questo in vita.
(Ringraziamo Edoardo Nesi per aver dato a SoloRiformisti l’autorizzazione a pubblicare la parte iniziale del capitolo I tessuti più belli del mondo tratto da Storia della mia gente)
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