Oltre ogni possibile immaginazione, Israele è ferita come non mai mentre Hamas festeggia la morte di centinaia di ebrei e migliaia di feriti. È stato un disastro, le difese del mitico esercito di Israele sono crollate. I missili hanno colpito e i terroristi hanno insanguinato quasi tutto il territorio nazionale. Tel Aviv e Gerusalemme sono finite nei rifugi. Il sud si è coperto di morti e feriti. È stato il giorno della sorpresa, dello stupore anche se adesso nell’inizio della nuova impresa «Spade d’acciaio» combatte duramente per non subire mai più un simile sfregio. Ci sono stati eroi, la gente ha combattuto contro un furioso assalto, programmato per mesi, chissà con quanto aiuto, soldi, uomini dell’Iran e dei suoi amici. Ma anche se in queste ore Israele, come ha detto Netanyahu, è in una autentica guerra di difesa che «ferma l’attacco, punisce i responsabili, dissuade chi ambisce a unirsi a Hamas».
Sono corsa una decina di volte nel rifugio al suono della sirena con parte della mia famiglia. Siedi nella semioscurità e senti le esplosioni, poi si spengono e puoi uscire. Pensavo nella stanzetta polverosa a una neonata a Kfar Aza, nel nord. Ha pianto otto ore da sola, finché qualcuno l’ha trovata nella polvere di una casa vandalizzata. I suoi forse sono ostaggi o ammazzati o impazziti di paura quando dalla Striscia sono arrivati su un camion nel loro villaggio un centinaio di terroristi urlanti, con i kalashnikov, una torma selvaggia, con l’ordine di Ismail Hanye dal Qatar e di Yehie Sinwar e di Muhammad Deif da Gaza di «uccidere quanti più ebrei possibile» e di rapire, terrorizzare, picchiare. Quella bambina ignara e disperata è per me il simbolo di una giornata simile forse soltanto a quell’Yom Kippur di un giorno e 50 anni fa, nel 1973, quando mentre la gente d’Israele andava al tempio, fu aggredita da tutte le parti, per poi vincere miracolosamente Egitto e Siria, ma prima perse migliaia di ragazzi. Le sirene furono l’inizio di un incubo. Hamas e la Jihad Islamica si sono ripassati parecchie volte quella vicenda.
Alle 6 comincia a scuotersi di singulti il mio telefonino, cosa vuoi così presto? Gli chiedo ancora mezza addormentata. La risposta mi sveglia subito, una salva di missili su quasi tutta Israele. Due anni fa la sirena urlò solo un paio di volte a Gerusalemme, in genere la popolazione araba limita gli spari palestinesi, per ora sembra solo la solita sventola di razzi, la solita esclamazione insensata sulla Tempesta, come ha chiamato la sua guerra Deif, il capo militare di Hamas. Ma qui le sirene sono fioccate una dopo l’altra, come in tutta Israele, una follia. Ci telefoniamo stupefatti. Al solito Hamas presenta le sue operazioni come gloriose battaglie religiose per salvare la Moschea di Al Aqsa. Anche stavolta, e come al solito al Aqsa non c’entra niente.
Le corse verso il rifugio si sono fatte frequenti in mattinata: il rifugio è polveroso, indispensabile quanto tedioso, senti i tonfi e non puoi fare niente, non c’è nemmeno una bottiglia di minerale, manca una seggiolina, stai per terra, cerchi di sorridere per non spaventare gli astanti, vuoi solo capire quanto puoi uscire ma qui la radio e il telefono non prendono. Durante la giornata diventa sempre più evidente che Hamas gioca per la prima volta una doppia strategia: i missili, con la capacità tecnologica di colpire Tel Aviv e Gerusalemme. E poi le stragi dirette, compiute a mano dai terroristi: a Beeri, Ofakim, Magen, Sofa, Nir Itzkach, Nahal Oz e altri kibbutz e villaggi. Orde con armi automatiche sono arrivate tutta la giornata su auto e camion. La radio e la tv fra una sirena e l’altra trasmettevano le telefonate disperate della gente assediata dentro le case, mentre i palestinesi davano la caccia agli abitanti. Un gruppo di varie centinaia di giovani riuniti nel deserto per una festa, è fuggito mentre gli sparavano addosso: andava, tornava nel deserto come anatre-bersaglio in uno stagno, alcune decine sono spariti, forse rapiti o uccisi. I terroristi hanno rubato carri armati e veicoli militari e ucciso tutti i soldati di guardia in una postazione vicina a Gaza; a Ofakim, a Sderot si sono scatenati, avidi di uccidere e di portarsi via quanti più prigionieri. Nella sala da pranzo del kibbutz Beeri si sono ancora 50 prigionieri di Hamas. Il sangue è scorso a fiumi. Gli ostaggi sono centinaia: vecchiette caricate su motociclette, giovani e ragazze legati, sanguinanti, col mitra puntato alla tempia, trascinati, picchiati. È un trauma ancora indefinito, un’ansia sconosciuta, per cui anche il capo dell’opposizione ha dichiarato che è pronto a formare un governo di coalizione: Israele si sente messa a rischio, beffata. E il lutto è grande: tutto l’epos è in crisi, anche se già si conoscono molte storie di resistenza eroica.
Ma come è potuto accadere tutto questo, l’uno chiede all’altro? L’Iran ha aiutato a programmare la maggiore operazione che Hamas, con la Jihad abbia mai intrapreso? La risposta logica è certa e la sua dichiarazione di sostegno si unisce alla ferocia e al razzismo che ieri ha avuto una sua rappresentazione plastica. Adesso resta la guerra. Occupare Gaza? Lasciare di nuovo in piedi Hamas che solo ieri ha cosparso Israele di sangue e lutto? Si discute, mentre intanto si cerca di distruggere le strutture principali. Ma non basta. La deterrenza non è mai sufficiente. Ci vuole la prevenzione.
(articolo pubblicato da Il Giornale e ripreso con il consenso dell’autrice)
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