Chi si limitasse alla lettura del titolo di questo articolo potrebbe pensare di trovarsi di fronte alla riproposta delle tesi antidemocratiche che molto successo hanno avuto nella prima metà del XX secolo. Niente di tutto questo, non ho nessuna intenzione di mettere in discussione la democrazia come metodo e come valore. Ma la crisi dei partiti è così evidente – in Italia ma non solo – che, al contrario, è un atto di fiducia nella democrazia cercare di comprendere quale può essere oggi la loro funzione.
Per più di un secolo la funzione dei partiti è stata quella di orientare l’opinione pubblica intorno a scelte spesso radicali tra sistemi sociali e politici contrapposti o comunque tra proposte che presupponevano diverse visioni della società.
Dal crollo dell’ideologia comunista avvenuto ormai trenta anni fa – quella fascista era stata sconfitta con la II guerra mondiale – le contrapposizioni che si sono volute tenere in piedi sono apparse sempre più forzate e usate soprattutto per puntellare classi dirigenti in difficoltà. Questo non significa che non possano esserci proposte politiche diverse intorno a temi concreti; quello che sembra non avere più senso è cercare di far apparire queste diversità come la conseguenza di alternative ideologiche inconciliabili che presuppongono la distruzione dell’avversario. Ormai, almeno nel mondo occidentale di cui fa parte l’Italia, c’è un consenso condiviso intorno al modello di società nella quale si vuole vivere: una società basata sulla libertà e la democrazia, sullo sviluppo economico sostenibile e sulla riduzione delle disuguaglianze sociali. Le differenziazioni nascono sull’individuazione dei mezzi per raggiungere questi scopi ed entra qui in gioco il ruolo delle classi dirigenti.
Anche quando la politica era attraversata da profonde divergenze ideologiche l’individuazione della classe politica è sempre stata una funzione primaria dei partiti. Oggi che quelle contrapposizioni sono cadute questo ruolo dovrebbe essere fondamentale per i partiti ma, al contrario, sembra venuta meno proprio tale capacità. Ho detto individuazione e non formazione della classe politica per evitare il rischio che si intenda parlare solo delle scuole di partito, tanto in voga in passato e che oggi sembra che qualcuno voglia riproporre. Certamente esiste anche il problema della formazione dei quadri intermedi dei partiti, ma se parliamo di individuazione è perché nella società civile che sempre più si possono ritrovare le figure capaci di svolgere una funzione politica di alto livello. Si pensi all’esperienza del Partito Repubblicano, che costituì una specie di modello: figure come Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini provenivano da una formazione esterna a quella di partito, eppure sono stati capaci di caratterizzare una stagione politica. Qualcosa di analogo sta avvenendo oggi con Mario Draghi e il suo governo, in particolare con quei ministri che, come il Presidente del Consiglio, hanno una provenienza esterna rispetto ai partiti. Ma il paradosso consiste nel fatto che i partiti, invece di guardare con favore a questa esperienza e cercare di farla propria, la osservano con diffidenza e con timore e auspicano che si concluda al più presto. Se fossero meno miopi e soprattutto più attenti alle esigenze e agli indirizzi presenti nel Paese si renderebbero conto che la loro funzione sarebbe proprio quella di fare in modo che le migliori capacità presenti nella società si impegnino nel governo della cosa pubblica, a tutti i livelli. Se questo non avverrà il Paese guarderà con sempre maggiore favore a governi che a torto vengono chiamati tecnici e che sono invece del tutto politici, solo che sono formati da esponenti non di partito. Se questa tendenza dovesse rafforzarsi allora ci si potrebbe chiedere davvero se i partiti sono ancora necessari.
(questo articolo con il consenso dell’autore è ripreso dalla Vice Repubblicana del 24/05/2021)
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