Sta prendendo piede, certamente influenzato dal mantra sindacale ma ora corroborato da più
autorevoli ed oggettivi interventi istituzionali (ISTAT e INPS), il racconto di una società che
progressivamente si impoverisce e aumenta al suo interno le diseguaglianze di reddito, a causa
soprattutto di salari troppo bassi.
A dire il vero si tratta di un’argomentazione piuttosto recente, perché fino a poco tempo fa la
narrazione era che tra lo Statuto dei Lavoratori e i CCNL la tutela fosse eccellente!
Per valutarne l’autenticità vale la pena di valutare qualche dato. Eurostat ci dice che la paga oraria
media lorda nel 2021 è stata di 15,55 € contro € 16,9 dell’Area Euro, i 19,66 della Germania e i
18,01 della Francia. La paga mensile lorda lo stesso anno è stata 2.520 € in Italia, nell’area Euro
2.825, in Germania 3.349, in Francia 2.895. Quella annua 34.792 €, nell’area Euro € 38.559, in
Germania 44.933, in Francia 37.956.
Secondo Job Pricing, che prende in considerazione i dati OCSE, nel 2020 i salari italiani erano al 25°
posto su 36 paesi, pari all’80% della retribuzione media OCSE. Tutti i dati precedenti sono espressi
in Parità di Potere d’Acquisto.
Da rimarcare che la differenza tra la retribuzione contrattuale e quella di fatto è piuttosto bassa:
2,3% nel 2020.
I salari sono dunque mediamente bassi, ma vale la pena scomporli per aree di analisi per cercare
di capirne le cause.
Innanzitutto, nonostante i luoghi comuni pauperisti la differenza tra salari alti e bassi non è affatto
alta, anzi è tra le più basse in Europa: i salari “bassi” ossia inferiori a 2/3 del salario mediano sono
soltanto il 3,7% del totale, il più basso nell’UE, e quelli “alti” ossia superiori alla mediana di una
volta e mezzo sono il 19%, i più bassi dopo la Germania (18,7%); il grosso dei salari si distribuisce
abbastanza uniformemente in una fascia centrale.
Allineato a questo dato è quello che relativo al differenziale di retribuzione per livello d’istruzione:
la differenza di salario tra i livelli d’istruzione più bassi (primaria e/o secondaria inferiore) e più alti
(terziaria e superiore) in Italia è tra 27.806 € annui e 44.104; in Germania rispettivamente 27.005 e
68.144; in Francia 28.115 e 47.696; nell’area Euro 25.518 e 51.200. Ancora una volta troviamo che
le retribuzioni “basse” sono più alte della media europea, ma quelle “alte” sono più basse. Pare
emergere sorprendentemente un quadro in cui i salari sono mediamente bassi soprattutto per
colpa di quelli “alti” mentre quelli più bassi hanno una buona performance. (Eurostat).
Anche dal punto di vista della distribuzione per classi di età le retribuzioni italiane mostrano una
curva più schiacciata rispetto a quelle di Germania e Francia: la crescita, tra i salari di chi ha meno
di 30 anni e di chi ne ha più di 50, è del 52% da noi, del 58% in Germania e 59% in Francia.
Mentre per quanto concerne il gender gap ci collochiamo a metà classifica, in buona compagnia di
Norvegia e Finlandia con un indice del 16%.
Importante anche esaminare come cambia il salario a seconda del settore produttivo: escludendo
l’agricoltura e i servizi familiari, difficili da pesare perché sconfinano nel lavoro sommerso, i
comparti in cui la retribuzione (di fatto) è più bassa sono edilizia (26.482 annui) e servizi (28.749).
Ma, a parte il comparto finanza/credito, anche i comparti industriali non sono molto più alti:
32.000 l’industria di processo e 30.486 l’industria manifatturiera (dati Job Pricing). Molto istruttivo
la comparazione con i dati europei: il delta tra la retribuzione nell’industria di processo
(normalmente la più alta esclusi i servizi finanziari) e i servizi esclusa la P.A. è del 23,5% in
Germania, del 13% in Francia, del 7% in Italia; e del 14,5% nell’area Euro (dati Eurostat). Questo
schiacciamento del dato italiano è dovuto essenzialmente ad un livello relativamente abbastanza
alto della retribuzione nei servizi (soltanto -8,7% rispetto ad area Euro, -7,5% rispetto alla Francia,
-24% rispetto alla Germania) e piuttosto basso per l’industria di processo (-17% con l’area Euro,
meno 43,8% con la Germania, -14,7% con la Francia).
Tutti questi dati fanno riferimento alla retribuzione “di fatto” che comprende le voci riconducibili
ai CCNL più elementi contrattati in azienda (o più raramente sul territorio); da notare che, come
già detto, l’ammontare degli elementi aggiuntivi è mediamente piuttosto esiguo: 2,3%, ma 11%
per i dirigenti (basso anche il dato dei quadri: 4,5%).
Tutto questo induce una riflessione circa la copertura quantitativa e qualitativa dei CCNL.
Innanzitutto, come segnala il Bollettino ADAPT sulla base di dati Cnel e INPS, dei 900 e rotti
Contratti depositati nell’Archivio INPS meno della metà sono realmente applicati, e sono quelli
sottoscritti da CGIL CISL UIL più occasionalmente qualche sindacato autonomo, e coprono circa il
97% dei lavoratori cui viene applicato un contratto. Scarsissima quindi l’influenza, anche statistica,
dei “contratti pirata”. Vi sono tuttavia, si dice, moltissimi lavoratori (milioni, dice il luogo comune)
che lavorano senza contratto alcuno. In realtà, come dimostra ADAPT, basta prendere in
considerazione gli UNIEMENS presentati all’INPS nei quali va riportato il codice del CCNL applicato:
escludendo i dipendenti della P.A., il cui trattamento contrattuale è ovviamente noto, i lavoratori
del settore privato sono 13.643.659, e soltanto in 729.544 casi l’UNIEMENS non indica il CCNL (dati
2021). Difficile dire quanti siano semplicemente i casi di datori di lavoro che dimenticano di
mettere il codice, e quanti i lavoratori cui non viene applicato un CCNL ma si ricorre ad un accordo
diretto col datore ( cosa diversa, comunque, dal lavoro sommerso). In ogni caso si può dire,
probabilmente esagerando, che tra i 500 e 700 mila dipendenti lavorino senza un CCNL, quindi tra
i 3 e il 5%. In definitiva la copertura contrattuale tutela almeno 12.900.000 dipendenti privati, più
3.200.000 dipendenti pubblici; restano fuori 950.000 lavoratori dell’agricoltura e circa 800.000
lavoratori domestici che non vengono considerati nella statistica perché hanno trattamenti
contrattuali di impianto molto diverso dai CCNL tradizionali, e spesso applicati meno
rigorosamente. In conclusione la contrattazione collettiva in Italia è largamente applicata, con
quote non lontane dal 100%. Dunque i dati sopra riportati, che si rifanno appunto alla
contrattazione collettiva, forniscono un quadro piuttosto preciso del trattamento salariale
esistente in Italia.
Dal punto di vista qualitativo è inevitabile notare come il sistema della contrattazione collettiva
nazionale colga in modo efficace l’obiettivo che la filosofia sindacale corrente le attribuisce:
garantire i lavoratori di bassa professionalità e delle piccole imprese, che non hanno la forza
negoziale per contrattare in azienda. Infatti, come visto, i livelli retributivi italiani di fascia
inferiore sono mediamente alti in Europa e meno distanti della media europea rispetto ai livelli
alti.
In altre parole, l’assoluta preponderanza del Contratto Nazionale difende i più deboli ma schiaccia
i meno deboli, comprimendo la media salariale. E questa caratteristica che torna peraltro molto
spesso nella retorica sindacale (“stare con gli ultimi”) determina la peculiarità del nostro sistema
retributivo.
Vale anche la pena di soffermarsi sul c.d. cuneo fiscale-contributivo, che definisce la retribuzione
netta spendibile per i lavoratori. Un recentissima ricerca di Università Cattolica ci dice che il cuneo
fiscale-contributivo mediamente vale il 46% del costo del lavoro, per cui una retribuzione di
23.948€ in realtà corrisponde ad un reddito lordo di 44.779€. Definisco questa cifra, che in realtà è
il costo lavoro per l’azienda, come reddito lordo perché nel c.d. cuneo sono presenti imposte a
carico del lavoratore (mediamente 15,3%), contributi a carico del lavoratore (circa 9%) e a carico
del datore (circa 24%): questi ultimi finanziano per la gran parte la previdenza, che possiamo tutto
sommato considerare come una sorta di retribuzione differita, e altre prestazioni di tipo
assicurativo: Cassa Integrazione, Indennità di Disoccupazione, Malattia, Maternità, Assegni
Familiari, ecc. In sostanza poco meno della metà del reddito generato a favore del lavoratore
finanzia assicurazioni e previdenza.
Non è una situazione comune: in Germania i contributi pensionistici, tra carico lavoratore e carico
impresa, sono del 16%, e ovviamente generano pensioni molto più basse di quelle italiane. Per cui
tutti i lavoratori tedeschi si pagano a parte una previdenza integrativa. Non solo: nel cuneo fiscale
dei lavoratori tedeschi è compreso anche un 14% che va a finanziare la sanità pubblica; in Italia il
lavoratore non la paga, perché è a carico della fiscalità generale.
E’ opportuno qui notare che per buona parte delle retribuzioni (almeno quelle inferiori a 15.000 €
annui, più di 8 milioni) il prelievo fiscale viene annullato grazie a detassazioni e detrazioni fiscali in
favore delle fasce più deboli.
In sostanza il cuneo fiscale al livello delle retribuzioni europee più alte comprime il salario netto
medio portandolo al di sotto della media dell’area Euro di circa 900 € annui. Si tratta di una scelta,
forse mai assunta programmaticamente, per cui viene privilegiato la finalità assicurativoprevidenziale
nella retribuzione.
Il peso del cuneo non è sufficiente tuttavia a spiegare lo schiacciamento sui valori bassi delle
retribuzioni italiane. Un’ altra causa è da ricercarsi in una curva delle professionalità presenti tra gli
occupati che in Italia tende al piatto, con prevalenza, rispetto ai partner europei, di lavoro
scarsamente specializzato: in Italia il profilo più presente è quello delle professioni manuali
qualificate, mentre in Germania è quello delle professioni tecniche intermedie, in Francia e
nell’area Euro le professioni intellettuali e scientifiche. L’Italia è anche il Paese con la più alta
percentuale di professioni non qualificate (13% contro una media Area Euro del 9,9% – dati
Eurostat). Ovviamente la parametrazione dei salari sulla base di questa scala determina una media
retributiva bassa.
Ma vi sono anche ragioni intrinseche alla struttura produttiva, in particolare alla produttività Non
solo del lavoro, ma di tutti i fattori che la determinano. Per un quadro più preciso, vale la pena fare
un paio di raffronti tra la performance italiana e quella dei nostri partner europei: il PIL prodotto
per ora lavorata in Italia è pari 54,2€, contro 60,5 dell’Area Euro, 67,1 della Francia e 67,6 della
Francia. Il Pil pro capite annuo (per addetto) è di 41.995€ in Italia, 47.133 per l’Area Euro, 46.691
in Francia e 54.884 in Germania.
Il nesso tra produttività retribuzione è visto con molto fastidio da un po’ di sindacalisti,
evidentemente convinti che i livelli salariali li debba decidere la Politica e non il Mercato: pensare
che circa 45 anni fa il povero Lama ammoniva che il salario non è “variabile indipendente”, come
allora pensavano i precursori di Landini e dei suoi amici… Del resto stiamo vedendo che proprio in
questi giorni di salario il sindacato non discute con le imprese ma con l Governo, e gli aumenti che
rivendica non sono in relazione ad una contrattazione sulla ripartizione degli utili ma ad interventi
fiscali e parafiscali. Un vecchio retaggio culturale: se col padrone non la si sfanga ci si rivolge a
Mamma Stato.
In definitiva prendiamo atto che in Italia la gran maggioranza dei lavoratori è tutelata dai CCNL,
ma che i salari medi contrattuali sono bassi rispetto ai livelli europei, poco diversificati per
professione, età e comparto, con le fasce base più allineate ai livelli europei e quelle alte molto
meno allineate. Un sistema salariale un po’ povero e propenso all’ egualitarismo, più inteso a
finanziare le assicurazioni sociali che la capacità di spesa, con difficoltà a stimolare-beneficiare
della produttività a causa di un modello di contrattazione collettiva molto accentrato e
imperniato sulle fasce più deboli. Il problema dei working poors è in parte sovrapponibile a
quello del lavoro sommerso e coincide in buona parte con il part time e col lavoro non continuo.
(articolo ripreso, con il consenso dell’autore, da Mercato del Lavoro News n. 134)
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