La Resistenza italiana fu rossa o tricolore? Questa è la domanda che sottende tutta la raccolta di saggi curata da Tommaso Piffer e dedicata a «Le formazioni autonome nella Resistenza italiana», di recente pubblicazione da Marsilio, e che a sua volta trascina con sé un’altra domanda: perché ancora oggi, a più di settanta anni da quegli eventi, quello della Resistenza continua a essere un tema divisivo anziché unificante, come invece è avvenuto in Francia e in altri Paesi europei?
Chiedersi se la Resistenza fu rossa o tricolore significa chiedersi se l’apporto comunista fu davvero preponderante rispetto a quello di altre formazioni partigiane, in particolare di quelle autonome di cui questo libro raccoglie un notevole numero di esempi; ma anche porsi il problema della narrazione che della Resistenza fu fatta nel dopoguerra, con il contributo di molti storici: una narrazione che privilegiò non solo il ruolo delle Brigate Garibaldi e di quelle azioniste rispetto a quelle autonome che avevano un carattere essenzialmente militare, ma che piegò anche alle esigenze di partito le finalità stesse della Resistenza, che erano per chi vi partecipò direttamente soprattutto quelle di combattere i tedeschi e i fascisti collaborando alle sforzo bellico degli Alleati, mentre da parte del PCI e del PdA venivano privilegiate istanze di rinnovamento politico e sociale che, se erano vaghe e confuse per quanto riguardava gli azionisti, erano invece assai chiare da parte comunista, come si vide in quei paesi, e in particolare in Jugoslavia, dove poterono dare alla Resistenza il loro taglio programmatico.
Come scrive Piffer nell’«Introduzione», fondamentale fu «il rifiuto dei vertici delle formazioni autonome di declinare la guerra di Liberazione in un senso di rottura dell’ordine sociale, in netta opposizione, quindi, sia con il collettivismo di stampo sovietico, che costituiva il dna del movimento comunista internazionale, sia con la cosiddetta rivoluzione liberale di marca azionista». Per le formazioni autonome la Resistenza si configurava essenzialmente come lotta di Liberazione nazionale dall’occupante nazista privilegiando quindi gli aspetti militari rispetto a quelli politici. Quegli aspetti furono invece ben presenti a chi guidava le formazioni inquadrate nelle Brigate Garibaldi: fondamentale in questo senso fu la figura del commissario politico, una figura assente nelle formazioni autonome. Le migliaia di giovani che nell’autunno del 1943 e poi nella primavera-estate del 1944 entrarono a far parte delle Brigate Garibaldi non erano inizialmente mossi da motivazioni politiche: per molti di loro la motivazione principale era quella di sfuggire all’arruolamento forzato nell’esercito repubblichino; per chi già andava maturando una coscienza politica la motivazione essenziale era quella di combattere contro l’occupante tedesco e il suo alleato fascista. Ma una volta entrati a far parte di una Brigata Garibaldi quei giovani venivano sottoposti all’indottrinamento del commissario politico che poteva facilmente indirizzarli nel senso voluto dal partito nel cui nome le formazioni partigiane erano state costituite. Perché quello fu un tratto peculiare della Resistenza italiana che non troviamo in altri Paesi europei: le formazioni partigiane furono fin dall’inizio formazioni di partito: comuniste, socialiste, azioniste, mentre solo le formazioni autonome, di solito costituite per iniziativa di militari dopo il crollo dell’esercito seguito all’armistizio dell’8 settembre, rifiutarono costantemente quel carattere di partito.
Ma se sul piano militare le formazioni autonome dettero, come documentano i vari saggi, un contributo alla lotta contro tedeschi e fascisti non inferiore a quelle delle formazioni comuniste e azioniste, persero però, nel dopoguerra, la guerra della memoria. Come scrive Piffer, «la narrazione dell’esperienza resistenziale affermatasi fin da subito dopo la fine del conflitto rimase infatti ancorata al binomio “progressisti” e “conservatori” secondo il quale solo le formazioni politiche e partigiane che puntavano a un complessivo rinnovamento dell’assetto politico e sociale italiano ne avrebbero rappresentato l’anima autentica». Le formazioni autonome «furono per questo espulse da una storia che avevano contribuito in gran parte a scrivere». In una diversa direzione si ripeté la stessa dialettica che aveva portato, alla fine della I guerra mondiale, a considerare “mutilata” una vittoria che era stata conquistata a caro prezzo. Dopo la I guerra mondiale fu la destra, e in particolare il movimento fascista, a utilizzare il mito della “vittoria mutilata”. Nel secondo dopoguerra fu la sinistra a diffondere il mito della “Resistenza incompiuta” o “tradita”, Due miti apparentemente di segno opposto ma frutto entrambi di un voluto intorbidimento delle finalità da un lato della Grande Guerra, dall’altro della Resistenza.
Se l’Introduzione» di Tommaso Piffer definisce in maniera chiara i termini del problema così come l’abbiamo finora descritto, il saggio di Ernesto Galli Della Loggia (“Le formazioni autonome nella Resistenza. Appunti per una ricerca”) ne approfondisce con lucidità i termini storiografici. A questi saggi introduttivi segue il grosso del volume, costituito dall’analisi di dodici casi di formazioni autonome che hanno lasciato un segno profondo nelle vicende della Resistenza italiana. Riemergono così vicende che erano state sottovalutate o completamente dimenticate, dall’epopea della Brigata Maiella a quella delle formazioni di Enrico Martini “Mauri”, ad altre ancor meno conosciute ma che tutte insieme compongono un’immagine della lotta di Liberazione più autentica di quella finora tramandata dalla storiografia dominante.
(questo articolo con il consenso dell’autore è ripreso da “Pagine Ebraiche 24” del 17/12/2020)
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